Il buddismo spiegato all’occidentale

Letture d'Esoterismo OrientaleUno dei punti di forza del mahayana sul brahmanesimo, che rende il primo una filosofia e una religione universale, risiede nel non ritenere il samsara e la vita sensibile come una mera illusione intrappolata nella rete di maya. Nei Prajňaparamita-Sutra s’insegna chiaramente come una volta attraversato il fiume (samsara) e raggiunto l’altro lato dell’illusione, ci si accorga che non v’è differenza tra mondo della manifestazione (samsara)e nirvana: la dualità non esiste, non esiste un paradiso contrapposto ad un inferno. Questi ultimi sono soltanto stadi provvisori del ciclo karmico.

Il buddismo spiegato all’occidentale

di Antonio D’Alonzo

Uno dei punti di forza del mahayana sul brahmanesimo, che rende il primo una filosofia e una religione universale, risiede nel non ritenere il samsara e la vita sensibile come una mera illusione intrappolata nella rete di maya. Nei Prajňaparamita-Sutra s’insegna chiaramente come una volta attraversato il fiume (samsara) e raggiunto l’altro lato dell’illusione, ci si accorga che non v’è differenza tra mondo della manifestazione (samsara)e nirvana: la dualità non esiste, non esiste un paradiso contrapposto ad un inferno. Questi ultimi sono soltanto stadi provvisori del ciclo karmico.

Questa dottrina spazza via millenni di dicotomiche contrapposizioni occidentali: mondo delle idee e mondo sensibile (Platone), mammona e regno di Dio, città degli uomini e città di Dio (Agostino), res cogitans e res extensa (Descartes), fenomeno e noumeno (Kant), ecc. Fino all’affermazione nietzscheana del wille-zur-macht (volontà di potenza). La realtà non è altro che un rapporto di forze ed il mondo vero (quello platonico) è diventato una favola… Tuttavia, ben prima di Nietzsche, Leibniz aveva portato un contributo fondamentale all’identificazione della realtà come gioco prospettico di monadi, ma soprattutto Spinoza aveva messo fine a tutti i dualismi occidentali ed alle assurde pretese umanistiche del deus otiosus: Dio è il virus che uccide e l’antidoto che guarisce.

Il buddhismo mahayana, come del resto, il brahmanesimo hanno sviluppato poi il tantrismo, che annulla del tutto il rifiuto della materia e della vita. Nel “veicolo del diamante” o vajrayana esiste un’iniziazione in tutto e per tutto simile a quella conferita da molte società segrete occidentali. Esiste anche il chö, altra importante ramificazione del vajrayana, dove si compiono riti in luoghi pieni di pericoli come i cimiteri: ma, in questo caso, i demoni son visti come proiezioni del desiderio umano, dell’odio e dell’ignoranza. Concludendo, mi sembra che il mahayana sia meno drastico verso la vita ed il mondo sensibile di quanto possano essere dottrine come l’advaita o il giainismo. Questo è, a mio avviso, uno dei fattori che hanno contribuito a diffondere il buddhismo mahayana nel mondo e a trasformarlo in una religione e in una filosofia universale.

Per quanto riguarda l’approccio occidentale, in un primo tempo Guénon aveva etichettato il buddhismo come “antitradizionale”, in quanto la dottrina di Gautama Śakyamuni disconosceva l’autorità normativa dei Veda e allargava l’insegnamento a tutti i membri della società indiana senza preclusioni di casta. Queste caratteristiche erano sembrate all’autore francese una delle prime manifestazioni di quello spirito modernista – capitanato dalla rivolta degli ksatriya, la casta dei guerrieri – che s’indirizzava soprattutto contro l’autorità sacerdotale, mentre secondo Guénon in una società “normale” il potere temporale sarebbe dovuto restare subalterno rispetto a quello spirituale.

Dalla parte di questa prima posizione, è evidente che se la tradizione indù si fonda sull’accettazione dell’autorità dei veda – così come fanno le upaniśad ed il vedanta – al contrario, il buddhismo, il giainismo, il sânkhya, e lo yoga sono da ritenersi eterodossi, in quanto ne rifiutano l’autorità. Arroccato nella sua rigida e pura idea di Tradizione strutturata sulla potestà ortodossa dei testi sacri della letteratura vedica, Guénon non avrebbe dovuto cambiare posizione, ma piuttosto continuare a ribadire l’eterodossia del buddhismo.

Non c’è dubbio, che sotto il puro profilo speculativo e filosofico il buddhismo, vale il brahmanesimo: si tratta di un sistema eterodosso, non ariano, riservato ai membri di tutte le caste, dunque al di fuori della tradizione ortodossa brahmanica (che ai nostri tempi si è ulteriormente addolcita rispetto all’epoca in cui scriveva l’esoterista francese). Al contrario, ammettendo che l’ipotesi originale di Guénon sul carattere modernista del buddhismo non sia sostenibile non si capisce come mai egli sia stato più clemente con il sânkhya ed abbia cercato di dimostrare la sua conciliabilità teorica, o quantomeno la non conflittualità, con i Veda.

Avrebbe dovuto – secondo la sua prima linea di pensiero – essere più coerente e sconfessare anche il sânkhya. Oppure, accettadolo, integrare nel suo sistema anche il buddhismo. Il sānkhya e lo yoga nascono come sistemi eterodossi, ma vengono presto riplasmati ed assimilati dal pensiero brahmanico, da sempre ispirato da uno spirito sincretistico ed irenistico che tende a ricercare i punti di contatto speculativi ed a mettere tra parentesi le idiosincrasie dottrinali.

Dunque, non si tratta tanto d’interrogarsi se lo spirito originale del sânkhya e dello yoga – e per estensione del buddismo – sia in nuce ortodosso o eterodosso o di teorizzare quanto si discosta dai confini irrigiditi del paradigma vedico. Al contrario, si tratta di prendere coscienza che questi sistemi speculativi, nati come eterodossi e rivolti a rovesciare l’esclusivismo elitario, sono stati successivamente riplasmati ed assorbiti dal brahmanesimo, che ne ha ammorbidito le divergenze originarie.

Oggi i seguaci delle varie correnti del buddhismo mahayana non si sognerebbero più di accentuare le differenze dottrinali dei loro sistemi con quelli dei maestri vedantici e viceversa. Come scrive Coomaraswamy, l’induismo descrive “ciò che è” ed il buddhismo “ciò che non è”: si tratta di differenti prospettive per un unico panorama. In altre parole, il buddhismo, originariamente eterodosso ha finito per trovare molte affinità con l’induismo (si prendano in esame, per esempio, la scuola yogachara mahayanica e l’advaita vedanta).

Oggi esistono tantissime scuole buddhiste, tra mahayana, hinayana, vajrayana, ecc. Dunque è lecito parlare di “buddhismi” al plurale. Non parlerei, però, di un induismo dogmatico ed exoterico. Al contrario, la lettura dei Veda era originariamente riservata soltanto ai membri delle tre caste superiori, ma prevalentemente ai brahmani. Oggi, inoltre, esistono differenze speculative tra induismo e buddhismo, la prima è quella sulla persistenza del Sé dopo la morte, ma anche tantissimi punti di contatto. A differenza di quanto è sempre accaduto in Occidente, in India si tende ad assimilare e a plasmare piuttosto che a discriminare: la forza del sincretismo risiede in questo.

Tra la scuola brahmanica dell’Advaita e lo Yogachara buddhista vi sono tante analogie e punti di contatto. Inoltre, ritengo che l’Advaita di Shankara (dottrina della non-dualità) assieme al Madhyamika di Nagarjuna (dottrina della “via di mezzo”) siano vertici assoluti del pensiero speculativo.

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