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SviluppoCoscienziale: La vita come giuoco e come rappresentazione /1
Argomento:Psicosintesi

PsicosintesiDi solito nella vita «ci si lascia vivere», mentre il vivere è un'arte e dovrebbe essere la più grande delle arti belle. Come ogni arte ha le sue tecniche, così anche l'arte di vivere ha due aspetti entrambi necessari: ispirazione e tecnica.

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La vita come giuoco e come rappresentazione /1

di Roberto Assagioli

prodotto per Esonet.it

 

Di solito nella vita «ci si lascia vivere», mentre il vivere è un'arte e dovrebbe essere la più grande delle arti belle. Come ogni arte ha le sue tecniche, così anche l'arte di vivere ha due aspetti entrambi necessari: ispirazione e tecnica.

Ora parlerò della vita come giuoco e come rappresentazione. Parlare del giuoco non è facile, anzi... è una cosa seria, poiché il concetto di giuoco è complesso, poliedrico, sfuggente; si potrebbe dire che esso «giuochi a rimpiattino» con chi cerca di precisarlo e di definirlo! Infatti vi sono molte teorie sul giuoco. Il Huizinga nel suo libro Homo Ludens (Paris, Gallimard, 1951) ne elenca una dozzina:

1. Scarica dell'eccesso di vitalità. 2. Bisogno di rilassamento. 3. Esercizio preparatorio all'attività seria. 4. Allenamento all'autodominio. 5. Desiderio di dominio. 6. Desiderio di competere. 7. Scarica innocua di tendenze nocive. 8. Attività compensatoria. 9. Appagamento fittizio, immaginativo, di desideri che non possono essere appagati, nella realtà; ecc.

Ognuna di queste teorie mette in luce un aspetto del giuoco, ma ciascuna di esse è parziale. Vi è una considerazione preliminare, di principio, da fare, cioè: bisogna distinguere le funzioni del giuoco, che sono quelle indicate dalle teorie che ho menzionate, dalla natura del giuoco. La sua natura, in quanto attività psichica soggettiva, dipende dallo stato d'animo, dall’atteggiamento interno di chi giuoca.

Così si può arrivare ad avere un concetto più preciso del giuoco. Infatti una stessa attività può essere, o non essere, «giuoco», a seconda dell'animo, dell'intenzione, dello scopo con cui si compie. Questo è chiaro, ad esempio, nello sport. Lo sport nella sua vera natura, e nel suo significato originario è giuoco, ludus, vien fatto per 'diporto'. Ma ora vien fatto in modo sempre più «serio» con scopi ad esso estrinsechi: ambizione, guadagno, ecc.; in tal modo perde la sua qualità di giuoco, e acquista quella di lavoro, di professione. Ma lo «sport professionale» non è più vero e proprio sport.

Si può dire che in realtà non c'è una linea netta di demarcazione fra «giuoco» e «non giuoco», o, più precisamente, che le proporzioni fra l'atteggiamento e il comportamento giocoso o quello «serio», nel senso ristretto della parola, sono variabili nei diversi casi; anzi esse talvolta mutano durante il corso dello stesso giuoco. Un esempio di ciò è dato dai bambini che cominciano a far la lotta per giuoco, ma che poi si arrabbiano e si picchiano sul serio. Quanto poi a quello che è chiamato giuoco d'azzardo, spesso non è affatto «giuoco», ma passione travolgente. L'atteggiamento sportivo genuino è quello di voler «giuocar bene», più che di voler «vincere». Sono due cose diverse; il vincere può dipendere dall'inferiorità dell'avversario; da condizioni favorevoli di varia natura; da fattori casuali - e lo stesso vale per il «perdere». Il vero sportivo non tiene a vincere a scapito dello «stile» del giuoco, della correttezza, della lealtà. E, come in altri casi, il non «preoccuparsi» di vincere, favorisce la vittoria!

Vi sarebbe ancora molto da dire sul giuoco e sul modo di utilizzarlo per scopi educativi, psicoterapeutici e di auto-formazione psicosintetica; ma mi sono proposto di parlare soltanto di uno degli aspetti del «giuoco», inteso nel suo senso più largo, cioè la «rappresentazione», la «recitazione».

Fra giuoco e recitazione vi sono affinità e differenze. Le affinità sono indicate dal fatto che in alcune lingue, giuoco e recita vengono designate con la stessa parola. In francese jouer, in inglese to play, in tedesco spielen, significano tanto giuocare, quanto recitare una parte in una rappresentazione teatrale. Le differenze risulteranno evidenti, dal seguito dell'esposizione.

Il «recitare una parte» o meglio delle «parti» nella vita, costituisce una tecnica psicosintetica di importanza fondamentale. Si potrebbe forse considerarla quale la tecnica centrale dell'arte di vivere, con cui tutte le altre sono collegate e da cui in un certo senso dipendono.

Questo potrebbe a tutta prima sorprendere, e forse anche scandalizzare, considerandolo un atteggiamento e comportamento poco «serio». Ma se osserviamo noi stessi e gli altri con sincerità, senza preconcetti e illusioni, dobbiamo riconoscere, anzi constatare, che ognuno di noi rappresenta o «recita» varie «parti» nella vita. Ciò è inevitabile e costituisce la trama dei nostri rapporti interpersonali e sociali. Ma per lo più recitiamo le nostre parti inconsciamente, senza rendercene conto - e perciò le recitiamo male! In realtà lo stesso giuoco, e tanto più il recitare, possono venir fatti non solo seriamente, ma non di rado fin troppo. Ricordiamo che presso i popoli primitivi e nell'antica civiltà, giuoco e rappresentazione avevano un carattere sacro, ed erano considerati come il modo di agire degli Dei. Ricordiamo anche le «Sacre Rappresentazioni» del Medio Evo, che in qualche luogo, come Oberammergrau, continuano tuttora, o vengono riesumate, come a Grassina presso Firenze. Un'ampia documentazione sul «giuoco sacro» si trova nel libro del Huizinga.

Nel mondo moderno, chi ha conferito un profondo significato e un alto compito spirituale alle rappresentazioni teatrali è stato Riccardo Wagner. Egli chiama con una bellissima parola i suoi drammi sacri «Buhnenweifestspiele», cioè «rappresentazioni sacre (o consacrate) e festose».

La concezione della vita come rappresentazione è antica e diffusa; non posso soffermarmi a farne la storia e mi limiterò a qualche accenno. La manifestazione cosmica stessa è stata considerata come un giuoco, una rappresentazione, una danza divina. Ricordiamo la «Danza di Shiva» degli indiani, raffigurata nelle loro sculture. Nella Bibbia, che pure è pervasa di tanta serietà, vi è un passo che dice: «Deus ludit in orbe terrarum» (Dio giuoca sulla terra). Ricorderò un noto sonetto di Tommaso Campanella, di cui citerò soltanto il principio e la fine:

«Nel teatro del mondo, ammascherate l'alme da' corpi, e dagli effetti loro,

e conclude:

«Rendendo al fin di giuochi e risse
Le maschere alla terra, al cielo, al mare
In Dio Veàrem chi meglio fece e disse».

Nel mondo moderno, chi ha più accentuato questo aspetto della vita è stato lo scrittore e commediografo russo Nicola Evreinoff. Nel suo libro «II Teatro della Vita» pubblicato anche in italiano (Ed. Alpes) con una prefazione di Silvio d'Amico, egli parla a lungo di quello che egli chiama «istinto teatrale». Citerò qualche passo caratteristico del suo «inno» intitolato Al mio Dio Teatrarca: «Il mio volto e il mio corpo non sono che maschere e costumi di cui il Padre Celeste ha rivestito il mio io, mandandolo sul palcoscenico di questo mondo, dove è destinato a recitare una data parte... Difficile è la parte che il mio cosmico Direttore di scena, Teatrarca, mi ha affidato questa volta. Ma non trascurerò i doveri e non mi lamenterò. Come si conviene ad un attore nobile e perciò leale, raccoglierò tutte le mie forze, e la reciterò su questo palcoscenico meglio che potrò. E sono convinto che il Teatrarca non mancherà di ricompensarmi per i miei sforzi». (pp. 177-179).

Anche il nostro Pirandello ha svolto questo tema in varie sue commedie, ma la sua concezione è pessimistica; mette in rilievo soltanto gli aspetti fittizi, illusorii, drammatici del «giuoco delle parti». Invece Hermann Keyserling ha interpretato più profondamente di ogni altro i rapporti fra giuoco, rappresentazione e vita vissuta nella dodicesima delle sue «Méditations Sud-Américaines» (Paris, Stock. 1932), intitolata in modo significativo Divina Commedia.

* * *

La recitazione, come tecnica psicosintetica, si basa sulla concezione della struttura psicologica dell'essere umano che ho esposta nel libro «Per l’Armonia della Vita» (seconda edizione: Psicosintesi, Armonia della Vita, Ed. Mediterranee - Roma, 1971) e nel corso di lezioni tenute nell'Istituto di Psicosintesi nel 1963.

Una rappresentazione scenica richiede il contributo e la cooperazione di diversi agenti: l’autore dell'opera teatrale, il regista che la mette in scena, gli attori che la recitano. Orbene, in ognuno di noi, l'autore è, o dovrebbe essere il Sé spirituale, il quale sceglie il tema, il compito, o meglio i compiti, della vita individuale, le parti che la personalità deve «impersonare». Si noti che generalmente ciò avviene senza chiara consapevolezza dell'Io, poiché il Sé spirituale opera dal livello super-cosciente.

L'Io cosciente, il centro della coscienza, ha la funzione di attuare il piano di vita che gli si rivela via via, per ispirazione superiore, per spinta interna, oppure per lo svolgersi delle circostanze della vita; esso è il regista. Il successo della rappresentazione dipende in massima parte da lui, dal suo riconoscimento e dalla sua comprensione della trama della commedia; dalla sua accettazione di essa; dal suo impegno, dalla sua abilità nell'istruire gli attori. Chi sono questi? Sono le varie sub-personalità esistenti in noi.

Nello schema che segue ho raffigurato tre sub-personalità. Una parte di ciascuna entra nell'area della coscienza, ma la parte maggiore opera da vari livelli dell'inconscio; una prevalentemente da quello inferiore, una dall'inconscio medio, l'altra dal supercosciente.

Le subpersonalità

Si noti però che le «sedi» indicate non sono fisse: ognuna delle sub-personalità si può innalzare, abbassare o spostare lateralmente durante lo svolgimento della sua attività. Inoltre a ciascun livello non ve n’è una sola (come è indicato nello schema per ragioni di chiarezza) ma ve ne sono varie!

Ognuna delle sub-personalità svolge una sua funzione specifica, cioè recita una propria «parte» nella vita familiare e sociale. Nella famiglia sono le «parti» di figlio o figlia; di marito o moglie, di padre o madre Nella società sono le varie attività di lavoro e professionali, le varie funzioni pubbliche che uno può svolgere.

Sviluppando l'analogia, esaminiamo anzitutto quali sono i rapporti fra attore e regista, cioè fra il Sé e l'Io cosciente. Tali rapporti possono essere molto diversi; purtroppo spesso vi sono da parte dell'io cosciente incomprensione, interpretazioni sbagliate, renitenze, conflitti. Nei casi migliori, l'io cosciente, grazie alle esperienze che fa, riconosce gradatamente che non è soltanto suo dovere ma il suo vero bene di mettersi d'accordo col Sé e cooperare con lui.

Vi sono poi i rapporti fra il regista e gli attori; qui il successo dipende dall'abilità e dall'autorità del regista, dalla sua volontà, dalla sua capacità di dirigere, di insegnare. Suoi compiti sono: l'allenamento dei singoli attori; la loro azione combinata; poi la messa in scena della commedia. Nella vita ciò significa sviluppare, allenare, armonizzare e far cooperare fra loro le nostre varie sub-personalità.

Vi sono poi le «prove»; prima di una recita il regista fa «provare» più volte le varie scene. Queste prove corrispondono all'«allenamento immaginativo», che dovrebbe venir fatto prima di compiere ogni «parte» nella vita. Tali «prove» hanno una funzione affine a quella che ha il giuoco come preparazione alla vita. Questo metodo dovrebbe essere molto più - e soprattutto meglio - utilizzato nell'educazione familiare, e anche in quella scolastica.

Uno degli aspetti più importanti e illuminativi dell'analogia fra recitazione e vita, è quello dei rapporti fra la personalità detrattore, quale essere umano a sé stante, come uomo o donna, e i personaggi che via via «impersona», le sue «maschere» in senso psicologico. Qui si presentano due problemi importanti e che sono stati molto dibattuti:

Fino a quale punto un attore si immedesima nel personaggio che rappresenta?

Recita meglio chi si immedesima al massimo grado, oppure chi resta distaccato psicologicamente dalla sua parte e mantiene chiara la sua coscienza di osservatore e regolatore del proprio comportamento?

Vive discussioni in proposito sono state suscitate dal Diderot, il quale nel suo libretto Le Paradoxe du Comédien ha affermato che «l'estrema sensibilità nel senso di emozione, rende gli attori mediocri, mentre la completa assenza di sensibilità prepara gli attori sublimi». La tesi, esposta in modo così assoluto, appare veramente paradossale; essa è stata variamente commentata e criticata ed è stata oggetto di inchieste presso gli attori.

Queste discussioni, e i risultati delle inchieste, sono stati esposti dai Proff. Alberto Marzi e Sofia Vignoli, i quali hanno fatto un'inchiesta fra diciotto attori italiani, sottoponendo loro un preciso questionario. I risultati sono stati pubblicati in un interessante articolo, intitolato L’espressione delle emozioni sulla scena, nella «Rivista di Psicologia» (1944-1945). Dalle dichiarazioni degli attori è emerso che la loro partecipazione alle emozioni dei personaggi che rappresentano è molto varia. Qualcuno ammette una parziale identificazione col personaggio rappresentato. Secondo Renzo Ricci l'emozione che l'attore prova sulla scena è relativamente simile alla reale per quanto riguarda le perturbazioni somatiche. Dopo lo studio preparatorio l'attore è nel personaggio o il personaggio è in lui: fusione non completa... fino ai momenti di acme drammatica, in cui l'attore si abbandona al personaggio. Altri hanno dichiarato che mantengono durante la recita un atteggiamento di osservazione, di critica, una chiara consapevolezza di sé. Anna Proclemer va oltre, dice: «L'attore deve sentire il personaggio, ma non nella recita, durante la quale è necessario un controllo che impedisce di abbandonarsi al sentimento».

Alcuni parlano di uno «sdoppiamento», come Ruggero Ruggeri e Elena da Venezia. Particolarmente significativa è la dichiarazione di Anna Torrieri: «Controllarsi sempre nella vita in qualsiasi emergenza, abituarsi a un continuo controllo, così il controllo sulla scena diverrà abituale, e la parte sarà vissuta con equilibrio e dominio di sé come la vita stessa».

Dunque questi attori fanno spontaneamente quello di cui ho parlato, cioè mantengono la propria auto-coscienza individuale distinta, sia pur in varia misura dalle parti che via via recitano sulla scena; possono mantenere un auto-osservazione, un auto-dominio e quindi una disidentificazione, uno sdoppiamento fra la parte che osserva e dirige e quella che agisce. Le loro dichiarazioni sono significative poiché sono frutto di esperienza personale e non di una tecnica psicologica prestabilita.

Vediamo in qual modo tutto ciò si applichi alle funzioni che rappresentiamo nella vita, e quali indicazioni possiamo trarne. Anche qui, possiamo osservare che i gradi di immedesimazione sono molto diversi. Generalmente si «vivono» le proprie parti, direi istintivamente, (usando la parola nel senso generico corrente, non in quello scientifico), cioè per impulso interno, o come reazione, come risposta a stimoli e condizionamenti esterni. Su questo si basano le concezioni psicologiche (o cosiddette tali) che considerano l’essere umano come tutto «azionato» da bisogni, da impulsi e da riflessi condizionanti; sono le teorie «behavioristica» e quella «riflessologica». Queste concezioni sono molto unilaterali: esse tengono conto soltanto di quello che è meno «umano» nella vita dell'uomo, della parte che si comporta in modo simile agli animali! Va però loro riconosciuto il merito di aver messo bene in evidenza questo lato del nostro comportamento, di rendercene consapevoli e quindi (senza o contro le loro intenzioni) di aiutarci a superarle.

È vero che la maggioranza degli uomini e delle donne si «lasciano prendere», e spesso travolgere, dalle loro «parti», sì da non aver quasi una vita autonoma, autentica, autocosciente al di fuori di essa. Esempi tipici sono quelli delle donne che si identificano con la loro funzione materna e degli uomini che si sentono veramente se stessi e importanti soltanto quando esercitano la loro funzione (di generale, magistrato, dirigente d'azienda, ecc.).

C'è persino chi si immedesima con ciò che possiede, è nota la tipica affermazione di un proprietario francese: «Io sono la mia terra!». Tutti questi possono essere considerati come degli estremi estraversi.

Ma vi sono ragioni importanti per non immedesimarsi troppo in una parte, in una funzione. Noi non dobbiamo esercitarne una sola ma varie; perciò se ci identifichiamo troppo con una sola, se mettiamo in essa tutto il nostro impegno, il nostro interesse, non potremo svolgere bene, come è nostro dovere, le altre. Al funzionario pubblico o al professionista che si dedica tutto al lavoro mancheranno tempo ed energie per compiere adeguatamente le sue funzioni di marito e di padre. La donna che si immedesima tutta con la sua funzione materna non saprà far bene la propria parte di moglie e lascerà isterilire le sue altre possibilità di esperienza, di espressione, di partecipazione sociale come essere umano. Inoltre, quando lo svolgimento della funzione alla quale una persona si era dedicata quasi esclusivamente è resa impossibile per cause di forza maggiore (malattia, limiti di età, perdita o allontanamento del coniuge o dei figli) avvengono crisi gravi, dei crolli che possono produrre una malattia psichica.

Invece chi abbia saputo distribuire opportunamente i propri interessi vitali, la sua attenzione interna e le sue energie nelle varie «parti» che la vita lo ha chiamato a svolgere, e in quelle che ha liberamente scelte, saprà trovare compensi, anzi talvolta utilizzare talenti e svolgere attività che prima aveva dovuto trascurare.

Vi sono, invece, persone che mantengono durante le loro azioni una continua auto-osservazione, che esercitano una costante autocritica. Alcune eccedono in questo senso: in loro l'autoanalisi e l'autocritica possono arrivare a ostacolare o paralizzare l'azione.  Sono gli introversi eccessivi.

Vi è poi un altro gruppo, formato da coloro che recitano coscientemente delle parti a scopi utilitari oppure per giuoco; essi fingono o ingannano. Ma l'esistenza e il cattivo esempio di questi non devono far ritenere che soltanto il modo istintivo di vivere sia autentico, genuino, che ogni recita cosciente sia una finzione. Ciò costituisce quello che può esser chiamato «l'equivoco della sincerità», cioè il confondere questa con l'impulsività irriflessiva e non dominata.

Vi è invece un modo di «recitare» nella vita che non solo è altrettanto genuino e reale ma lo è in modo superiore, che costituisce anzi un dovere. Da un punto di vista generale, si potrebbe indicare come la differenza fra natura e arte, fra vivere istintivamente «naturalmente» e l'arte di vivere o «il vivere come arte». Il giusto rapporto fra i due modi di vivere è espresso sinteticamente nel detto: «L'arte si basa sulla natura ma la perfeziona».

Sotto un altro rispetto, si può dire che la «genuinità», e quindi il valore umano, etico e spirituale, del nostro comportamento, stia essenzialmente nella intenzione con cui lo si attua, nello scopo al quale è volto, ed anche nella saggezza e nell'abilità tecnica con la quale agiamo.

Applichiamo quanto è stato detto al metodo da usare nello svolgere le proprie «parti» nel mondo. La preparazione, cioè il primo e necessario compito, consiste nel prendere coscienza del nostro essere reale, di quello che siamo veramente; e poi dei vari elementi che compongono la nostra personalità; si possono chiamare la anatomia e la fisiologia psicologica. Ciò può essere riassunto nel vecchio e sempre attuale comando «Conosci te stesso». Per farlo occorre anzitutto disidentificarci dai contenuti e dalle varie funzioni della psiche, dalle varie sub-personalità. Poi riconoscersi quale pura identità autocosciente e permanente, personale e spirituale. A questo scopo è di grande aiuto l'Esercizio di disidentificazione e di autoidentificazione. Questo stadio si può chiamare la posizione interna, l'atteggiamento dell'Osservatore distaccato.

Il secondo stadio è quello che corrisponde al regista, cioè quello nel quale si sviluppano, allenano, trasformano e dirigono le varie sub-personalità. A questo si riferiscono le altre due «parole d'ordine» adottate dalla psicosintesi: «Possiedi te stesso»; «Trasforma te stesso». Tutte le tecniche della psicosintesi mirano a questo scopo.

Ma qual è il grado, si potrebbe dire la percentuale, di parziale identificazione durante l'attività? Esso è molto diverso secondo il genere di azione e secondo il tipo psicologico del soggetto. Per ognuno vi è una proporzione ottimale. Una tecnica per mantenere questo giusto equilibrio è quella detta dell'«agire come se». In generale si può dire che nello svolgere una funzione è opportuno da principio dedicare ad essa la massima attenzione, un grande impegno per imparare a esercitarla bene; poi, col crescente esercizio, ciò non occorre più e si può svolgerla con sempre minore «partecipazione», soprattutto emotiva, e allo stesso tempo sempre meglio. Questo corrisponde a quello che avviene agli attori via via che ripetono le recite della stessa commedia o dramma. Un altro metodo utilissimo è quello della preparazione all'azione mediante l'esercizio dell'«Allenamento immaginativo».

Ma l'uso di questi metodi presuppone una chiara e stabile autocoscienza, l'azione di una volontà salda e decisa, e una continua «presenza a sé stesso», come soggetto, e al tempo stesso come osservatore ed agente. Questo può venir fatto già al livello dell'Io personale, ma il modo più efficace e sicuro è quello di mettersi in rapporto, in contatto col Sé, con l'Io spirituale del quale l'io personale è un’emanazione, un riflesso. Da quella superiore Realtà possiamo continuamente attingere la luce e la forza necessarie per resistere ad ogni attrazione interna ed esterna, a ogni allettamento e sollecitazione che ci distraggano dai nostri compiti, dallo svolgere nel modo migliore le nostre «parti» nella grande «rappresentazione umana». fine testo 

 

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