Argomento:Psicologia


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Il Bambino nascosto /3.1

di Alba Marcoli

prodotto per Esonet.it


Favole per capire la psicologia nostra e dei nostri figli

 

Sommario: 5. La perdita dell'equilibrio - Favola numero 5 - Le cadute - 6. L'importanza delle regole - Favola numero 6 - La mancanza di limiti - 7. La fatica del passaggio all'adolescenza - Favola numero 7 - L'abbandono dell'infanzia - 8. I legami del passato - Favola numero 8 - La nostalgia

 

Capitolo terzo. Il linguaggio del sintomo

 

5. La perdita dell'equilibrio

Il tema intorno a cui ruota questa favola è uno dei più oscuri e difficili da affrontare. Si tratta delle cadute, degli svenimenti, della momentanea e passeggera perdita dell'equilibrio e della coscienza.

Poiché si tratta di un sintomo a cui possono corrispondere delle patologie organiche vere e proprie, è evidente che la prima ricerca da fare, come del resto sempre nel caso di sintomi somatici, è sul piano dell'indagine organica, per fare l'intervento corretto e appropriato. Tuttavia c'è una serie di casi in cui non è rilevabile una componente organica, oppure, anche là dove questa esiste, ci può essere una componente psicologica che vi si aggiunge, aggravando la situazione.

È questo il caso della storia che ha ispirato la favola che segue ora.

 

Favola numero 5

Il leprotto che cadeva sempre

“Ma chi sa i cammini dell'anima solitaria?” L. PICCOLO, “Canti barocchi”.

L'unica volta in cui il bosco perdeva la sua calma era quando arrivavano i cacciatori dalla città.

In realtà dentro al bosco essi non potevano mai penetrare perché non sapevano aprirsi un varco, ma lungo i suoi confini mettevano delle trappole che qualche volta riuscivano a catturare gli animali.

Di solito gli abitanti del bosco erano molto più furbi dei cacciatori e le evitavano, ma qualche volta capitava per sfortuna che qualcuno di loro ci cadesse dentro.

Fu così che una sera, quando il sole era già tramontato e non si vedeva tanto bene, mentre portava a spasso i suoi cuccioli Mamma Leprotto scivolò sul terreno e mise le zampe in una trappola. Si sentì un urlo perché il dolore era tremendo, ma per fortuna i cacciatori erano tornati a casa a riposare, così gli altri animali del bosco riuscirono a liberarla e a portarla nella sua tana.

La situazione era però molto grave perché su quattro zampe ben due erano state prese dalla morsa e sembravano completamente distrutte.

Fu chiamato il gruppo degli anziani che erano più esperti di medicina e che, essendo più vecchi di tutti, avevano visto tanti casi difficili. Arrivarono così l'asino Sapiens, la civetta Loquax e il gufo Silens e furono tutti d'accordo nel dire che il caso era proprio molto, molto grave e che c'era il rischio o che la mamma morisse o che restasse paralizzata per sempre. E le ordinarono le cure del caso.

E così nella tana dei leprotti tutti si alternavano al capezzale dell'ammalata per farle compagnia e prendersene cura. Anche i cuccioli si davano molto da fare, tutti tranne uno che si chiamava Tempesta e che continuava a giocare e a far chiasso nel bosco proprio come se nulla fosse successo e come se una disgrazia così grande fosse capitata a una qualsiasi estranea e non alla sua mamma.

Quando lo vedevano, i parenti scuotevano la testa e pensavano che un figlio così insensibile e ingrato la povera madre non se lo meritava davvero, con tutti i sacrifici che aveva fatto per lui da quando era nato.

Passarono così i giorni e la situazione era sempre la stessa, finché un giorno l'asino Sapiens che la curava sentenziò che la mamma non sarebbe morta, ma sarebbe rimasta paralizzata su una sedia a rotelle per il resto dei suoi giorni, perché lui aveva fatto ormai tutto quello che poteva e più di così non la sapeva curare.

Fu allora che gioia e tristezza invasero contemporaneamente la tana dei cuccioli: gioia perché la mamma non era morta, e tristezza perché non si sarebbe potuta più muovere.

L'unico che sembrava quasi indifferente alla cosa era Tempesta; per lui sembrava che la vita non fosse cambiata per niente, anzi, dava persino l'impressione di farlo apposta, di volere che la vita non fosse cambiata. Così continuava a correre, a giocare, a fare scherzi e a divertirsi con gli amici. Era sempre il più veloce nella corsa e nei salti, sia in lungo che in alto, e vinceva proprio tutti.

Ma un giorno, durante una gara importante, gli successe una cosa che non gli era mai capitata prima: a un tratto, sul più bello, scivolò e cadde per terra. Naturalmente perse la gara e questo per lui fu un dispiacere, ma quello che lo stupiva di più era che una delle sue zampe lo avesse tradito e non lo avesse sostenuto. Che le sue zampe potessero fare una cosa del genere Tempesta non se lo sarebbe mai immaginato, ma alla fine pensò che si fosse trattato di un incidente capitato per caso e non ci pensò più.

Invece, ogni tanto, ma sempre più spesso, gli capitò che la sua zampa lo tradisse e che lui si ritrovasse a terra pieno di rabbia e di vergogna e, per quanto si sforzasse, sembrava che non ci fosse niente da fare, la sua zampa era più forte di lui.

Così il povero leprotto cominciò a diventare la preoccupazione di casa sua, perché, quando non si può correre, in un bosco si ha sicuramente una vita molto difficile davanti a sé. Finì che ormai tutta la famiglia parlava solo delle zampe di Tempesta e si dimenticò quasi di quelle della mamma.

Anzi, capitò una cosa ancora più strana e cioè che lei, preoccupata per quel suo figlioletto, cominciasse a darsi da fare e qualche volta riuscisse persino ad alzarsi e a camminare un po', nonostante le nere previsioni, cosicché a poco a poco riacquistò, anche se con sforzo, l'uso parziale delle sue zampe, almeno per le cose più importanti.

Nel frattempo il povero Tempesta continuava ad andare a scuola, qualche volta con tutte e quattro le sue zampe, qualche altra saltellando su tre come un povero zoppetto, e qualche altra ancora a braccetto dei suoi fratelli e amici. Invece la mamma si alzava sempre più spesso e ora riusciva un pochino anche a camminare in casa e a sfaccendare quasi come prima, tra lo stupore e la meraviglia di tutti.

Intanto Tempesta stava lentamente cambiando di carattere: da spavaldo e temerario com'era prima, ora era diventato silenzioso e insicuro e cominciava a pensare di essere un fallimento in tutto, di non essere né bravo, né intelligente, né fortunato come gli altri cuccioli.

Finché un giorno, stanco di tutto questo, prese una grande decisione, quella di andare alla ricerca dell'albero delle storie, senza dir niente a nessuno.

Tempesta stabilì di partire al calar della notte, ma la sera in cui prese la decisione era così stanco e stravolto che anche le sue palpebre calarono finché si addormentò profondamente .

Però ecco che anche per lui arrivò il sogno, che è il nostro amico gentile della notte, anche quando ci spaventa, e fu lui che lo accompagnò nel suo viaggio di ricerca.

La strada da percorrere era piena di pericoli, di draghi, di diavoli e incubi che lo volevano assolutamente fermare e svegliare. Invece Tempesta continuò il suo cammino lo stesso, attraverso fiumi minacciosi e montagne altissime, ed ecco che alla fine arrivò al tronco di tutte le Storie del bosco. Vicino all'albero, in mezzo al nero delle foglie, stava un vecchio gufo.

« È questo l'archivio del bosco?» chiese il cucciolo con una voce tremolante.

«Sì, è questo. Ma tu perché sei venuto fin qui? Che cosa vuoi sapere ?»

«Voglio conoscere la mia storia. Non so perché la mia zampa da un po' di tempo a questa parte mi tradisce sempre, mentre prima mi sosteneva benissimo.»

«Vediamo un po' che cosa c'è scritto sul tuo libro» gli disse allora il vecchio.

E fu così che entrò nell'albero e Tempesta dietro di lui.

Ma per quanto cercassero tutti e due sullo scaffale dei cuccioli che erano nati nella sua stessa primavera, della storia del leprotto con la zampa malata non c'era traccia alcuna.

«Com'è possibile?» si chiese perplesso il gufo. Continuò a cercare, ma non trovò proprio niente.

All'improvviso gli venne un'idea.

«Dimmi, c'è qualcun altro in casa tua che ha una zampa che lo tradisce?»

«Eh, sì,» disse con un sospiro Tempesta «c'è la mia mamma che è caduta nella trappola e si è fatta male».

«E come si chiama la tua mamma?»

«Si chiama Mamma Tempesta, proprio come me.

» «Allora andiamo a cercare la sua storia».

E fu così che sullo scaffale giusto il gufo trovò la storia della mamma e quando prese il libro per leggerlo scoprì che ce n'era un altro più piccolo che si era attaccato sopra .

Il gufo lo prese con delicatezza, lo staccò e lo diede a Tempesta.

«Ecco perché non trovavamo la tua storia, era rimasta qui, attaccata a quella della tua mamma, invece di essere sullo scaffale dei cuccioli. Ecco, adesso puoi aprire per leggere che cosa è successo.»

E anche Tempesta riuscì finalmente a capire perché la sua zampa lo tradiva.

Quando la sua mamma si era ammalata, lui si era così spaventato all'idea che potesse morire che, anche senza saperlo, aveva finito per ammalarsi anche lui.

Il povero Tempesta, che tutti criticavano perché sembrava indifferente a quello che era successo, aveva cominciato a cadere proprio da quando la sua mamma si era ammalata, e più lui cadeva, più a lei sembrava di stare meglio perché si preoccupava solo di lui, trovava la forza di reagire e si dimenticava del male delle sue zampe.

«Questo, però,» gli spiegò pazientemente il vecchio gufo «ha fatto sì che il tuo libretto restasse ancora attaccato a quello della tua mamma, come su quello scaffale là in alto. Vedi là sopra?» continuò poi. Quello è lo scaffale dei cuccioli appena nati e i loro libretti sono ancora attaccati a quelli delle loro mamme, come avviene da sempre nel bosco, quando un cucciolo nasce.

Ma fra un po' di tempo i libretti dei cuccioli andranno sullo scaffale dei cuccioli e quelli delle mamme su un altro scaffale e questo succede naturalmente quando i figli imparano a scrivere il loro libro .

Il tuo invece era rimasto attaccato a quello della tua mamma, perché forse avevi paura di non essere capace di scriverlo da solo. Adesso decidi tu dove vuoi metterlo, se dove era prima, oppure sullo scaffale dei cuccioli che sanno già scrivere la loro storia.»

Tempesta guardò il vecchio e poi il libretto. Era il suo, proprio il suo, quello della sua storia.

C'erano ancora tantissime pagine da scrivere per tutto il resto della sua vita.

«Ma io alla Scuola dello Spiazzo ho già imparato a scrivere» pensò il cucciolo «e imparerò sempre meglio.

Sono ben capace di riempire le pagine del mio libro!»

E fu così che il libro di Tempesta andò al posto giusto, sullo scaffale dei cuccioli che ormai sapevano già scrivere.

Gufo Millenario lo guardò e poi sparì, come al solito, nel nero dell'albero.

Il cucciolo cominciò allora la strada del ritorno e, cammina cammina, alla fine si svegliò.

Il giorno dopo c'era una corsa nel bosco e anche lui volle parteciparvi mentre tutti scuotevano la testa.

Alla fine, fra lo stupore generale, arrivò primo come ai vecchi tempi.

Tempesta tirò un profondo respiro, soddisfatto e ancora un po' incredulo.

Era proprio vero, la sua zampa non lo tradiva più.

Era tornato a essere il re delle corse e tra il pubblico che lo applaudiva c'era anche la sua mamma che ormai si era tanto allenata a usare le sue zampe che riusciva di nuovo a muoversi e a camminare per il bosco.

Ognuno di loro aveva fatto la propria strada sul cammino delle conquiste.

 

Qualche riflessione sulla favola: Le cadute

«Maestra, me lo disegni un Puffo che ha male al cuore, così io lo coloro?»

«E chi è questo Puffo?»

« È il Grande Puffo, il capo del paese dei Puffi!»

«E che cosa vuol fare questo Puffo al paese dei Puffi?»

«Vuole vivere!» Daniela, 5 anni, alla maestra della scuola materna.

Il sintomo intorno a cui ruota questa favola ha a che fare con l'angoscia espressa attraverso un comportamento fisico.

Il bambino tende a vivere col corpo i suoi conflitti profondi, invece che a mentalizzarli, e lo stesso può capitare nei disturbi psicosomatici anche fra gli adulti.

La perdita dell'equilibrio e il cadere a terra «come morti» (là dove evidentemente non sono accertabili patologie organiche, il che vale per tutti questi disturbi) possono essere sostitutivi di un dolore mentale insopportabile.

Dice la McDougall nella sua bella riflessione sui disturbi psicosomatici:

“In effetti, ogni richiesta di liberazione da sintomi psicologici è paradossale, in quanto questi sintomi sono tentativi infantili di autoterapia e furono creati come una soluzione a un dolore insopportabile. [...]

Lo studio del lavoro degli psicosomatologi che si occupano di malattie psicosomatiche dell'infanzia mi ha permesso di capire che i miei pazienti adulti in certi momenti funzionavano come infanti (dal latino “infans”: «che non sa parlare»).

Poiché i neonati non possono ancora usare le parole con cui pensare, essi rispondono alle sofferenze emotive solo in modo psicosomatico.[...]

In aggiunta sono arrivata a capire che, poiché il neonato ha delle intense esperienze somatiche nei primi mesi di vita, cioè molto prima che abbia una chiara rappresentazione della sua immagine corporea, può solo sperimentare il suo stesso corpo e quello della madre come un'unità indivisibile.[...]

Quando un adulto inconsciamente rappresenta i confini del suo corpo come mal definiti o mal separati dagli altri, l'esperienza emotiva con un altro significativo può risultare in un'esplosione psicosomatica come se in queste circostanze esistesse un solo corpo per due persone [1].

Una delle storie che hanno ispirato questa favola è stata quella di un ragazzino che era stato inviato in consultazione psicologica da una neuropsichiatra.

Anche qui il figlio è stato colui che ha permesso che la madre trovasse uno spazio di ascolto e di accoglimento di una grossa sofferenza psicologica combattuta fino a quel momento solo farmacologicamente.

«Mi sono resa conto» ha detto in seguito questa madre «che io mi porto sempre appresso un peso che è così grosso che a volte sembra un baule. E questo peso è il fatto che io non mi sono mai separata dal mio primo bambino morto, come se fossi ancora attaccata a lui dal cordone ombelicale.

Io ci torno col pensiero almeno un a volta al giorno, è come se non lo potessi abbandonare mai questo pacco, è una cosa mia.»

Il dolore inconsolabile di questa madre, chiusa tra quattro pareti domestiche che la isolavano da altri possibili contatti quotidiani con il mondo, nessuno, se non il figlio, l'aveva espresso e portato all'esterno.

Ancora una volta sarebbe interessante ascoltare i bambini per riflettere sulla nostra condizione di vita, perché loro riescono a farci da specchio più di quanto noi non immaginiamo.

Quello che il figlio ha semplicemente permesso alla madre in questo caso è stato di avere uno spazio di gruppo dove poter affrontare i problemi con altre madri che la potevano capire e appoggiare.

Potrebbe sembrare una cosa da niente, ma sul piano mentale si tratta invece di un grosso aiuto per poter alleggerire l'ansia.

Spesso una persona angosciata si sente più sostenuta dal sapere che qualcun altro ascolta e capisce le sue sofferenze, piuttosto che dal sentirsi dire: «Non è nulla, non si preoccupi, passerà», che è l'atteggiamento sbrigativo con cui a volte vengono liquidate cose che passano davvero, ma anche altre che non passano proprio per niente, come ormai succedeva da molti anni a questa signora.

«Ecco perché la mia bambina si lamenta sempre che ha male a una gamba,» ha esclamato un giorno un'altra giovane madre dello stesso gruppo nel sentire questa favola.

«Io non riuscivo a capire che cosa avesse né perché lo facesse solo con me e non con mio marito. Agli inizi mi sono molto preoccupata, poi mi sono accorta che una volta le faceva male una gamba, una volta l'altra, e allora mi sono preoccupata di meno.

Però non capivo proprio lo stesso perché lo facesse, in particolare in certi momenti e solo ed esclusivamente con me.

Invece adesso mi viene in mente che io in quel periodo soffrivo molto per la mia gamba malata e lo manifestavo.

Un giorno la bambina mi ha detto: “Sai, mamma, ho un dolore ‘dentro la gamba'“, e il giorno dopo “Toccami qua, ‘dentro la testa', ho un dolore!”. Il giorno successivo io le ho chiesto: “Ma ti fa ancora male?”.  

Lei mi ha risposto: “Sai, mamma, non è ancora guarito, c'è ancora, però sta per guarire. Penso che non ci sarà bisogno di andare dal dottore”.

Ecco, adesso finalmente capisco questa storia del dolore alla gamba e alla testa!»

La mamma di questa bambina aveva avuto da piccola una malattia a una gamba che le rendeva più faticose certe attività.

Una volta la bambina le aveva detto: «Tu non sei come le altre mamme perché non corri come loro, ma va bene lo stesso. Una è alta, una è bassa, tu sei una mamma che non corre. Va bene così!».

Però, anche senza mostrarlo, la piccola cercava di condividere la sofferenza della mamma: era la «sua» gamba malata quella che le faceva male «dentro alla testa».

Mesi dopo la mamma ha riferito al gruppo che da quando si era discussa questa favola qualcosa doveva essere successo perché, stranamente, la bambina non si era più lamentata del dolore alla gamba.

 

6. L'importanza delle regole

Uno dei problemi fondamentali che si pongono davanti ad ogni genitore è quello delle regole e dei limiti da dare ai figli.

Darne troppi oppure non darne nessuno sono atteggiamenti opposti che di solito possono entrambi danneggiare un bambino per quanto riguarda la sfera dell'autonomia e della sicurezza.

Mentre infatti i troppi limiti interferiscono nel suo diritto a sperimentare, al contrario la loro mancanza gli impedirà di interiorizzare i confini tra ciò che si può e ciò che non si può fare.

In genere un bambino fatica a contenere i suoi impulsi socialmente inaccettabili e deve imparare a farlo nel corso del tempo; se è il genitore che interviene a dargli dei limiti questo compito gli sarà facilitato.

È come se in questo modo gli arrivasse il messaggio implicito che non dobbiamo aver paura dei nostri impulsi perché si possono controllare e questo diventa estremamente rassicurante per un bambino.

Se invece gli si permette di avere un comportamento che non è tollerabile socialmente e che lui stesso vive o può vivere come distruttivo, allora la sua ansia facilmente aumenterà.

L'attenzione che noi adulti possiamo allora cercare di avere è quella di porre dei limiti che riguardino veramente la sostanza e non la forma delle cose.

La favola che segue ora cerca di mostrare il danno che si può produrre nel mondo di un bambino a cui non vengano posti dei limiti.

 

Favola numero 6

Il cucciolo che attirava sempre l'attenzione su di sé.

“E il gioco si prolunga e il gioco non ha fine...” l. Piccolo, “Gioco a nascondere”.

Anche nel gruppo dei cuccioli dello Spiazzo succedevano le cose che capitano spesso tra quelli degli uomini, come il fatto di attirare sempre l'attenzione su di sé.

Ogni tanto arrivava alla scuola qualcuno che faceva una gran fatica a capire dove finiva il suo spazio e dove cominciava quello dell'altro; anzi, sembrava proprio che di limiti non ne avesse mai visti in vita sua e non sapesse nemmeno che cosa fossero.

E così il suo comportamento alla scuola ripeteva sempre lo stesso schema: lui invadeva il posto degli altri e voleva l'attenzione dei grandi solo su di sé, e siccome questo in un gruppo non era possibile perché di cuccioli ce n'erano tanti, per cercare di ottenerla usava sempre più gli stratagemmi con cui aveva imparato a richiamare l'attenzione fino ad allora e quando questi non bastavano si sforzava di inventarsene dei nuovi finché i grandi, esasperati, gli davano sì tutta la loro attenzione, ma per sgridarlo o rimproverarlo.

E allora lui, anche se queste cose lo facevano soffrire, finalmente si calmava perché aveva ottenuto la loro attenzione, senza la quale pensava che non si potesse vivere.

E così questi cuccioli finivano per entrare in uno strano gioco, quello di essere finalmente calmati solo quando venivano rimproverati o sgridati. Ma siccome l'essere rimproverato o sgridato è una cosa che in genere non fa piacere a nessuno, ecco che allora succedeva che dentro di loro ci fosse contemporaneamente la soddisfazione per aver ottenuto l'attenzione dei grandi e il dispiacere di sentirsi sgridati.

In questo modo non erano mai completamente contenti, perché anche quando si erano calmati, lo erano per una cosa che gli dava dispiacere.

Fu così che anche nella primavera di cui parliamo in questa storia, cui non possiamo dare un numero, perché per gli animali del bosco il tempo non è diviso in anni come per gli uomini, si ebbe alla Scuola dello Spiazzo una vicenda analoga.

Questa volta si trattava di una piccola di nome Fiordaliso.

L'avevano chiamata così perché aveva dei bellissimi occhi azzurri che assomigliavano ai fiori che all'inizio dell'estate comparivano tra le spighe del grano in mezzo ai campi degli uomini.

Fiordaliso era una splendida cuccioletta, così bella che non sembrava neanche vera, pareva uscita da una nuvola e non da un bosco e tutti quanti ne erano colpiti quando la vedevano.

Già prima che lei nascesse da tanto tempo c'era un posto vuoto nella sua tana, pronto ad accogliere un cucciolo che non arrivava mai. E così quando finalmente un bel giorno la culla si riempì, la nuova venuta diventò la regina della casa e si abituò a vedere esauditi tutti i suoi desideri.

E così lei crebbe, come succede a tutti, pensando che il mondo di fuori fosse esattamente come il mondo dentro alla sua tana, cioè un posto con ognuno a sua disposizione, senza limitazioni di alcun genere.

Infatti Fiordaliso i limiti proprio non li conosceva per niente, perché non li aveva ancora incontrati sulla sua strada, e non avendoli mai visti non sapeva neanche di che cosa fossero fatti e quale fosse il loro giusto posto.

Ogni tanto c'era, sì, qualcuno che diceva: «Eh, ma le lasciate fare proprio tutto! È un po' troppo!», ma anche loro finivano poi per esaudire ogni suo desiderio.

E i suoi genitori pensavano che era già tanto il tempo che stavano lontani da lei per il lavoro, che almeno quando loro erano nella tana Fiordaliso doveva essere soddisfatta in tutto e per tutto.

E così lei non era abituata a sentirsi dire dei no, salvo poi restarci male quando i genitori avevano esaurito tutte le loro possibilità di accontentarla.

Sembrava quasi che lei cercasse di creare sempre un legame con loro attraverso le parole.

Continuava a chiedere delle cose, anche molto belle e intelligenti, e a volte anche molto difficili e stimolanti e i genitori erano sempre un po' combattuti perché da una parte erano orgogliosi e stupiti di questa sua intelligenza e dall'altra erano spossati da un simile bombardamento di domande senza sosta.

Era come se Fiordaliso fosse un cucciolo di un'età indefinibile: da una parte faceva domande da grande, quasi da adulto, dall'altra il suo modo di farle era quello di aspettare sempre le risposte dall'altro, come un uccellino appena nato che sta nel nido a bocca aperta ad aspettare che i genitori gli portino del cibo, altrimenti morrebbe perché da solo non sa volare fuori.

E questa parte piccola e dipendente era quella che si metteva in movimento ogni volta che Fiordaliso era con gli altri, cosicché alla fine creava sempre lo stesso gioco, che era un po' diverso quando gli altri erano degli adulti oppure dei cuccioli.

Quando si trattava di adulti, agli inizi erano stupiti e sorpresi dalle sue domande ed entravano volentieri nel gioco rispondendo a tutte le richieste. Però, man mano che queste, invece di arrivare a un limite come di solito succede per tutte le cose, continuavano all'infinito, ecco che gli adulti prima si spazientivano e poi si arrabbiavano e il risultato era che Fiordaliso si sentiva rifiutata lei, tutta intera, non questo suo modo di fare.

Quando gli altri invece erano dei cuccioli, le cose erano più chiare e veloci, perché loro di solito ci mettono meno tempo degli adulti a rifiutare, ma il risultato era spesso simile.

Fu così che quando Fiordaliso comincio a ritornare da scuola con i segni di qualche graffio ricevuto, per un po' di tempo i suoi genitori aspettarono ed ebbero pazienza, poi cominciarono a impensierirsi.

«Non è possibile che vada avanti tanto tempo a trovarsi così male,» disse un giorno la mamma «ci deve pur essere un sistema per risolvere le cose.»

Allora papà e mamma decisero di prendere un giorno di vacanza dal loro lavoro per andare a parlare con i vecchi saggi della Scuola dello Spiazzo.

Quando ebbero finito di raccontare la loro storia, un vecchio si grattò un po' la testa perché questo da sempre lo aiutava a pensare.

«Vediamo un po' se ho capito bene» disse infine. «Sembrerebbe che Fiordaliso stia bene nella sua tana, ma non nel mondo di fuori, o almeno nella scuola che in questo momento rappresenta per lei il mondo esterno più importante.»

«Anche a noi sembra che sia così,» risposero i genitori «ma non potrà certo vivere tutta la vita dentro la sua tana!»

«Sicuro,» intervenne il vecchio «bisogna aiutarla a vincere questa difficoltà. Ma voi come vedete la cosa?»

«Io penso che per lei sia forse così difficile abituarsi al mondo di fuori perché lì ci sono delle regole e dei limiti da rispettare, a cui lei non è abituata.»

«Allora forse val la pena di aiutarla ad avere qualche regola» rifletté ad alta voce il vecchio.

«Ma noi abbiamo cercato di darle una vita che fosse senza tanti obblighi, come li abbiamo avuti noi da piccoli!» risposero insieme i genitori.

«Avete fatto benissimo,» disse allora lui «solo che quello che andava bene quando lei era piccolissima sembra non andare più bene adesso. Allora bisogna cercare un modo nuovo. Forse il problema è di cominciare a farle conoscere dei limiti.»

«Ma non bastano quelli che le dà la scuola?» chiese allora il papà pensieroso. «A me non sembra che sia il caso di aggiungerne degli altri!»

«Ma il rischio è proprio questo: che Fiordaliso pensi che i limiti siano una cosa cattiva che riguarda solo il mondo di fuori, mentre nella tana tutto è buono; in questo modo però non la si aiuta a uscire verso il bosco e a vivere come tutti gli altri cuccioli» continuò il vecchio. Si grattò ancora un poco la testa e riprese: «Forse nell'archivio delle storie ne possiamo trovare una che può esserci utile».

E fu così che si allontanò un poco e tornò con un vecchio libro dalla copertina logora e consumata.

«Bene, adesso vi leggerò una storia che mi raccontava sempre mio nonno quando ero piccolo. Eccola qui».

Il vecchio si sedette sotto la quercia, si accomodò ben bene sulle frasche e poi iniziò a leggere:

 

«Storia del cucciolo che non conosceva il no»

«C'era una volta un cucciolo che viveva in una bellissima tana. Tutto era stato fatto su misura per lui e lui ne era proprio molto felice.

Erano belli non solo i suoi giochi e la sua cuccia ma anche le cose che i genitori facevano per lui e le parole che gli insegnavano e fra queste quella che si sentiva più spesso era la parola sì.

E così il cucciolo crebbe conoscendo solo queste cose finché arrivò il giorno dell'uscita dalla tana quando tutti i cuccioli imparano a camminare per il bosco.

E allora questo cucciolo che conosceva solo il sì si avventurò anche lui per il bosco quando all'improvviso vide davanti a sé un grosso mostro.

«Chi sei?» gli chiese il cucciolo con la voce tremante.

«Io sono la parola NO!» tuonò possente la voce.

Il piccolo ne fu così terrorizzato che corse velocemente nella sua tana, si barricò dentro e non ne volle più uscire. Passò un po' di tempo e i suoi genitori ebbero molta pazienza ma quando si accorsero che lui non voleva davvero più uscire dalla tana, capirono che bisognava fare qualcosa.

Pensa e ripensa scartarono varie ipotesi. Scartarono quella di uscire ad allontanare il NO che aveva spaventato il loro cucciolo perché chissà quanti altri ne avrebbe trovato nel bosco e non si poteva certo eliminarli tutti. Scartarono anche l'idea di cominciare a dirgli sempre di no anche loro, per abituarlo, perché il cucciolo si sarebbe sentito spaventato e disorientato da questo cambiamento improvviso.

Fu così che decisero che l'unica cosa possibile era quella di fargli fare amicizia con la parola NO, ma poco per volta, piano piano, in modo che non si spaventasse.

E infatti il cucciolo, che dei suoi genitori si fidava, la prima volta che questi gli misero davanti la parola NO si sentì stupito, ma non così spaventato come quando era là fuori da solo nel bosco non familiare.

E a poco a poco anche la parola NO entrò qualche volta nella tana del piccolo insieme alle cose che gli erano familiari.

E anche lui ebbe il modo di imparare a conoscerla e a non temerla.

E quando il sole si fece più caldo per la nuova primavera che arrivava, anche il cucciolo che prima conosceva solo la parola SÌ poté uscire dalla sua tana e giocare con gli altri fra le ombre del bosco, sia che queste si chiamassero SÌ, sia che si chiamassero NO.»

A questo punto il vecchio richiuse il libro e andò a riporlo nella Libreria della Quercia sullo scaffale giusto.

«Sembrerebbe che tocchi proprio a noi far conoscere qualche no a Fiordaliso!» disse allora un po' accorata la mamma.

«Però, se ci pensiamo bene, forse è giusto» intervenne il papà. «Siamo stati noi a insegnarle a mangiare, a camminare, a parlare, a dire sì.

Allora tocca ancora a noi insegnarle a ricevere e a dire qualche no, altrimenti lei può pensare che esistono solo fuori dalla sua tana e per non incontrarli non ne vuole più uscire.»

«E dire che io speravo proprio di evitarle qualsiasi difficoltà e di vederla crescere contenta in tutto e per tutto! Volevo darle anche quello che non ho avuto io da piccola, ma vedo che lei è infelice lo stesso, anche se per altri motivi!» sospirò ancora la mamma.

«Il punto è proprio questo» intervenne allora il vecchio.

«Sembra che per aiutare Fiordaliso a essere più contenta sia più utile dirle qualche no, piuttosto che dirle sempre sì.

Cioè le si deve dare un limite che l'abitui a capire che i limiti esistono nella vita e che le sarà utile in tutte le circostanze in cui lei stessa avrà bisogno di limiti per contenere qualcosa che altrimenti le può far paura. E soprattutto le insegnerà che non siamo noi che possiamo controllare in tutto e per tutto ciò che succede, cioè che esistono dei limiti che fanno parte della vita come il sole e la luna, e il giorno e la notte.»

E fu così che anche in quella tana cominciò a entrare qualche piccolissimo no.

Agli inizi era sempre accompagnato da due cose: dal grande stupore di Fiordaliso che non lo conosceva e dal grande dispiacere che ai suoi genitori dava il farglielo conoscere.

E questo dispiacere era ancora più grande del suo, perché il papà e la mamma avevano paura di essere dei cattivi genitori a dire dei no.

Ma nello stesso tempo la piccola conquistava delle nuove cose che imparava a fare da sola, e questo non solo rendeva molto più felice e sicura lei, ma tranquillizzava anche papà e mamma che si sentivano sempre più rilassati.

E quando furono passati parecchi giorni e parecchie notti, dopo che il sole e la luna per tante volte si furono levati e furono tramontati sul bosco, ecco che un giorno, all'arrivo della primavera...

E fu così che anche Fiordaliso...

(finale libero a piacere: ciascuno a modo suo)...come sempre avviene da quando esiste il bosco, cioè da sempre, dall'inizio degli inizi di tutti i cicli della vita.

 

Qualche riflessione sulla favola: La mancanza di limiti

“Sai, papà, io volevo che tu mi dessi una sculacciata ieri sera quando continuavo a piangere.

Eri tu che dovevi aiutarmi a smettere, io da solo non ci riuscivo!” Andrea, 5 anni, al papà.

Il sintomo intorno a cui ruota questa favola è la mancanza di limiti, che si può incontrare a volte nel mondo infantile attuale, almeno nella nostra società occidentale.

È un modello di relazione abbastanza diverso da quello ottocentesco dell'educazione autoritaria, sul tipo della carota e del bastone, che ha influenzato la pedagogia di buona parte del Novecento.

Sulle conseguenze di quest'ultimo tipo di educazione è stato scritto talmente tanto, da Freud in avanti, fino al bellissimo libro della Miller “La persecuzione del bambino” [2], che mi è sembrato, non so se a torto o a ragione, fosse superfluo riprendere l'argomento.

Quello che invece mi è parso utile riportare con questa favola è il problema che mi sembra riguardare una certa fascia di bambini nati negli ultimi vent'anni, quali certi adolescenti di oggi, agli inizi degli anni Novanta.

Lavorare con i genitori su questo tema è, per mia esperienza, un punto molto difficile e delicato, proprio perché si tratta spesso di genitori eccellenti che hanno in genere fatto di tutto per offrire ai bambini un buon ambiente in cui crescere.

Hanno cercato cioè di far loro sperimentare la frustrazione il meno possibile non per comodo proprio (è sempre più facile dire sì piuttosto che no), ma come obiettivo educativo, sottovalutando invece a volte una cosa importante.

Si tratta infatti del problema di dare dei limiti a un bambino, permettendogli di sperimentare una frustrazione derivante dal fatto di non poter fare od ottenere immediatamente ciò che vuole.

La frustrazione, proprio perché era stata lo strumento principale usato nel modello autoritario, con conseguenze spesso catastrofiche, ha finito così per essere comunemente scartata come cattiva e da evitare.

Ancora una volta, si tratta forse di quantità: un bambino che sperimenta solo la frustrazione e uno che invece sperimenta l'essere sempre accontentato potranno soffrire, paradossalmente, forse entrambi nel loro rapporto con la vita.

La frustrazione, utilizzata in modica quantità e non sicuramente in modo perverso e sopraffattorio come intervento autoritario e arbitrario dell'adulto, ha invece un valore strutturante per il bambino sul piano mentale.

Il genitore che accontenta in tutto e per tutto il bambino, addirittura prevenendogli i desideri ed evitandogli qualsiasi frustrazione, corre infatti il rischio di privarlo di un'esperienza fondamentale.

Il prevenire sempre i desideri del bambino finisce per essere infatti per lui un'esperienza che gli impedirà due cose: innanzitutto la mentalizzazione di un bisogno insoddisfatto che gli possa creare una certa dose di disagio o frustrazione e secondariamente, come conseguenza, la spinta all'utilizzo delle sue stesse risorse per uscire da questa situazione di disagio .

Sarà invece proprio la scoperta delle sue stesse risorse che lo renderà a poco a poco sempre più sicuro.

È evidente che qui non si parla del neonato, che ha invece la necessità di un accudimento completo e totale; si parla, al contrario, del bambino che cresce nel tempo sperimentando la sua conoscenza dell'ambiente e dello spazio.

«Uffa, mamma, tu mi aiuti troppo» dice Gabriele di sei anni. «Così non imparerò mai a fare da solo!»

Anche qui può essere utile per il genitore un processo di conoscenza.

Il chiedersi: «Chi sto proteggendo in questo momento, me o lui?» può aiutarlo a capire se ciò che fa è indirizzato veramente al bambino o a se stesso, al suo bisogno di sentirsi rassicurato dal considerarsi un buon genitore.

Altrimenti si rischia di intervenire nella realtà non “per” il bambino, ma “al suo posto”, come se lui non esistesse o non fosse capace di imparare, cioè non avesse risorse.

Il messaggio profondo che il bambino riceve può quindi diventare svalutativo e disconfermante e il crescere in questa identità ne farà più facilmente un bambino insicuro che non può contare sulle sue risorse perché non sa neanche di averle, non avendo avuto la possibilità di conoscerle né di sperimentarle.

Di questi bambini colpisce spesso la grande fragilità emotiva e l'incapacità di tollerare anche la minima frustrazione, manifestata attraverso i più svariati sintomi (mi è capitato recentemente di fare una consulenza per un caso di balbuzie infantile che aveva alle spalle una situazione del genere).

Indubbiamente per il genitore diventa un po' più ansiogeno l'assistere a volte agli inevitabili tentativi ed errori che il bambino farà per imparare, ma forse il riuscire a contenere quest'ansia può servire sia a lui che al piccolo, tanto più che l'apprendere per tentativi ed errori è il metodo che utilizziamo in genere per imparare, a cominciare dal parlare e dal camminare, per tutto il resto dei nostri giorni.

L'avere dei limiti, anche all'aiuto rassicurante del genitore, sembra quindi essere un bagaglio importante per un bambino che gli permetterà di avere dei «contenitori mentali» per le esperienze.

Anche lo star male, il dolore e l'angoscia possono essere più sopportabili se ci sono questi contenitori che li delimitano, piuttosto che essere vissuti come infiniti e travolgenti, senza limiti che li contengano.

Dice la Miller a questo proposito:

“Un bambino che venga tenuto sempre per mano e perciò non abbia la possibilità di percorrere la sua strada, perderà col tempo la voglia di fare scoperte.

Ci sono padri che, a modo loro, amano molto i figli, li proteggono, vorrebbero introdurli nel loro mondo spirituale e sono talmente ossessionati da quest'idea che – proprio perché vivono il figlio come un ampliamento del proprio sé – non riescono a capacitarsi che esso possa vedere il mondo con occhi diversi dai propri.

Un'atmosfera così iperprotettiva costituisce una grave minaccia per la vitalità e la capacità di crescita di un bambino.

Egli è a tal punto riconoscente verso suo padre (per la vita e per l'amore che gli ha dato, per le cose che gli ha insegnato) che dapprima rinuncia facilmente a compiere passi che potrebbero dispiacergli.

Ma quando il suo impulso a esprimere il proprio sé si farà più impellente egli o manifesterà disturbi psichici o dovrà decidersi a far dispiacere al padre.

Le conseguenze dipenderanno dal grado di maturità del genitore.” [3]

Un altro autore, D. Anzieu, che si è occupato dei disturbi della pelle, il nostro limite e contenitore somatico per eccellenza, sostiene:

“Mi sembra quindi che un compito urgente, psicologico e sociale, sia la ricostruzione dei limiti, il ristabilimento delle frontiere, il riconoscimento di territori abitabili e vivibili; frontiere e limiti che istituiscono delle differenze e insieme permettono lo scambio tra le regioni (della psiche, del sapere, della società, dell'umanità) così delimitate.” [4]

«Papà,» ha detto un giorno un bambino a suo padre «ieri sera quando mi hai accompagnato a letto e io continuavo a piangere e a fare i capricci, tu non hai capito proprio niente! Io volevo che TU MI DESSI UNA SCULACCIATA perché da solo io non riuscivo più a smettere. Eri tu che dovevi aiutarmi a smettere!»

Ancora una volta, ascoltiamo i bambini se vogliamo imparare.

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Note

1. Mc Dougall, “Teatri del corpo”, Cortina, Milano 1990. (torna al testo)

2. A Miller, “La persecuzione del bambino”, Bollati-Boringhieri, Torino 1987. (torna al testo)

3. A. Miller, “Il bambino inascoltato”, Bollati-Boringhieri, Torino 1989. (torna al testo)

4. D. Anzieu, “L'Io-pelle”, Borla, Roma 1987. (torna al testo)

 

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