La redazione di Esonet.it è lieta di presentare, in anteprima assoluta per internet, un documento assai raro di Arturo Reghini. Si tratta del saggio “la Tragedia del Tempio”, estratto dalla rivista “Salamandra” N. 2. ANNO I. del 20 marzo 1914; viene riprodotto anche il frontespizio con dedica autografa “A Ugo Tommei augurandogli di diventare un Perfetto!”.

O milizia del ciel cu'io contemplo (Par. XVIII)
Il diciannove marzo 1314, al tramontare del sole, aveva il suo epilogo in Parigi, in una isoletta della Senna, una delle più grandi tragedie che la storia ricordi.
Sopra un rogo eretto a gran furia dai soldati di Filippo il Bello nell'isola degli Ebrei accanto al palazzo reale, due eretici relapsi venivano uccisi a fuoco lento. Sdegnato il perdono offerto loro per una ritrattazione, sopportavano in silenzio con sovrumana forza e serenità quel tormento di poche ore che ne coronava un altro di anni, e tra il fumo e le fiamme perveniva sino a loro la simpatia della moltitudine reverente all'intorno ed il bacio del sole morente. Jacques de Molay, Gran Maestro dell'Ordine del Tempio, e Geoffroi de Charney, Maestro per la Normandia , ritraevano la loro coscienza in quell'interno dominio di pace che la carità cristiana, né per ferro né per fuoco, può togliere agli uomini di buona volontà. Vuole la tradizione, e nessun storico può dimostrarla errata, che Jacques de Molay prima di abbandonare i sensi parlasse al popolo dall'alto del suo patibolo.
Venerando nell'aspetto, grande ancora negli animi per la potenza avuta, reso sacro dal martirio, egli invocò sull'Ordine la protezione di San Giorgio, il santo dei cavalieri, e citò a comparire dinanzi al tribunale, per rendere conto dei loro delitti, il papa entro un mese ed entro un anno il re.
Moriva Clemente V poco più di un mese dopo, corroso il corpo dal lupus e l'animo, forse, dal rimorso per i suoi grandi delitti: l'avvelenamento di Enrico VI, la rovina dei Beguini e quella dei Templari. E sette mesi dopo rendeva la poco bella anima a Dio Filippo IV, ancora giovine, per un accidente di caccia.
Non ci è possibile esporre sia pure per sommi capi la storia dell'Ordine, e ci contenteremo per la intelligenza dell'argomento di tratteggiare a grandi linee il processo e la condanna dei cavalieri Templari. Rimandiamo per il resto il lettore alle opere non numerose né definitive sopra l'interessante soggetto.
H. C. Lea vi ha dedicato un centinaio di pagine della sua Storia dall'Inquisizione nel medio evo; poiché, secondo il Lea, il processo dei Templari è un esempio tipico del procedimento inquisitoriale; è chiara in esso la disperata condizione, senza difesa, della disgraziata vittima; una volta caduta sotto la terribile accusa di eresia e presa nell'inesorabile ingranaggio della macchina inquisitoria. Tutti i documenti e le storie di questo processo narrano infatti una storia di crudeltà e di perfidie, di abusi e di orrori indicibili.
L'accusa generica di eresia formulata contro l'Ordine da Filippo il Bello, coll'aiuto compiacente dell'inquisitore di Francia, si precisava in accuse particolari grossolane, risibili, assurde per loro stesse. Si pretendeva che al ricevimento di un neofita il precettore lo conduceva dietro l'altare, od in sacrestia od in altro posto segreto, gli mostrava un crocifisso, gli faceva rinnegare Gesù e lo faceva sputare tre volte sulla croce. Che il neofita veniva spogliato e che il precettore lo baciava tre volte, sulle natiche, l'ombelico e la bocca. Che gli si dichiarava allora legittimo l'amore innaturale (unnatural lust, dice il Lea), assicurandolo che era molto praticato nell'Ordine. Che la corda portata dai Templari giorno e notte sopra la camicia come simbolo di castità, si consacrava avvolgendola intorno ad un idolo avente forma di testa umana con una grande barba, e che questa testa (il famoso Baphomet), benché nota al solo Gran Maestro ed agli anziani, veniva adorata nei Capitoli. Si accusavano, infine, i preti dell'Ordine di non consacrare l'ostia nella celebrazione della messa.
Queste le pazze accuse, incoerenti, inverosimili per qualsiasi cervello non fosse stato irrimediabilmente deformato dal fanatismo cattolico, e queste le accuse che i poveri Templari dovettero confessare per non morire sotto la tortura.
L'Inquisitore di Francia, dunque, presa conoscenza in virtù del suo ufficio dell'accusa di eresia, invitava Filippo ad arrestare quei cavalieri che si trovassero nei suoi stati e a portarli in esame dinanzi all'inquisizione. La mattina del 13 ottobre 1307 all'improvviso quasi tutti i Templari del Regno venivano presi; nel Tempio di Parigi venivano arrestati centoquaranta Templari con De Molay ed i capi dell'Ordine alla testa; ed il ricchissimo tesoro dell'Ordine cadeva nelle avidissime mani del re, già fortissimamente indebitato coi cavalieri del Tempio. Così ripagava Filippo coloro che lo avevano pochi anni prima protetto e salvato dalla sollevazione popolare provocata falseggiando la moneta.
L'inquisizione si pose subito al lavoro. E lavorò così bene che dei 138 Templari catturati nel Tempio di Parigi, soltanto tre riuscirono a non fare confessione di sorta. La confessione la si faceva fare, a dir vero, all'uscita dalla camera di tortura, ed alla vittima si faceva giurare che essa era libera e non obbligata per forza o paura; ma per comprendere che razza di libertà fosse questa basta considerare che la disgraziata creatura sapeva bene come, ritrattando quel che avea detto o promesso di dire sotto la corda, si esponeva a nuova tortura od al patibolo come eretico relapso. Soltanto in Parigi 36 Templari morirono sotto la tortura; e nel resto di Francia la mortalità mantenne questa spaventosa proporzione del venticinque per cento.
Naturalmente De Molay non fu risparmiato. Pare facesse una breve confessione, quantunque i documenti papali concernenti il processo siano così pieni di falsità evidenti da non potere riporre in essi che scarsissima fiducia.
Esaminato di nuovo, ad esempio, sempre per cura di Filippo, che agiva oramai d'amore e d'accordo con Clemente V, De Molay avrebbe confermate le precedenti confessioni e richiesto umilmente l'assoluzione e la riconciliazione.
Or bene, nella bolla papale del 12 agosto 1309, emessa cinque giorni prima che questo esame avesse principio, se ne trovano riferiti i risultati, senza omettere, si capisce, che le confessioni furono libere e spontanee. Nessuna maraviglia, dunque, se nel novembre, quando una commissione papale lesse questa bolla papale a De Molay, egli restò sbalordito; e poi, indignato, augurò che piacesse a Dio si tenesse verso persone così perverse l'abitudine dei Saraceni o dei Tartari che decapitavano o tagliavano in due quelli che falsavano il vero.
I principi cristiani, cui Filippo aveva annunciata la scoperta della Eresia dei Templari, istigati da Clemente V, procedettero anch'essi contro i cavalieri, perseguitati in tal modo per tutta l'Europa e fino nelle lontane isole del Mediterraneo; e tranne in alcuni paesi come l'Aragona e l'Inghilterra dove i templari avevano amichevoli relazioni con quei re, la persecuzione non conobbe pietà. Clemente V infatti che aveva convocato il Concilio di Vienna per giudicare l'Ordine del Tempio come corpo, aveva gran furia, e poiché gli premeva di avere molto materiale da portare ai Concilio, eccitava i tribunali a procedere etiam contra faris regulam.
Ed i tribunali raddoppiavano di zelo; si torturavano di nuovo i poveri prigionieri, e si ardevano coloro che si rifiutavano di confermare le precedenti confessioni. Gli ufficiali ed i membri dell'Ordine erano oramai sparsi per le prigioni di Europa; pure il papa ebbe l'impudenza di citare l'Ordine a comparire dinanzi al Concilio mediante i suoi delegati e procuratori.
Il papa si riserbava di giudicare direttamente De Molay ed i principali ufficiali dell'Ordine; e si destreggiò in modo da impedir loro di comparire dinanzi al Concilio. Gli altri cavalieri, dispersi, isolati, sbigottiti, abituati ad obbedire e non a prendere iniziative non seppero né poterono efficacemente difendere l'Ordine.
Clemente, poiché l'Ordine non aveva mandato i suoi capi e procuratori a difenderlo, ne propose senza altro la condanna. Fu nominata una commissione per discutere la cosa ed ascoltare i rapporti . degli inquisitori; ed ecco un giorno dinanzi a questa commissione si presentano sette templari offrendosi di difendere l'Ordine in nome di duemila cavalieri, erranti per le montagne del lionese. Invece di ascoltarli il papa li fa porre in prigione; alcuni giorni dopo due eroi compaiono a ripetere l'offerta, non sgomentati dalla sorte dei loro fratelli, ed anche questi Clemente fa imprigionare. Il Concilio esitava dinanzi all'infamia di una condanna senza difesa; senza le pressioni del papa e di Filippo non avrebbe forse condannato i templari; e l'essere scomparsi gli atti del Concilio di Vienna dagli archivi papali è abbastanza significativo. Ma Filippo il Bello agitando lo spauracchio della questione della condanna di Bonifacio VIII per eresia, che portava naturalmente ad infirmare la validità delle nomine cardinalizie di Bonifacio e quindi anche la validità della stessa elezione di Clemente V, riuscì a fare prevalere la sua volontà.
Nel marzo 1312 Clemente presentava ad un concistoro segreto di prelati e di cardinali una bolla, nella quale, dopo avere ammesso che le prove raccolte non giustificavano canonicamente la definitiva condanna dell'Ordine, invocava lo scandalo oramai caduto su di esso e la necessità di provvedere ai suoi possessi in Terra Santa per sopprimerlo provvisoriamente. Un mese dopo per altro, un'altra bolla con ordinanza apostolica aboliva provvisionalmente ed irrevocabilmente l'Ordine, lo poneva sotto perpetua inibizione, e scomunicava ipso facto chiunque avesse voluto entrare in esso e portarne l'abito. Le grandi proprietà dell'Ordine del Tempio venivano trasferite a quello degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme; ma fu eredità quasi nominale tanto larga breccia vi fecero colla violenza e colla frode Filippo ed altri principi. I cavalieri infine venivano rinviati al giudizio dei concilii provinciali, ad eccezione del Gran Maestro e dei capi.
Per investigare i procedimenti tenuti contro di essi, ed assolverli o condannarli Clemente nominò una commissione di tre cardinali, che, insieme ad altri prelati, emisero una sentenza di perpetua prigionia. Il 19 marzo 1314 Jacques De Molay, Hugues de Peraud, Visitatore di Francia, Geoffroi de Charney, e Godefroi de Gonneville furono tratti dalle prigioni dove avevano languito per quasi sette anni, e furono condotti sopra un palco eretto dinanzi a Nótre Dame per sentirsi leggere questa condanna. Tutto sembrava così finito, quando, tra la meraviglia della moltitudine raccolta all'intorno e lo sgomento dei prelati, De Molay e Geoffroi de Charney si alzarono. E si dichiararono colpevoli non dei delitti loro imputati, ma di non avere difeso l'Ordine per salvare la loro vita; l'Ordine era puro e santo, false le accuse, strappate le confessioni. Cosi dicendo, essi ben sapevamo quale sarebbe stata la inevitabile conseguenza.
Quando Filippo seppe della inattesa novità andò su tutte le furie; ma il caso era semplice, le leggi canoniche prescrivevano che un eretico relapso doveva bruciarsi senza neppure ascoltarlo; i fatti erano manifesti e non occorreva aspettare il giudizio formale di una commissione papale, bastava un breve consulto col suo concilio.
Lo stesso giorno, al tramonto, il rogo dislegava quelle due grandi anime da ogni nube di mortalità. Mancò agli altri due il coraggio di imitarli, accettarono la condanna e perirono miseramente in prigione.
L'eresia Templare
In questo modo cadeva il grande Ordine militare e contemplativo ad un tempo, che riuniva insieme i due caratteri che l'India aveva separato nei due ashramas dei Brahmani e degli Kshatria.
Furono i templari veramente colpevoli di eresia? Ebbero essi in realtà l'intenzione di formarsi un dominio temporale? Dopo sei secoli la questione non è stata ancora risolta; ed anche il Lea, che pure trova nel fattore economico la spiegazione della tragedia templare, riconosce che essa promette di rimanere uno dei problemi insoluti della storia.
Che Filippo IV, indebitato coll'Ordine, finanziariamente rovinato al punto da battere moneta falsa, abbia agito per avidità non vi è nessun dubbio; anche Dante, testimone autorevole, lo investe con tutta la sua potenza accusandolo di avere portato nel tempio le cupide vele; ma la verità di questo fatto non basta per escludere la loro eresia, e se la sola cupidigia avesse spinto Filippo, egli avrebbe forse rivolto le medesime accuse contro l'Ordine degli Ospitalieri, anche più ricco di quello del Tempio. È ben vero che a Filippo, tutto inteso a rafforzare ed estendere “il suo dominio in Francia, doveva dare molta ombra la potenza dei templari, completamente indipendenti” da lui ed anche dal papa, perchè di fatto l'unica autorità temporale e spirituale era pei templari quella del loro Grande Maestro. E tanto più doveva impensierirsi Filippo in quanto che De Molay aveva trasportato il quartiere generale dell'Ordine da Cipro in Parigi, cosa abbastanza strana per un Ordine avente l'unico scopo designato di combattere in Terra Santa, e molto inquietante per il recente esempio dei cavalieri teutonici che si erano creati un dominio nella Germania settentrionale.
Egoisticamente e politicamente parlando, Filippo aveva tutte la ragioni per agire come fece; ma queste ragioni puramente economiche e politiche sufficienti a spiegare l'azione del re di Francia, non sono invece sufficienti ad escludere la possibilità dell'eresia templare.
Naturalmente non intendiamo parlare di un'eresia meschina, come quella compendiata nelle ridicole accuse riferite più innanzi, né di una semplice eterodossia formalistica, ma di una possibile eresia molto più radicale, di una autonomia nei capi mentale e spirituale dall'autorità cattolica, e che base e risultante ad un tempo di una maturità interiore, si elevava senza altro al di sopra di ogni espressione in credi, formule, emblemi e cerimonie.
Metafisicamente parlando è fuori dubbio che la rigidità della disciplina e l'abdicazione della individualità doveva portare anche nei templari a quella superiorità spirituale che ne è la naturale conseguenza, e che è manifesta, per esempio, nei Gesuiti, un Ordine molto simile al templare per la ferrea disciplina, lo spirito gerarchico ed altri caratteri.
Per noi la falsità delle accuse di grossolane pratiche eretiche è evidente; e così pure che le confessioni si dovettero soltanto alla tortura od alla paura della tortura; ma come la Massoneria è profondamente anticristiana pur non essendo vera l'accusa fatta ai Massoni di sputare sopra le ostie consacrate o di trafiggerle col pugnale, così la questione della possibilità dell'eresia templare, intesa in un senso più profondo e più serio rimane aperta, e noi vogliamo esaminarla un momento pure sapendo che il solo ausilio delle considerazioni storiche non può condurre a deciderla definitivamente in un senso o nell'altro.
Ricordiamo lo sfondo storico della questione: la grande lotta tra la Chiesa e l'Impero, ricordiamo il pullulare delle eresie per tutta la Francia, l'Italia e gran parte dell'Europa, e la naturale simpatia degli eretici per i ghibellini. E consideriamo l'importanza che doveva avere agli occhi dei contendenti un Ordine possente, ricchissimo, indipendente e per giunta ravvolto nel segreto. Assolutamente autonomo per la bolla stessa di fondazione e poi brevi papali, impenetrabile agli estranei grazie al mistero, organicamente omogeneo ed obbediente alla autorità assoluta del Gran Maestro, esso costituiva un perfetto e temibile strumento di azione, uno strumento ideale per chi avesse voluto tentare un travolgimento sociale od anche soltanto isolarsi come in una medioevale fortezza dalle autorità e dalla società di quel tempo. La mancanza di prove materiali non basta per escludere che dalla fondazione dell'Ordine od in seguito, la Grande Maestranza abbia potuto trovarsi nelle mani di uomini liberi da devozione verso la Santa Sede ed anche dalla credenza cristiana; che anzi, se gli intendimenti eretici vi furono, ogni prova materiale deve essere stata accuratamente evitata perchè troppo pericolosa dato il fanatismo e la inquisizione, e perchè ogni legame esteriore era superfluo in una società che traeva la sua forza, non da una comunità di credenze ma dalla ferrea legge per la quale i fratelli dovevano obbedire passivamente agli ordini del loro capo. L'Ordine del Tempio, infine, era un ordine militante e non missionario, e, se eretico, non colla propaganda ma coll'azione doveva cercare di opporsi alla religione dominante (vedi
L'Ordine monastico-combattente).
Inutile dunque cercare negli archivi la prova dell'eresia templare; in mancanza di mezzi migliori solo l'analisi della loro attitudine ed il concetto tradizionale rimastone potranno illuminare la questione.
E ciò nonostante attraverso alla necessaria apparente ortodossia della stessa regola dell'Ordine si possono trovare degli indizi molto interessanti. Il paragrafo 12, per esempio, della Regie du Tempie pubblicata a cura di Henri de Curzon permette all'Ordine di cercarsi delle reclute tra i cavalieri scomunicati, aprendo così un comodissimo rifugio a tutti i perfetti, i catari, gli albigiesi, patarini ed eretici di ogni specie. Molto significativa è anche la grande rassomiglianza tra l'Ordine del Tempio e l'Ordine degli Assassini, la potente contemporanea associazione orientale dipendente dalla autorità assoluta del Vecchio della Montagna. Simili nei due Ordini il segreto, le iniziazioni, i lavori, l'organizzazione, lo spirito di gerarchia e la disciplina.
Nella lotta tra Chiesa ed Impero i templari non potevano apertamente manifestare le loro simpatie perchè la funzione dell'Ordine era esplicitamente un'altra. Pure quando Urbano IV preparava una crociata contro Manfredi troviamo che Etiénne de Sissy, maresciallo dell'Ordine e Precettore di Puglia, rifiutò di dare al papa il suo aiuto; ed al papa che gli ordinò di dimettersi dalla sua carica, rispose audacemente che nessun papa si era mai immischiato degli affari interni dell'Ordine, e che egli avrebbe rassegnato il suo ufficio solo al gran Maestro che glielo aveva conferito. Urbano lo scomunicò, e l'Ordine lo sostenne rimproverando al papa di volere distrarre per la crociata contro Manfredi le forze destinate per la guerra in Palestina.
Un'altra forte presunzione di eresia si può trovare interpretando il canto chiuso dei poeti d'amore, ed il simbolismo della gaia scienza dei trovatori che prendevano tanto volentieri a soggetto delle loro canzoni il leggendario Ordine del Graal, di cui quello del Tempio pareva la reale manifestazione.
Il posto che Dante dà ai templari nella Divina Commedia mostra quale importanza avesse secondo lui l'Ordine nella vita politica del suo tempo. Dante, che ha attaccato così: fieramente i francescani ed i domenicani ed in generale i papi, la Chiesa ed il clero, non ha una sola parola contro i templari, anzi ne prende apertamente le difese; ed i templari, Filippo il Bello e Clemente V costituiscono grandissima parte della allegoria politica della Commedia.
Per tutto il poema li tiene sempre presenti; inveisce contro il papa e contro Filippo ogni volta che ne ha l'occasione, invoca la vendetta di Dio contro di loro e nella grande visione finale del Purgatorio raffigura nella meretrice la Chiesa e nel gigante che delinque in sua compagnia Filippo. Clemente V ha il suo posto bello e pronto tra i simoniaci perchè agi per denaro contro i templari, e, per vendicare la morte di J. de Molay bruciato vivo col capo in alto, Clemente è destinato ad andare a prendere il posto di Bonifacio e quindi a bruciare col capo all'ingiù: e farà quel d'Alagna esser più giuso.
E questo dice Dante dopo aver fatto pochi versi innanzi la glorificazione dell'imperatore e delle bianche stole, cioè dei Templari.
Dante, infatti, ben sapendo che per la regola Temprare, inspirata da San Bernardo, l'abito bianco colla croce rossa era riservato ai soli templari, e ben conoscendo la bolla di Clemente V che scomunicava ipso facto chi avesse osato indossare l'abito dei templari, riveste della bianca stola i beati del Paradiso, approfittando abilmente del comodo riparo offerto da un passo dell'Apocalisse; ed è S. Bernardo, anche egli rivestito dalla bianca stola (come Dante si prende cura di specificare) che lo scorta all'ultima visione. Così facendo egli sfidava deliberatamente la Chiesa; e questa apologia e glorificazione palese e coperta è troppo calorosa ed insistente, il dolore e lo sdegno troppo possenti per non essere intimamente legati agli ideali più cari a Dante; l'avere fatto della tragedia templare un elemento fondamentale dell'allegoria politica induce a ritenere che nel suo pensiero l'Ordine del Tempio era strettamente associato a quella sua Monarchia condannata per eresia dalla Chiesa.
L'ortodossia cattolica dei templari, come quella di Dante, è dunque più che sospetta agli occhi dell'osservatore spregiudicato e non superficiale. E questa impressione si accorda perfettamente col concetto tradizionale dell'Ordine del Tempio trasmessoci dalle società segrete posteriori.
L'eredità templare
La tradizione afferma intanto che l'Ordine continuò ad esistere anche dopo e nonostante la condanna papale. In un libro raro e segreto – A Sketch of the History of the Knights Templars – stampato a soli cento esemplari nel 1833, di cui è autore James Burnes, Grande Officiale dell'Ordine del Tempio, si racconta che Jacques de Molay, prevedendo il suo martirio, nominasse a suo successore in potere e dignità Giovanni Marco Larmenio di Gerusalemme.
E da allora sino ad oggi la linea dei Grandi Maestri si è mantenuta regolare ed ininterrotta; l'originale della carta di trasmissione firmato da tutti i Grandi Maestri e che il Burnes riporta nel suo libro, si trova a Parigi, insieme agli antichi statuti, rituali, sigilli, ecc.; e nel convento generale dell'Ordine tenuto a Parigi nel 1810 venne esaminato da circa duecento cavalieri Templari.
Nel 1811 Napoleone fece chiamare il Gran Maestro dell'Ordine, Bernard Raymond, e gli ordinò che la celebrazione dell'anniversario del martirio di J. Molay si facesse pubblicamente con grande pompa religiosa e militare. Grandissimo fu lo stupore ed infiniti i commenti provocati da questa grande cerimonia pubblica; ben pochi arrivarono infatti a comprendere perchè mai Napoleone potesse dare tanta importanza alla tragedia avvenuta cinque secoli prima; ma forse qualcuno dei nostri lettori avrà intuito le profonde ragioni ideali dell'interesse imperiale, e legato in una visione sintetica gli uni agli altri gli avvenimenti dei due tempi.
Altri documenti e manoscritti che riferiscono la storia dell'Ordine prima e dopo la condanna si trovano negli archivi del Grand Prieurè Indépendant d'Helvétie (vedi Rituali Gran Priorato Indipendente Elvetico), che è oggi la quinta provincia dell'Ordine del Tempio. Secondo questi manoscritti, in armonia colla tradizione massonica, i Templari sfuggiti al disastro in Svezia, Norvegia, Irlanda e Scozia continuarono l'Ordine e per meglio sfuggire alle persecuzioni si nascosero entro la corporazione dei Liberi Muratori, continuando dentro di essa ed in segreto il loro Ordine. Si permise ai cavalieri di ammogliarsi per potere continuare l'Ordine nei loro figli; e per maggiore sicurezza per circa tre secoli nessun estraneo venne iniziato al grado di Maestro Scozzese, riserbando tale grado soltanto ai figli dell'Ordine.
Sopra i legami e la derivazione della Massoneria dall'Ordine del Tempio tutti gli autori massonici si trovano d'accordo.
Senza addentrarci nelle complicatissime questioni di esegesi massonica ricordiamo come il rituale e conseguentemente i lavori del grado più importante del rito Scozzese, il 30° o Cavaliere Kadosh (vedi Rituale per il Sublime Areopago dei Cavalieri Kadosch), si ispira unicamente al martirio di J. de Molay; e la parola di passo del grado pare tolta di peso dai versi nei quali Dante invoca la vendetta divina sopra Clemente V e Filippo il Bello. E poiché lo spirito eretico, radicalmente anticristiano dell'Ordine massonico non discende certo dalle innocenti gilde e corporazioni medioevali di muratori, è ben presumibile che in ultima analisi risalga proprio all'Ordine templare. In ogni modo è certo che il grado politico del Rito Scozzese, il rito massonico più diffuso, trae dai Templari la sua derivazione ideale; vendetta, vendetta, o Signore, grida anche oggi il cavaliere templare.
E la vendetta si è parzialmente compiuta per opera appunto della Massoneria.
E quasi a rendere evidente il carattere fatale della rivoluzione, la nemesi dei re di Francia li portava ad espiare il delitto di Filippo proprio nel quartiere generale dell'Ordine, divenuto per essi la prigione del Tempio.
Ivi su'l medio evo il secolare
Braccio discese di Filippo il Bello
Ivi scende de l'ultimo Templare
Su l'ultimo Capeto oggi l'appello.
Ed è fama che il giorno della esecuzione di Luigi XVI, un gigante orribile e barbuto, una specie di genio diabolico della rivoluzione, sempre presente quando vi erano preti da strozzare, montò sul patibolo e, prendendo a piene mani il sangue reale, ne spruzzò le teste all'intorno gridando: Peuple francais, je te baptise au nom de Jacques et de la liberté.
La continuazione esteriore dell'Ordine del Tempio ed il concetto rimastone nell'Ordine massonico si accordano dunque nell'indicarci la profonda eterodossia del grande Ordine medioevale.
La massoneria ed i numerosi ordini templari oggi esistenti sono gli eredi storici, esteriori dell'Ordine del Tempio. Ma la continuazione interiore, spirituale non pare oramai associata a questa esteriore derivazione. La Massoneria e gli Ordini da essa procedenti nei paesi anglosassoni si perdono quasi unicamente in opere di beneficenza ed in magnifiche cerimonie che sembrano fatte apposte per appagare la curiosa passione del pageant; e nei paesi latini la massoneria, rinnegato il suo patrimonio filosofico sociale per accattare un informe arsenale di ferri vecchi dai materialisti tedeschi ed un incoerente bric à brac di luoghi comuni dai rigattieri della democrazia francese, si è ridotta a fare da mezzana ai partiti politici democratici e da spaventapasseri per le animuccie cristiane.
È vano sperare da essa il compimento della vendetta templare.
Pure l'eredità templare non può essere andata perduta, pure è fatale che la vendetta si compia e che perisca di spada chi di spada ha ferito. Coloro che conoscono la immateriale indistruttibile natura degli esseri vedono nella perennità puramente spirituale delle individualità la base e la prova di una reale eredità; e quando questa vi è, non è questione che di tempo e di contingenze perchè se ne veda la inesorabile manifestazione nel mondo degli uomini. 
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* Brevi note su Arturo Reghini
Per gentile concessione della Prof.ssa Lidia Reghini di Pontremoli (www.reghini.net)

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“(…) Il matematico ed erudito fiorentino Arturo Reghini (1878-1946), alto dignitario della Massoneria prima del suo scioglimento ad opera del fascismo, fu il più noto esponente del neo-pitagorismo del XX secolo e teorico dell'“Imperialismo Pagano”.
Fu amico di Giovanni Amendola e di Giuseppe Papini, personaggio di punta della scapigliatura fiorentina all'epoca delle riviste “Leonardo”, “Lacerba” e “La Voce”, fu a sua volta fondatore delle riviste “Atanòr” (1924). “Ignis” (1925) e – con Julius Evola – “Ur” (1927-1928). Alla sua opera sono legate la riproduzione della “magia colta”, neo-platonica e rinascimentale. Che contrappose al Cristianesimo come via d'accesso al divino, ed una critica radicale dell'occultismo e degli pseudo-esoterismi moderni. In collaborazione con René Guénon, auspicò la rinascita spirituale dell'Occidente attraverso la formazione di un'élite iniziatica nel quadro di un processo di rigenerazione della Massoneria, in cui vedeva un residuo “deviato” di un'antica organizzazione ermetico-pitagorica, d'origine pre-cristiana ed erede degli antichi Mestieri. |
Già in vita, sul suo conto s'era formata una corposa leggenda di “mago”e di facitore di prodigi, arricchitasi con il tempo di altre fantasiose aggiunte (…)”. (da: N. M. di Luca, Arturo Reghini, cit.). (torna al testo)
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Inoltre:
Del Ponte R., Evola e il magico “gruppo di Ur” .
Evola J., [la direzione di Ur], Diffida contro Ignis, in ‘Krur', n.2, cit. in R. del Ponte , “Evola e il magico gruppo di Ur”
De Giorgio G., Lettere di R. Guénon, pubbl. in appendice a “L'Istant et l'Eternité”
Scritti di Arturo Reghini (essenziale)
Reghini A., cfr. gli scritti su ‘Il Leonardo', a.III,-V, Firenze 1905-06;
Reghini A. [A.R.], Giordano Bruno smentisce Rastignac, in ‘Leonardo', a.IV, Firenze 1906;
Reghini A. [Alaya], Mors Osculi, in ‘Il Leonardo', a.IV, 1906;
Reghini A. [Svasamdevana], Istituzioni di scienza occulta, in ‘Leonardo', a.IV, Firenze, 1906;
Reghini A. [Il Fratello Terribile], La Massoneria come fattore intellettuale, in ‘Leonardo', a.IV, 1906, pp. 297-310;
Reghini A., La vita dello spirito, conferenza, Biblioteca Filosofica, Firenze, 1907;
Reghini A., Il dominio dell'anima, conferenza, 1907;
Reghini A., Il punto di vista dell'occultismo, in ‘Leonardo', a.V, Firenze, aprile 1907, pg. 144
Reghini A., La vita dello Spirito, conferenza alla Biblioteca Filosofica di Firenze, 1907;
Reghini A., Per una concezione spirituale della vita, Biblioteca Filosofica, Firenze 1908;
Reghini A., Imperialismo pagano, in ‘Salamandra', n.14, 1914;
Reghini A., La Tradizione Italica, in ‘Ultra', n.2, aprile 1914, pp.68-70;
Reghini A., lettera, in ‘Ultra', aprile 1914;
Reghini A., Due parole al dott. Frosini. La polemica su Zaratustra, in ‘Rassegna Massonica', nn.8-9-10, 1921;
Reghini A., Le parole sacre e di passo dei primi tre gradi ed il massimo mistero massonico. Studio critico ed iniziatico, ed. Atanòr, Todi 1922;
Reghini A., traduzione del libro di Stevenson R ., Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde, ed. Voghera, Roma 1923;
Reghini A., Notarelle iniziatiche: sull'origine del simbolismo muratorio, in ‘Rassegna Massonica', 1923;
Reghini A., L'intolleranza cattolica e lo Stato, in ‘Rassegna Massonica', nn.8-9, 1923;
Reghini A., Le basi spirituali della Massoneria, in ‘Rassegna Massonica', nn.8-9, 1923;
Reghini A., Libertà e Gerarchia, in ‘Rassegna Massonica', n.11, 1923;
Reghini A., L'iniziazione democratica, in ‘Rassegna Massonica', nn.1-2, 1924;
Reghini A., Si può dire Massoneria?, in ‘Rassegna Massonica', 1924;
Reghini A., trad. del testo di R.Guénon L'esotérisme du Dante, in ‘Atanor', a.I, n.4, Roma 1924;
Reghini A. [Maximus], Una rinascita pitagorica, in ‘Atanòr', I, gennaio-febbraio 1924;
Reghini A. [Maximus], Tra libri e riviste – Elogi e critiche di Atanòr, in ‘Atanòr', I, Roma ottobre-novembre 1924, nn.10-11;
Reghini A., recens. del libro di R.Guénon, Orient et Occident, in ‘Atanòr', cit., Roma 1924;
Reghini A. [Maximus] , Imperialismo Pagano, in ‘Atanòr', Roma 1924;
Reghini A. [Maximus], Piccola Cronaca Marinista, in ‘Atanòr', a.I, nn.1-2, Roma gennaio-febbraio 1924;
Reghini A., Campidoglio e Golgota, in ‘Atanòr', a. I, n.5, maggio 1924;
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Reghini A., Ex-Imo, in ‘Ignis', cit., agosto-settembre 1925;
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Reghini A. [Piero Negri], note e commento di Apathanasthimos, (Rituale mithriaco del “Gran Papiro Magico di Parigi- Introduzione alla Magia' (collezioni di ‘Ur'e ‘Krur')
Reghini A. [Pietro Negri], Sub specie interioritatis
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Reghini A., [Pietro Negri] L'androgine ermetico e un codice plumbeo alchemico italiano, ripubblicato in appendice in ‘Un libretto di alchimia inciso su lamine di piombo nel secolo XIV', a cura di S.Andreani, cit., Roma, 1979;
Reghini A. [Pietro Negri], Sulla tradizione occidentale
Reghini A. [Pietro Negri], Il linguaggio segreto dei “Fedeli d'Amore”
Reghini A. [Pietro Negri], Dell'opposizione contingente allo sviluppo spirituale
Reghini A., Dei numeri Pitagorici. Prologo, Roma 1936;
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Reghini A., Considerazioni sul Rituale dell'apprendista libero muratore con una nota sulla vita e l'attività massonica dell'Autore di Giulio Parise, Edizioni di Studi Iniziatici, Napoli, s.d. [1946?]
Reghini A., I numeri sacri nella tradizione pitagorica e massonica, Casa Editrice.Ignis, Roma, 1947;
Reghini A., Le Nombres Sacrés dans
Reghini A. [Pietro Negri], Avventure e disavventure in magia. Il gruppo di Ur. Introduzione alla magia, rist.,vol. I, ed. Mediterranee, Roma 1978, pg. 388;
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Reghini A., Paganesimo, Pitagorismo, Massoneria, rist. , Società Editrice Mantinea, Funari (Messina) 1986;
Reghini A., Le Faisceau de Licteurs et son symbolisme duodécimal suivi de L'Universalité romaine et celle du catholicisme et de La tragédie du Temple, rist., ed. Arché, Milano 1987;
Reghini A., I Numeri Sacri nella Tradizione Pitagorica Massonica , Roma 1988 (rist.);
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Reghini A., Aritmosofia, rist., ed. Archè-Edizioni Pi-Zeta, San Donato (Milano) 2000;
