Metafisica e cibernetica /1

Dialoghi FilosoficiPochissimi individui, oggi, mostrerebbero interesse per la metafisica. Siamo ormai abituati ad etichettare la metafisica come una sorta di pensiero inattuale, anacronistico, superato nella sua pretesa di universalizzare la «verità».
La filosofia non può più ambire a rinverdire i fasti del passato, ma deve limitarsi a essere considerata una delle tante «voci» del mondo che articolano l’interpretazione, ad operare una scelta tra il presentare se stessa come una sorta di tuttologia dilettantesca o, viceversa, a subordinare il suo ruolo ed il suo antico prestigio al servizio ancillare nei confronti delle scienze umane, meglio qualificate per indagare con metodologie aggiornate le sfaccettature della società o i comportamenti individuali.

Metafisica e cibernetica /1

di Antonio D’Alonzo

Pochissimi individui, oggi, mostrerebbero interesse per la metafisica. Siamo ormai abituati ad etichettare la metafisica come una sorta di pensiero inattuale, anacronistico, superato nella sua pretesa di universalizzare la «verità».

Nella postmodernità si definisce la ragione non più come uno specchio capace di riflettere una presunta verità oggettiva, ipostatica, intelligibile o fenomenica, ma come – la definizione è di Richard Rorty, filosofo statunitense recentemente scomparso – una «rete», uno strumento fallibile con cui a volte si riesce a catturare qualche significato (ed in questo caso si è centrato il bersaglio), ma molte volte si rimane a bocca asciutta.

La filosofia non può più ambire a rinverdire i fasti del passato, ma deve limitarsi a essere considerata una delle tante «voci» del mondo che articolano l’interpretazione, ad operare una scelta tra il presentare se stessa come una sorta di tuttologia dilettantesca o, viceversa, a subordinare il suo ruolo ed il suo antico prestigio al servizio ancillare nei confronti delle scienze umane, meglio qualificate per indagare con metodologie aggiornate le sfaccettature della società o i comportamenti individuali. Scienze umane – psicologia, antropologia, sociologia – autoritarie, perché nei loro procedimenti si propongono sempre di analizzare le differenze individuali o collettive attraverso le griglie concettuali del «socialmente utile», cercando di riportare gli elementi eccentrici, eterogenei e devianti alla dottrina del pensiero unico e ai crismi della «pseudo-normalità» decisi dal sistema sociale. Di ricondurre la differenza all’identità: operazione totalitaria ma funzionale ai meccanismi dell’industria culturale. L’eccesso contro-culturale può diventare socialmente pericoloso, come si è visto durante gli anni della contestazione sessantottina e deve essere reintegrato nella «mitopoiesi» del politically correct. Le scienze umane diventano anche e soprattutto uno strumento di repressione e di normalizzazione sociale della soggettività eccentrica.

Nemmeno si tratta di intravedere nella «fine» della filosofia, qualche altra cosa da un destino che si compie, come ricorda Heidegger, come oblio dell’essere e dispiegamento finale del nichilismo, passando dai greci al gestell, l’impianto tecnico. È un compimento, secondo Heidegger, che comincia con l’atteggiamento descrittivo-normativo dei Greci che «pongono-davanti» l’ente, inaugurando il progressivo oblio dell’essere e che termina con il gestell, la tecnica pensata come padroneggiamento prometeico di tutta la Terra.

In questa prospettiva, la «metafisica» non sarebbe altro che una forma particolare, un’attitudine storico-contingente elaborata dalla mente umana per coprire il lasso di tempo che dal mondo greco conduce alla tecnica moderna. Un arco diacronico che abbraccia la storia dell’Occidente, che esaurisce la possibilità del pensiero metafisico, se non addirittura «filosofico».

A differenza di Guénon, che vede il nichilismo occidentale come oblio della «Tradizione» e della «vera» metafisica, per Heidegger la metafisica stessa, nella sua essenza, è nichilismo ed oblio dell’essere in favore dell’ente. Per il pensatore tedesco la metafisica è un fraintendimento essenziale che confonde l’ente-presente, l’essente, ciò-che-appare, con l’essere che dovrebbe essere pensato piuttosto come a-lethéia, dis-velamento, ciò che sta dietro ed invia ciò-che-appare. La metafisica occidentale, al contrario, si ferma alla contemplazione dell’ente-presente, ipostatizzando il tempo nella sola dimensione del presente ed escludendo le altre modalità diacroniche del passato e del futuro. Lo stesso sguardo greco postula la «verità», l’essere, come un qualcosa che si può descrivere e «manipolare» a cominciare dal modo in cui si decide di posizionarlo di fronte alla soggettività. Proprio nel mito della caverna platonica inizia il fraintendimento essenziale, quando il prigioniero esce in superficie e rimane abbagliato di fronte alla luce del Sole.

Heidegger pensa che la metafisica occidentale – in quanto metafisica della presenza – ha sempre mancato di pensare l’essere che nella sua essenza è piuttosto un «ereignis», un «evento» non continuamente disponibile allo sguardo umano, ma qualcosa che «erra», che si apre come «lucore» dietro l’ipostasi dell’ente. L’essere è una luce che si accende e nasconde dietro la presenza dell’essente: da qui la differenza ontologica tra essere ed ente. La metafisica occidentale trova il suo perfetto compimento nella tecnica moderna, come totale manipolazione dell’ente ed oblio dell’essere: pensiamo alla dimensione faustiana della scienza novecentesca, ai tentativi neopositivisti di programmare il controllo delle forze terrestri.

Questo è il quadro epocale dal quale prende avvio il pensiero della «fine» della metafisica ed anche di un certo modo di fare filosofia, che possiamo chiamare «fondazionalista». Se si aggiungono anche le riflessioni wittgensteiniane sui «giochi linguistici» ed il disincanto per lo smacco delle grandi utopie novecentesche, si comprende come oggi non sia più possibile guardare con fiducia alle meta-narrazioni o alle meta-teorie. La ragione può soltanto interpretare, non certamente trascendere la sua condizione o delineare il senso della storia. Heidegger però, in questo contesto di smacco epocale del pensiero, invita a guardare indietro, al momento antecedente la decisione metafisica presa con la caverna di Platone. A cercare un’altra parola per pensare la verità dell’essere, a risalire ai presocratici, in particolare ad Anassimandro. Riavvolgere la pellicola della storia ed analizzare quello che è rimasto nell’ombra, l’impensato.

In questa prospettiva, si può tentare il recupero del pensiero esoterico, vero fiume carsico che ha attraversato la storia dell’Occidente. Si può tentare di risalire all’«altro-pensiero», all’altra «via» che Parmenide non percorse, alla mistica, alla mitologia comparata, ecc. Si può cercare di «spremere» tutto quello che non è ancora stato «spremuto», di pensare l’im-pensato e l’im-pensabile, di dire l’in-dicibile. Cercare di concepire una sorta di «un-philosophie», «filosofia-altra», così denominata non perché rifiuta la svolta ermeneutica o si arroga il diritto di elaborare nuove metateorie, ma perché cerca di recuperare il rimosso, il perturbante, l’Ombra: tutto ciò che è rimasto fuori, relegato ai margini dal dispotismo della metafisica «ufficiale».

Ma si può compiere un ulteriore passo. Se il recupero dell’«esoterico», del «mistico», del «mitico» è un tentativo di reintegrazione di survivals che guarda al passato, non si deve trascurare le possibilità che si aprono sul presente e sul futuro, in vista di un’auspicabile nuova sintesi della conoscenza e della mente umana. Non si tratta di ritornare a proporre altre meta-narrazioni o meta-teorie, perché questa volta il campo d’indagine per cercare di elaborare nuove forme di sapere accumulative-descrittive non coincide più con l’intelletto noetico o la ragione dialettica, ma con la cibernetica. La mente non deve più ricercare i principi in sé stessa, cercare di elaborare quello che non può essere elaborato, ma proiettare le proprie dinamiche cognitive nel virtuale per cogliere la sinergia che non è mai stata colta: l’integrazione tra pensiero razionale ed immaginario mitico-simbolico. Non una semplice analisi del profondo – che in fondo cerca di ricreare contenuti razionali per gli archetipi – ma la fusione tra lógos e mýthos. Dove con quest’ultima espressione intendiamo il mondo dell’«Angelo», il mundus imaginalis descritto magistralmente da Henry Corbin.

È chiaro che se usiamo il termine «immaginario» – o ancora più precisamente «immaginale» – per definire la dimensione dell’intermondo, o mesocosmo, che si apre tra la sfera della percezione sensibile e le categorie dell’intelletto, non possiamo confondere il primo ambito con quello di cui si occupa la metafisica. Quest’ultima in quanto pensiero dell’essere – o meglio dell’oblio dell’essere – concerne il puro trascendens, mentre l’immaginale deve essere identificato piuttosto con il mondo sottile, con la produzione «animica», le teofanie angeliche o lo stato del sogno presentato nelle upanishad.

L’immaginale è la dimensione intermedia ed intermediaria per congiungere il trascendente alla percezione sensibile. L’immaginale è il mezzo, lo strumento, il sentiero, che conduce all’apertura trascendentale. Ho omesso volutamente d’inserire nella schematizzazione la ragione discorsiva, il lógos, perché, a mio avviso, la ratio e l’intelletto noetico, pur avendo funzioni distinte – le argomentazioni logiche la prima, l’apertura trascendentale la seconda – si correlano entrambe alla mente umana (di cui l’homo sapiens sapiens utilizza soltanto una percentuale infinitesimale delle sue capacità).

Molte tradizioni mistiche identificano l’intelletto noetico con il «cuore» pensato come centro focale dello spirito, distinto dal «cervello» come organo della ragione discorsiva. La distinzione non mi sembra molto fondata, perché si dovrebbe allora circoscrivere il campo d’azione e sottrazione dello «spirito» nell’uomo, incappando nelle aporie che hanno confuso molti mistici cristiani. La prospettiva non cambia se identifichiamo lo spirito-cuore con l’anima, perché a questo punto dovremmo definire meglio la seconda: operazione scivolosa in una cultura come quella occidentale che è sempre rimasta all’interno del dualismo cartesiano tra res extensa e res cogitans. In altre parole, che cosa vogliamo intendere, quando parliamo del «cuore» come fulcro spirituale dell’individualità trascendentale? Se non vogliamo riferirci a termini annacquati dalla catechesi cattolica come «fede», «purezza e semplicità», «dono del sentimento», ecc., se vogliamo continuare a percorrere la strada della gnosi, dobbiamo ricondurre la ratio logocentrica e l’intelletto noetico a due funzioni distinte della mente, compresa come potenziale inespresso del cervello umano per la scarsa utilizzazione dell’emisfero destro. Funzioni distinte – emisfero destro ed emisfero sinistro – della stessa facoltà.

Dopo questa digressione, ritorniamo alla questione principale del rapporto tra metafisica e cibernetica. Abbiamo visto che l’immaginale coincide con l’intermondo, inteso come la dimensione mediana ed il mezzo per realizzare l’intelletto noetico-trascendentale. Ammesso che quest’ultimo possa essere considerato come il graal della condizione umana, il lapis che ancora si sottrae ai nostri sforzi, dobbiamo precisare meglio le ragioni che identificherebbero nella cibernetica lo strumento «principe» dell’immaginale contemporaneo. Qualche anno fa, uscì un illuminante saggio di Elémire Zolla dal titolo Uscite dal Mondo [1]. In questo libro lo studioso intravedeva nei primi programmi di realtà virtuale – un’apparecchiatura che comprendeva un guanto ed un paio d’occhiali per proiettare il corpo astrale nel programma – la possibilità di risvegliare una sorta di Io sciamanico, che gli abusi del pensiero logico e matematico avevano completamente obliterato nell’uomo occidentale. Tramite la realtà virtuale diventava possibile trascendere le categorie soggettive dello spazio e del tempo – l’utilizzo tridimensionale degli utensili – ed entrare in un’altra dimensione, nello stesso spazio intermedio che percorre lo sciamano durante il viaggio astrale che congiunge il mondo fisico al mondo spirituale, la terra al cielo, l’alto al basso. Secondo la previsione di Zolla, la realtà virtuale avrebbe reso possibile l’affacciarsi di una nuova era – un nuovo modo di pensare e di percepire gli enti – che avrebbe condotto al suo compimento il vecchio sapere umanistico fondato sul cogito cartesiano. Negli anni Novanta, uscirono un paio di film che intendevano richiamare l’attenzione sui rischi della realtà virtuale: Il Tagliaerbe e Strange Days. In entrambi, il tentativo di spingere la mente umana oltre i propri limiti conduceva alla pazzia e alla devianza sociale. Una visione molto critica, dunque, della realtà virtuale e della tecnica in generale. Ma è ancora possibile pensare alla téchne come a qualcosa di estraneo o alienante rispetto alla condizione umana? O non si deve forse ripensare la téchne come qualcosa che non soltanto non è una semplice applicazione della scienza moderna, ma caratterizza, dall’inizio, la stessa essenza umana?

L’antropologia filosofica del Novecento ha rilevato come elementi costitutivi dell’homo sapiens sapiens il pollice prensile e la capacità di organizzare le pulsioni. A differenza degli altri animali, l’uomo non possiede né un istinto che lo guida nella caccia o nella fuga, né le potenzialità biologiche del predatore o della preda. Privo di artigli e di fauci, o di potenti arti per sfuggire alla cattura, l’uomo ha dovuto sopperire con la cultura alla sua inferiorità naturale. Ha imparato a procrastinare la soddisfazione immediata delle pulsioni, organizzandole in comportamenti strutturati. Il pollice prensile ha permesso all’uomo preistorico di brandire la prima clava e di elaborare delle strategie di caccia e di difesa. Lo stesso concetto di «natura» come è stato postulato da Rosseau ed Hobbes è infondato. Il topos di una «natura» come categoria antropologica o stilema narrativo da contrapporre alla «cultura» è già una costruzione culturale resa possibile dall’idealizzazione dell’idea stessa di «natura». Un’idea che l’uomo è «costretto» ad elaborare razionalmente e che non può essere percepita in modo ingenuo, «naturale». La vera «natura» dell’homo sapiens sapiens – lo spazio per organizzare il comportamento – è la coscienza culturalmente costruita dal tempo che intercorre tra la pulsione e la soddisfazione del bisogno [2]. La téchne, lungi dall’essere un derivato dello scientismo moderno, è una vera e propria protesi del corpo biologicamente inferiore dell’homo sapiens sapiens. Essa non compare con il Seicento europeo, ma già abita il braccio del primate che brandisce il legno trasformandolo in clava. In altre parole, la téchne non è il compimento del nichilismo, ma il dispiegamento dell’essenza dell’uomo.

Con questa chiave di lettura è possibile rileggere la storia heideggeriana della metafisica, come nichilismo ed oblio dell’essere. Nel dopoguerra, gli interpreti di Heidegger hanno accentuato l’aspetto di compiutezza e dispiegamento del nichilismo nell’ultimo orizzonte epocale della storia del pensiero occidentale. Nel gestell (traducibile con l’«impianto» tecnico) si compie la storia dell’oblio dell’essere in favore dell’ente, preceduto da altrettante epoche in cui si concreta il fraintendimento essenziale del secondo a scapito del primo: idea (Platone), enèrgeia (Aristotele), ens creatum (cristianesimo), soggetto (Descartes), monade (Leibniz), spirito (Hegel), volontà di potenza (Nietzsche). Infine il gestell (la tecnica). La tecnica [3] moderna diventa il compimento del padroneggiamento conoscitivo ed operativo dell’ente nel contemporaneo oblio dell’essere. Oblio che deriva dallo scegliere e manipolare l’ente ipostatizzandolo nella sola dimensione temporale del presente, con la completa esclusione del passato e del futuro. In altre parole, la metafisica tende ad ipostatizzare la dimensione temporale del presente, fissando come un essente (ente-presente), ciò che deve essere ripensato nella sua piena articolazione temporale di presente, passato, futuro. L’ente-presente diventa allora ciò che si offre allo sguardo dell’uomo. Ma ciò che è davvero fondamentale è l’essere pensato come ereignis («evento»): ciò che erra e si sottrae svelandosi dietro alla presenza dell’essente (ente-presente). Quello che è davvero fondamentale non è l’«ente-presente», ma l ‘ereignis (essere) pensato come piena articolazione temporale di presente-passato-futuro.

Nella tecnica, nel ge-stell, si realizzano completamente gli atteggiamenti fondamentali che caratterizzano la metafisica come oblio e nichilismo dell’essere: il «porre» (stellen) ed i suoi derivati come il «rappresentare» (vorstellen), il «produrre» (herstellen), il «disporre» (bestellen). Nel «porre» della tecnica si compie il destino del pensiero occidentale che non ha saputo corrispondere al dis-velarsi dell’essere, allo svelamento che nel darsi-si-sottrae alla presa dello sguardo. Per Heidegger però non è pensabile – ed è qui un’altra differenza con il pensiero c.d. «tradizionale» – ritornare ad una mitica età «dell’oro», ad una natura incontaminata ed incorrotta in cui la verità si mostrerebbe senza veli. Non è possibile uscire dal nichilismo pensato come storia dell’Occidente. Al contrario, proprio perché la tecnica porta a compimento una fase necessaria del pensiero occidentale, proprio perché in essa si esauriscono le possibilità della speculazione metafisica, diventa possibile pensare un «nuovo» inizio, un nuovo modo di correlarsi dell’uomo all’«essere» (a questo punto pensato come ereignis, «evento», per sottrarre l’essere all’ipostasi della presenza):

«Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà del pensare» [4].

Due aspetti fondamentali emergono, a mio avviso, da questi passaggi del pensiero di Heidegger:

•  La tecnica contemporanea è il compimento di un processo che inizia con i greci (Platone) ed arriva ai nostri giorni. La tecnica in quanto realizzazione finale della metafisica non è un prodotto del mondo moderno, ma è piuttosto l’essenza stessa dell’uomo. Il gesto del primate che in «2001: odissea nello spazio» di Kubrik brandisce un osso come clava esemplifica bene il momento in cui la «tecnica» sostituisce la «natura» nell’uomo (non a caso nella sequenza successiva si passa al valzer cosmico delle astronavi sulle note di Strauss). In questa prospettiva non ha senso avallare ancora le dicotomie «classiche» che contrappongono l’«inizio» aureo all’età del ferro attuale, la «metafisica» alla «scienza», la «conoscenza tradizionale» alla «cultura profana», ecc. Si può solo distinguere tra una fase iniziale della tecnica «metafisicizzante» ed una attuale della tecnica «industriale» (adesso «post-industriale» o «surmoderna», che trova la sua massima espressione nel «virtuale»).

•  La tecnica è un nuovo inizio. La metafisica ha rappresentato una stagione del pensiero attraverso cui l’uomo si è interrogato sul senso dell’esistere e dell’essere. Ma questa dimensione è ormai arrivata a compimento, avendo espresso tutte le sue possibilità. C’è bisogno di un nuovo pensiero o di un altro modo di pensare che possa oltrepassare la metafisica. Questa ragione «altra» non può più prescindere dalla visione, dall’Immaginale, come lo pensava Corbin. Ma oggi il pensiero che dovrebbe ri-unificare il lógos al mýthos ha un supporto, un medium, ancora impensabile ai tempi di Corbin: il mondo virtuale.

Ma la possibilità di pensare la tecnica come nuovo inizio non deve essere concepita come una cesura con il pensiero esoterico o mistico: si deve comunque tentare di risalire all’«altro-pensiero», all’altra «via» parmenidea. In discussione è piuttosto la possibilità di uscire dal Kali-Yuga, di restaurare, come se niente fosse mai successo, lo stato aureo originario. La reintegrazione non può avvenire all’inizio, ma nell’hic et nunc della condizione surmoderna o postmoderna.

Il mitologema della Caduta è un mito di fondazione che serve per orientare il pensiero e la prassi, ma non può essere considerato come la fase finale di un meta-racconto escatologico. In altre parole, la sua importanza risiede nell’essere un simbolo del perfezionamento interiore da realizzare. Ma tutte le varie dottrine apocalittiche sulla fine del mondo o sui cicli cosmici non intendono richiamare altro che ad un cambiamento spirituale collettivo: peraltro sconfessato con l’evoluzione del next-age dal new-age. Il giorno del Giudizio deve essere pensato, piuttosto, come la presa-di-coscienza individuale che sprona al cambiamento. Il «nuovo» inizio deve essere pensato nel nostro tempo, nell’era della tecnica contemporanea.

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Note

1. Cfr. E. Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano, 1992. (torna al testo)

2. Cfr. U. Galimberti, Psiche e téchne, Feltrinelli, Milano 1999. (torna al testo)

3. Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi , Mursia, Firenze, 1991. (torna al testo)

4. Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Firenze, 1991. (torna al testo)

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