Per una cartografia dell’immaginario /1

Dialoghi FilosoficiLa fine del primo decennio del nuovo millennio sta per chiudersi sotto il segno di un maître a penser inaspettato e insospettabile. Stiamo parlando di Elémire Zolla, il teorico del nuovo sincretismo. Il nuovo secolo non sarà deleuziano, heideggeriano o lacaniano, anche se questi pensatori continueranno ad esercitare una grande influenza. Ciò che sta accadendo è qualcosa di più radicale rispetto alle prospettive tratteggiate dal lascito poststrutturalista ed heideggeriano, che senza dubbio ha il merito di avere preparato il terreno alla nuova episteme. Siamo già oltre la fase della fine della metafisica «della presenza» e dell’identità.

Per una cartografia dell’immaginario /1

di Antonio D’Alonzo

La fine del primo decennio del nuovo millennio sta per chiudersi sotto il segno di un maître a penser inaspettato e insospettabile. Stiamo parlando di Elémire Zolla, il teorico del nuovo sincretismo. Il nuovo secolo non sarà deleuziano, heideggeriano o lacaniano, anche se questi pensatori continueranno ad esercitare una grande influenza. Ciò che sta accadendo è qualcosa di più radicale rispetto alle prospettive tratteggiate dal lascito poststrutturalista ed heideggeriano, che senza dubbio ha il merito di avere preparato il terreno alla nuova episteme. Siamo già oltre la fase della fine della metafisica «della presenza» e dell’identità. Possono mettersi l’anima in pace tutti i teorici del clash of civilisations o delle radici giudaico-cristiane: per pensare il nostro tempo non si può più prescindere dal meticciato spirituale e dall’idea di identità «liquida», secondo la fortunata definizione di Bauman volta ad indicare la dissoluzione dei vincoli «solidi» della tradizione storico-culturale, il presunto nucleo in cui si declina l’appartenenza comunitaria. Se fino a ieri l’identità personale era costituita dalla cultura della comunità – assieme al vissuto ed al genoma – adesso gli steccati di riferimento sono saltati. Con la fine degli stati-nazione il «mondo» irrompe e travolge i vecchi bastioni identitari, la retrograda localizzazione degli spiriti nazionali: il «sentire» tedesco, francese, inglese, occidentale, orientale, ecc. Un nuovo assetto mondiale è alle porte, non vi è più spazio per un protagonista unico della scena internazionale come nei primi tempi dell’America bushiana.

Identità liquida che porta a compimento il progetto della prima modernità, il «cosmopolitismo» baudelereiano dove l’individuo è al centro di un sistema-mondo in cui le connessioni e le interrelazioni avvengono ad alta velocità. Identità liquida che, tuttavia, risponde anche alle sollecitazioni postmoderne sulle contaminazioni e l’incenerimento dei margini. Il modernismo è contrassegnato dalle prime risate indotte dall’apparizione del cinema muto di Buster Keaton, che serve a riportare entro i margini il borderline. Ciò che è fuori degli schemi provoca il riso come risposta-reintegrazione all’interno del margine. Ad esempio, Talete passeggia guardando le stelle, inciampa e provoca il riso di una serva che lo canzona perché, volto unicamente al cielo, non si cura di ciò che trova a terra, sotto i piedi. La povera donna è impressionata dall’eccentricità intellettuale del pensatore che eccede i limiti delle sue capacità quotidiane di moglie e madre; l’incidente e la risata servono a riportare il filosofo all’interno del mondo quotidiano della donna, a mostrare che ella ha ragione sul pensatore presocratico, che la vita della gente comune è preferibile a quella contemplativa: «Ecco che cosa accade a chi guarda le stelle e non pensa terra-terra, come faccio io». Il pianto invece caratterizza la città postmoderna alla Blade Runner, incubo notturno della nuova babele linguistica, etnica e culturale; il pianto simboleggia il rifiuto del limite, del tabù: ad esempio, la frustrazione del bambino capriccioso che s’infrange contro le regole famigliari o scolastiche.

Con il tramonto delle identità «solide», si erge un nuovo protagonista della scena mondiale che ha la sua forza nel multiculturalismo e nel pensiero nomade. Un soggetto che non ha più bisogno di appartenere ad una terra natia, perché appartiene al sistema-mondo. È obsoleta anche la divisione tra Oriente ed Occidente. In seguito alla crisi americana, è probabile che i cinesi – attraverso i fondi sovrani che sostengono il sistema creditizio a stelle e strisce – riescano ad entrare nei consigli d’amministrazione di molte società statunitensi. Sicuramente, gli Usa hanno bisogno delle banche cinesi, così come la Terra di Mezzo ha bisogno di esportare oltreoceano. Da questa sinergia, la nascita di un nuovo soggetto, la «Chimerica» (China + America), cui si contrappone giocoforza un vecchio ibrido, l’«Eurussia» (Limes, n.5/08). Brasile e Messico rientrerebbero a pieno titolo in «Chimerica»: si tratta di capire a quale schieramento vorrà fare riferimento l’India.

Per quanto riguarda il vecchio continente, l’esperimento comunitario è parzialmente fallito. Parzialmente, perché se il progetto era di limitarsi a dare solidità finanziaria ai membri Ue, il bersaglio è stato raggiunto. Se l’intento era di costruire un’identità culturale e politica europea, il target è stato clamorosamente mancato. Inoltre, l’Ue, è debole soprattutto dal punto di vista energetico, al contrario della Russia che – proprio perché legata agli idrocarburi ed agli investimenti stranieri – ha bisogno di continuare ad assicurare le sue forniture di gas e petrolio ai partner europei. Il bisogno reciproco gioca a favore della nascita di «Eurussia». Ma queste nuove partnership non si comporteranno più come blocchi contrapposti, ma piuttosto come vasi intercomunicanti che, nel rispetto delle sinergie consolidate, necessitano di assistenza reciproca: l’epoca del muro contro muro e delle cortine di ferro è finita per sempre.

È improbabile pensare che, nel XXI secolo, i bambini africani continuino a morire di fame senza che ci si decida ad utilizzare le enormi risorse agricole, finora sfruttate esclusivamente per produrre il mangime degli animali da cortile destinati alle tavole occidentali. Se l’homo sapiens sapiens non vuole estinguersi come i dinosauri, deve approntare nuove politiche energetiche e distributive a livello mondiale. La forbice tra Nord e Sud del mondo è destinata ad accorciarsi: come insegna il disastro americano, l’economia mondiale non può più essere supportata da quel 10% di ricchi occidentali che detiene il 90% delle risorse globali. Questi cambiamenti geopolitici non avverranno dalla sera alla mattina, la storia non è un treno chiamato «progresso» che sfreccia inarrestabile in un’unica direzione. Ma a lungo raggio non s’intravedono alternative ad una nuova politica energetico-distributiva.

Ad una nuova episteme corrisponde, giocoforza, un nuovo pensiero. La «scoperta» dell’Altro ha richiesto la nascita delle scienze umane in grado di pensare la differenza antropologica: lenti d’ingrandimento con cui studiare l’«alieno» e l’outsider di turno. Questo tempo è finito per sempre in quanto l’Altro è ormai drasticamente simile al «Me», l’identità è contaminata dalla differenza. Il cinese ha le stesse esigenze e gli stessi gusti dello yankee: per mangiare non si accontenta più di una ciotola di riso. È la globalizzazione, bellezza. Rimangono delle sacche di arretratezza in alcuni paesi islamici come l’Afghanistan, o in zone montuose di confine come le tribal areas nel nord del Pakistan. Ma in paesi limitrofi come l’Iran, soffia implacabile il vento della modernizzazione: si prenda come esempio il successo nello studio e nell’istruzione delle donne iraniane o la nouvelle vague del cinema iraniano, rappresentato da cineasti come Kiarostami o Makhmalbaf. Il rapporto si è capovolto: non è più l’io ad abitare il mondo, ma il mondo ad abitare l’io. Il compito del pensiero, e della filosofia in particolare, non è più di pensare la differenza, ma di abolire del tutto l’identità: «La filosofia non ha tanto lo scopo di dare all’uomo qualcosa, quanto piuttosto di separarlo, per quanto possibile, da tutto quanto gli proviene dal contingente» (Schelling, Filosofia e Religione, vol. VI, p. 21).

Si percepisce la necessità di una nuova filosofia planetaria per l’individuo globalizzato, una forma mentis in grado di rispondere alle esigenze del nuovo Occidente e del nuovo Oriente. Filosofia planetaria che non deve assolutamente essere confusa con il pensiero unico di un vetero-consumismo ormai esangue. Questa nuova filosofia, come si è visto, deve abolire l’identità dell’uomo-massa, non perpetuare le dinamiche dell’industria culturale del Novecento. Il nuovo vision tunnel deve essere costruito da materiali alti e spirituali e dai vecchi feticci consumistici propugnati dall’estetica del «produci-consuma-crepa». È il momento di raccogliere l’invito di Henry Corbin in favore di una nuova «cavalleria spirituale»: con la differenza che il comparatismo non deve riguardare soltanto le tre religioni del Libro ma tutte le metafisiche e mistiche del globo.

Ecco perché il nostro tempo non può più fare a meno del sincretismo di Zolla, il pensatore che per primo ha riscoperto idee e sistemi di pensiero caduti nell’oblio come il «sincretismo», la «filosofia perenne» (termine coniato da Agostino Steuco nel 1540 e poi utilizzato nel Novecento da Coomaraswamy al posto di «Tradizione Primordiale»), la «mente naturale». «Sincretismo» e «filosofia perenne» sono pressoché sinonimi nel pensiero di Zolla: il secondo termine indica una dottrina capace di pacificare tutte le filosofie e tutte le religioni , di rifiutare la «dualità, la contrapposizione per attenersi all’unità» (Zolla, Un destino itinerante ; Marsilio, Venezia, 2002, p. 87). Il termine «sincretismo» è usato dagli storici delle religioni per indicare la fusione ibrida tra due o più divinità (come Râ-Osiride nel pantheon egizio), tradizioni religiose (per esempio, il chö tibetano), correnti esoteriche (ad esempio, l’ermetismo neo-alessandrino): Zolla si richiama proprio a questa crasi spirituale che può condurre a ritrovare una «metafisica unitaria» alla radice di tutte le filosofie, le religioni, le scienze. «Filosofia perenne» è la capacità di riconoscere l’identità che si nasconde sotto le differenze storico-contingenti: come un villaggio che visto da vicino presenta strade ed edifici differenti, ma che visto da lontano, da una giusta prospettiva, si profila come un tutto unico. Lo specialismo accademico è questa sorta di «miopia» intellettuale che si perde nei dettagli, impedendo di scrutare la visione da una giusta distanza. La «mente naturale» appartiene a chi ha buona vista e riesce a smascherare l’identità nell’apparente diversità, a ricondurre armoniosamente il molteplice all’Uno («metafisica unitaria»): «mente naturale sarebbe quella giunta alla suprema perfezione, annegata nella natura che è l’eterno presente» (Zolla, La Filosofia Perenne, Mondadori, Milano, 1999, p. 3).

È evidente che un simile approccio spirituale non può riscuotere la simpatia del mondo accademico. Le accuse di acriticismo metodologico e di sovrapposizione indebita di materiali eterogenei non si sono fatte attendere, a cominciare dalla fenomenologia religiosa e dallo strutturalismo, correnti che – rispetto alla filosofia perenne – hanno comunque elaborato delle criteriologie di ricerca. Le scienze umane richiedono un oggetto ed un metodo: nella storia delle religioni, ad esempio, il comparatismo non può essere applicato a casaccio, ma deve rinviare a differenti livelli di competenza. Il grande storico delle religioni, Angelo Brelich, delinea così il metodo storico-comparativo: 1) conoscenze filologiche di prima mano + 2) conoscenze di seconda mano, attinte dalla letteratura scientifica. Da un lato, una rigorosa formazione filologica su di un ambito di studi circoscritto («messicanistica», «islamistica», ecc.), dall’altro, la capacità di attingere agli studi specialistici degli altri settori tentando di effettuare la comparazione. Comparare due culture senza conoscere perfettamente la letteratura e la storia di almeno una delle due, secondo Brelich è dilettantesco. Ed effettivamente, da un punto di visto storico o antropologico, egli ha ragione: le scienze umane non possono prescindere dai rispettivi metodi di ricerca. Ma che dire della filosofia, «follia senza metodo» per eccellenza (per lo meno dal côté «continentale» e non «analitico»)? Come ha scritto Michel Foucault, se identifichiamo lo scopo della filosofia con il tentativo di pensare l’«Altro», o con l’abolizione dell’identità, le metodologie consolidate dalle scienze umane diventano parte integrante dell’episteme da superare. Il «nuovo» non può appoggiarsi ancora sul «vecchio» senza rientrare giocoforza nelle vecchie pratiche discorsive del sapere condiviso, che attorno a queste ultime organizza la sua resistenza mediante l’assimilazione e la plasmazione del border-line, dell’elemento di novità (fenomenologia del «riso»).

Per pensare una nuova filosofia planetaria di tipo solistico si deve rompere con il passato, con l’episteme novecentesca delle scienze umane. Si deve rinunciare all’idea che le scienze umane possano prestare una base metodologica alla filosofia, si deve abbandonare la pretesa di ricercare i fondamenti «positivi» delle argomentazioni filosofiche. Questo non significa sconfessare la filosofia analitica o l’ermeneutica, che continueranno comunque ad avere una loro ragione d’essere. Significa piuttosto fondare una nuova branca della filosofia che non si appoggia più sulla ragione, ma sull’immaginazione. Certamente, non si tratta più della «filosofia» tradizionalmente insegnata nelle Accademie: ma che si decida di chiamarla – come fa Roberto Calasso – «letteratura», «letterar-filosofia», oppure filosofia dell’immaginario, la sostanza non cambia.

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