In questo articolo si analizzano gli ingredienti cognitivi necessari per sentirsi in colpa e si esamina la dinamica del senso di colpa (sdc) ovvero come può aumentare e diminuire.
Analisi sul senso di colpa
di Francesco Mancini
Dell’Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma
In questo articolo si analizzano gli ingredienti cognitivi necessari per sentirsi in colpa e si esamina la dinamica del senso di colpa (sdc) ovvero come può aumentare e diminuire.
Esistono diversi tipi di sdc: del sopravvissuto, da danneggiamento senza colpa, da colpa, da delusione delle aspettative altrui, verso se stessi ed etico. Nell’articolo si esaminano gli ingredienti del sdc del sopravvissuto e si mostra come dal sdc del sopravvissuto possano essere derivati gli altri sdc. Si considerano le differenze ed i rapporti tra sdc ed altre emozioni come la vergogna, la pena, la paura della punizione, il rammarico ed il senso di indegnità.
Si analizzano i meccanismi del divenire del sdc: l’espiazione, la riparazione, la consapevolezza del sdc, l’evitamento, l’autogiustificazione, il cambiamento delle norme.
1. Introduzione
Il senso di colpa (sdc) pone lo psicoterapeuta cognitivo di fronte ad una contraddizione. È innegabile, infatti, che il sdc abbia un peso considerevole nei problemi di interesse psicoterapeutico e che il cognitivismo sia in grado di fornire analisi davvero illuminanti delle emozioni, ma è anche vero che ben poca attenzione sia stata spesa dai cognitivisti clinici per il sdc.
Lo scopo di questo articolo è di ovviare, almeno in parte, ad un siffatto stato di cose.
1.1 Le domande
Le domande che uno psicoterapeuta ha interesse a porsi a proposito delle emozioni ed in particolare del sdc, sono fondamentalmente tre:
1) la prima riguarda quello che potremmo definire il “profilo interno” del sdc, ovvero l’individuazione degli ingredienti che servono per provare sdc e delle modalità con cui il sdc aumenta o diminuisce.
2) La seconda riguarda il cosiddetto “profilo esterno”, ossia il ruolo che il sdc, interagendo con altri aspetti psicologici, svolge nella genesi e nel mantenimento della sofferenza psicopatologica.
3) La terza concerne la spiegazione delle differenze individuali, ossia del come e perché le persone sono diversamente sensibili al sdc.
1.2 La prima questione: la “anatomia” e la “fisiologia” del senso di colpa
In questo articolo affronto soltanto la prima delle tre questioni e dunque cerco di definire la “anatomia” del senso di colpa e la sua “fisiologia” ovvero la sua dinamica.
1.2.1. “L’anatomia”
Parlando di “anatomia” e “fisiologia” del sdc sono necessarie alcune precisazioni.
Le emozioni sono stati soggettivi complessi che coinvolgono diversi aspetti:
1 – aspetti cognitivi e dunque scopi, assunzioni e valutazioni,
2 – vissuti e sensazioni interne, “feelings”, che possono essere positivi o negativi,
3 – reazioni somatico-viscerali,
4 – tratti e comportamenti espressivi,
5 – azioni o tendenze all’azione o, almeno, disposizioni all’azione.
“Senza ricorrere ad esempi drammatici, prendiamone uno di blando senso di colpa. Poniamo che il signor A urti inavvertitamente per strada una massaia e le faccia cadere per terra tutta la spesa. Cosa implica dire che A si sente in colpa? Innanzitutto, nella mente di A sono presenti alcune conoscenze (aspetti cognitivi): A sa che alla signora è successo qualcosa di spiacevole (che è stato compromesso qualche suo scopo), e che è stato lui, A, a causare questo spiacevole evento. A prova allora (vissuti) una sensazione di dispiacere per non aver saputo evitare che questo accadesse. Se è molto sensibile (qui siamo, come si è detto, in una situazione di blando sdc), il signor A potrebbe anche sentirsi stringere lo stomaco (reazioni fisiologiche) per il dispiacere; può scusarsi o mostrarsi dispiaciuto o contrito (comportamenti espressivi); infine può darsi da fare per raccogliere la frutta, od offrire un caffé alla signora per farsi perdonare (attivazione di scopi).” (p. 9, Castelfranchi, D’Amico, Poggi, 1994).
In questo articolo sono interessato agli ingredienti cognitivi e più specificatamente a quegli scopi ed assunzioni che determinano (Frijda, 1986) il sdc.
Il compito di identificare i determinanti cognitivi del sdc è reso complicato dal fatto che esistono diversi tipi di sdc (Castelfranchi, D’Amico e Poggi, 1994; Weiss e Sampson, 1986), così che esistono diversi schemi cognitivi in grado di generare sdc. Pertanto procederò cercando in primo luogo di identificare i sdc più semplici ed essenziali, per poi definire gli ingredienti cognitivi necessari e sufficienti per generarli. Successivamente cercherò di rintracciare le modificazioni necessarie per poter ottenere gli altri sdc.
1.2.2. La fisiologia
Una volta chiarito come si genera il sdc, intendo analizzarne la “fisiologia” ovvero le sue variazioni nel tempo e perciò come esso diminuisce, aumenta o si mantiene. L’analisi della dinamica del sdc coincide, in parte, con l’analisi degli scopi attivati dal sdc (desiderio di espiazione e di riparazione) e dunque con l’analisi della sua funzione.
Il sdc, però, diminuisce, aumenta o rimane inalterato anche in conseguenza dell’efficacia dei processi autogiustificativi. E l’autogiustificazione apre numerosi problemi di spiegazione a cominciare dalla sua stessa possibilità.
2. Gli ingredienti del sdc:
2.1. Due tesi a confronto
Se si chiede a qualcuno di raccontare un episodio in cui si è sentito in colpa o se si chiede di inventare un episodio in cui ci si potrebbe sentire colpevoli, di solito si hanno risposte che fanno riferimento a tre predicati (Castelfranchi, 1994):
1 – il colpevole C, ovvero colui che si sente in colpa;
2 – la vittima V, ovvero colui verso il quale ci si sente in colpa;
3 – ciò di cui C si sente in colpa ovvero il danno patito da V.
Nel racconto che abitualmente lega questi tre predicati il colpevole assume di aver causato, per azione od omissione, il danno della vittima e, il più delle volte, nel racconto appare anche una norma morale, condivisa da C, che prescrive di agire diversamente e la credenza, sempre di C, che in effetti avrebbe potuto comportarsi diversamente.
Lo stereotipo del sdc, al quale si pensa di solito quando se ne parla, è caratterizzato dal fatto che C riconosce di aver causato un danno ingiusto a V e, in accordo con Castelfranchi (1994), suggerisco di chiamarlo sdc da colpa.
È largamente sostenuta nella psicologia (Weiner, 1992; Wicker et al., 1983; Izard, 1977; Hoffman, 1975) ed anche nella psicoterapia cognitiva (Ellis, 1962; De Silvestri, 1981), la tesi secondo la quale il sdc necessita della assunzione di essere responsabili di un danno che deriva da un atto contrario ad una norma o ad un precetto morale, etico o religioso.
Un corollario importante della tesi tradizionale sottolinea che non è necessario che C assuma di aver causato il danno ingiusto, è sufficiente che assuma di aver avuto l’intenzione, il desiderio o la disposizione a causarlo. Si confronti a questo proposito l’ampia letteratura psicoanalitica dove spesso si fa riferimento a sensi di colpa conseguenti non ad un’azione ma ad un’intenzione aggressiva, ad es il caso dell’uomo dei topi (Freud, 1909).
La tesi tradizionale sostiene che gli ingredienti del sdc da colpa siano necessari e sufficienti per generare qualunque sdc. In questo articolo intendo contrapporre alla tesi tradizionale una tesi diversa, che definirei minimalista: gli ingredienti necessari e sufficienti per provare sdc, sono molti di meno di quelli previsti dalla tesi tradizionale e sono quelli che servono per generare il sdc del sopravvissuto. Dunque il sdc più essenziale, presumibilmente quello filo- ed ontogeneticamente più antico, sarebbe il sdc del sopravvissuto e non quello da colpa che, al contrario, risulta essere più complesso.
Dividerò la mia argomentazione in due parti: nella prima cercherò di mostrare come sia possibile provare sdc senza che si realizzino tutte le condizioni previste dalla tesi tradizionale, nella seconda tenterò di dimostrare come a partire dal sdc del sopravvissuto sia possibile derivare tutti gli altri sdc modulando gli ingredienti ma senza aggiungerne o toglierne.
Vi sono almeno due tipi di sdc per provare i quali non sono necessari tutti gli ingredienti che servono per il sdc da colpa, e sono: il sdc del sopravvissuto e il sdc etico.
2.1.1. Il sdc da colpa versus il sdc del sopravvissuto
Per provare il sdc del sopravvissuto non sono necessari alcuni ingredienti: innanzitutto non serve che C assuma l’esistenza di un nesso di causa, fra il proprio comportamento e il danno della vittima; non è neanche necessario che C assuma, che avrebbe potuto fare diversamente e nemmeno di aver infranto una delle norme da lui stesso condivise. Per giunta C può essere onestamente consapevole di non aver desiderato il danno di V, addirittura può essergli chiarissimo l’avere una disposizione fortemente positiva verso V. Ad illustrazione di quanto detto vorrei presentare due esempi tratti dalla mia pratica clinica.
Il primo è il caso di un paziente, di circa 40 anni, con una sindrome depressiva piuttosto grave, che perdurava ormai da 5 anni e che era insorta a seguito del seguente episodio. Il paziente proveniva da un piccolo paese della costa tirrenica dove praticamente tutti gli uomini abili si dedicavano alla pesca. Da notare che date le dimensioni molto ridotte del paese tutti si conoscevano piuttosto intimamente e spesso erano parenti; vi erano dunque forti legami sociali, dovuti anche alla consuetudine di andare insieme per mare. In una giornata di inverno il paziente si trovava assieme ad altri in un peschereccio nel mezzo del Canale di Sicilia quando, a seguito della forza del mare, il carico del pesce nella stiva ruppe i cavi che lo tenevano bloccato urtando violentemente lo scafo che si sfondò. Il battello iniziò rapidamente ad affondare e l’equipaggio fece appena a tempo a saltare sul battellino di salvataggio. Durante la notte uno dei pescatori morì per il freddo intenso. L’indomani al tramonto, quando ormai stavano rassegnandosi a morire per il gelo notturno, i superstiti furono avvistati da una nave che li trasse in salvo. Al paziente era chiarissimo di non aver in alcun modo causato la morte del compagno, di non averne neanche profittato, né di esserne stato avvantaggiato e che non avrebbe dovuto, né potuto fare nulla di diverso da ciò che aveva fatto, tuttavia provò un intenso sdc che diede luogo ad un quadro depressivo franco ed importante. Da notare anche, che non c’era la minima traccia di sentimenti malevoli nei confronti del compagno sventurato. Gli era altresì chiaro che semplicemente lui era stato fortunato mentre il suo compagno no; era il caso, il destino che aveva deciso così, nessuno ne era responsabile. Ciò nonostante provava un intenso sdc.
Il secondo è il caso di una paziente di circa 35 anni, che soffriva anch’essa di una sindrome depressiva, ed in particolare denunciava l’impossibilità a prendere le decisioni e a mantenere gli impegni necessari per costruirsi una vita sentimentale e professionale, all’altezza dei suoi desideri e progetti. Raccontava di avere la netta impressione di evitare di fare ciò che pur reputava utile per i suoi fini. Era come se evitasse di portare a compimento progetti che potessero darle gioia e soddisfazione.
Nel corso del trattamento psicoterapeutico emerse con chiarezza un profondo sdc verso un fratello, più giovane di lei, che circa 10 anni prima era morto a seguito di una cardiopatia. Anche in questo caso per la paziente era del tutto chiaro come non vi fosse alcun legame fra la morte del fratello e la sua sopravvivenza, per giunta le era evidente la forte complicità che aveva sempre condiviso col fratello. Nessun tipo di causa, nessuna trasgressione e nessun desiderio ostile eppure un forte sentimento di colpa. Quale meccanismo cognitivo-valutativo può rendere ragione di questa apparente bizzarrìa? Dobbiamo forse ricorrere alla presenza di sentimenti ostili inconsci, o alla assunzione di un nesso di causa magico per spiegare il sdc del sopravissuto, oppure è più ragionevole abbandonare lo schema tradizionale ed affermare che effettivamente sia il pescatore che la ragazza si sentivano in colpa, nonostante avessero chiaro che non c’era stata da parte loro nessuna colpa? E in questo caso quali ingredienti entrano in gioco?
Prima di procedere vorrei fugare l’impressione che sensi di colpa apparentemente bizzarri siano dovuti a qualche meccanismo patologico e non siano, come invece mi sembra evidente, caratteristici del normale funzionamento degli esseri umani. Semmai ciò che c’è di patologico negli esempi scelti è la permanenza negli anni di un sentimento molto doloroso e con conseguenze negative nella vita di entrambi i pazienti; ma i problemi connessi con la spiegazione della permanenza nel tempo del sdc li vedremo in un paragrfo successivo. Per cogliere l’assoluta normalità del sdc del sopravvissuto è utile un semplice esperimento mentale, che chi legge può facilmente compiere. Proviamo ad immaginare di appartenere ad un piccolo reparto militare molto affiatato, spesso coinvolto in operazioni dure e pericolose, si è alla vigilia di un attacco, poche ore prima che inizi la battaglia arriva l’ordine perentorio, soltanto per noi e non per i compagni, di rientrare al comando nelle retrovie. Siamo ormai arrivati al comando e veniamo a sapere che il nostro reparto è andato all’assalto ed è stato decimato, molti dei compagni sono stati colpiti alcuni sono morti. Come ci sentiremmo nei loro confronti ? È facile, se ci si immedesima nella situazione, intuire la presenza di un sdc, appunto del sdc del sopravvissuto.
2.1.2. Il sdc da colpa versus il sdc etico
È possibile per un essere umano provare sdc per aver trasgredito una norma etica, senza che da ciò derivi un danno per qualcuno, né come conseguenza dell’azione trasgressiva, né per il fatto che la norma sia stata trasgredita, non serve che C assuma che la divinità, o chiunque abbia emanato la norma, si sia dispiaciuta od offesa per la trasgressione. Mi pare che tra le persone di religione ebraica sia possibile trovare degli esempi abbastanza chiari di sdc puramente etico; sono spesso rimasto colpito dalla presenza di un puro e semplice sdc in persone di religione ebraica, a seguito della trasgressione di norme senza che ci fosse, da parte del colpevole, la credenza che qualcuno potesse essere danneggiato, ad es., dall’aver mangiato la carne col formaggio. Non c’era nemmeno la credenza di poter subire qualche punizione a seguito dell’infrazione e nemmeno il soggetto pensava che Dio potesse in qualche modo essere addolorato dalla mancanza di rispetto della norma. Dunque un sdc senza né danno né vittima, che richiede come ingredienti soltanto la consapevolezza di aver trasgredito una norma condivisa e il riconoscimento che si sarebbe potuto agire diversamente.
2.1.3. Conclusioni dei confronti fra sdc da colpa e sdc del sopravvissuto e del sdc da colpa e sdc etico
Il sdc del sopravvissuto e quello etico suggeriscono che gli ingredienti del sdc da colpa, non sono necessari per sentirsi colpevoli; infatti di tutti gli ingredienti necessari per provare sdc da colpa, ne servono solo alcuni per il sdc della buona sorte e solo alcuni altri per provare quello etico.
Sorge però a questo punto una sorta di paradosso: gli ingredienti del sdc del sopravvissuto, appaiono completamente diversi da quelli del sdc etico, eppure in entrambi i casi l’esperienza emotiva è la stessa ed è di colpa. Come è possibile che ingredienti diversi diano lo stesso risultato? Cercherò ora di mostrare come in realtà, gli ingredienti siano sostanzialmente gli stessi e cercherò di definire le modulazioni necessarie per poter arrivare al sdc etico, partendo da quello del sopravvissuto, e come in queste trasformazioni sia possibile generare tutti gli altri tipi di sdc. Per arrivare a questo risultato considererò innanzitutto il meccanismo generatore del sdc del sopravvissuto: che operazioni deve compiere un sistema cognitivo per generare un sdc, senza che il colpevole assuma alcun nesso di causa tra la condotta propria ed il danno della vittima, e senza che C assuma di aver trasgredito una norma da lui condivisa?
2.2. Lo stato mentale del colpevole di essere sopravvissuto
Probabilmente per provare sdc del sopravvissuto sono sufficienti pochi presupposti e delle operazioni cognitive elementari (Castelfranchi, 1994).
L’operazione cognitiva necessaria è un semplice confronto tra le fortune del colpevole e quelle della vittima che, per generare sdc, deve dare un risultato sfavorevole alla vittima. Il soggetto pone su un piatto della bilancia le proprie fortune ed i propri meriti e sull’altro quelli della vittima. Se la bilancia pende a favore del primo allora vi è sdc.
Naturalmente un siffatto confronto non si compie con tutti; nemmeno sono coinvolte tutte le fortune o tutte le sfortune del colpevole e della vittima ma solo alcune; anche i meriti ed i demeriti non sono dati in assoluto ma piuttosto sono selezionati e dunque il punto di equilibrio giusto fra i due piatti è variabile non solo tra i diversi soggetti, ma anche nello stesso soggetto nelle varie circostanze.
Dunque l’operazione di confronto presuppone la definizione di almeno tre parametri: con chi e a quali condizioni si è disposti a confrontare le fortune, cosa è considerato fortuna e cosa sfortuna, ma soprattutto quali eventi vanno pesati ed infine il punto di giusto equilibrio fra i due piatti, ossia i meriti e i demeriti che vanno considerati per definire il risultato equo o iniquo.
I parametri possono essere definiti automaticamente sulla base di alcuni principi naturali (una sorta di fondamento del comune ed immediato senso della giustizia), oppure possono essere definiti da norme morali condivise dal soggetto. Tre osservazioni a riguardo delle norme:
1 – innanzitutto si nota che le norme condivise sono scopi che il soggetto pone su se stesso (Conte, 1991);
2 – i precursori delle norme sono le aspettative degli altri;
3 – non tutte le norme sono morali, ma lo sono quelle che definiscono i parametri del confronto fra fortune proprie e altrui e che sono strumenti per il fine dell’equità.
2.2.1. Il primo parametro: con chi e a quali condizioni si opera il confronto
La condizione molto generale che deve essere realizzata affinché il colpevole sia disposto a compiere confronti è che riconosca l’appartenenza di se stesso e della vittima allo stesso gruppo, che ci sia dunque una sorta di identificazione di gruppo, che sia possibile per il colpevole dire che la vittima e lui stesso appartengono al medesimo “noi”, contrapposto ad un “loro”.
Il confine “noi-loro” è mobile nel senso che la stessa persona può essere inclusa nel “noi” in alcuni momenti e nel “loro” in altri. Ad esempio posso sentire con chiarezza che mio fratello ed io siamo un noi contrapposto al loro costituito dai nostri genitori, se siamo impegnati in un’alleanza tesa ad ottenere dai genitori maggiori autonomie, ma durante una gita con famiglie di parenti ed amici posso includere nello stesso “noi” anche i genitori, mentre tutti gli altri fanno parte del “loro”; e magari durante un viaggio all’estero, in un paese lontano e con abitudini molto diverse, posso includere nel “noi” anche un occasionale compagno di viaggio, soltanto perché parla la mia stessa lingua e proviene dallo stesso paese.
Cosa regola la mobilità del confine? Data la difficoltà della domanda non pretendo certamente di individuare tutte le regole della mobilità, ma mi contenterò di indicarne solo alcune: la consapevolezza di condividere un progetto comune, come ad es. nel caso di due genitori impegnati nell’educazione dei figli; l’aver condiviso delle difficoltà e dei pericoli, come nel caso dei veterani; l’essere inseriti in un ambiente considerato ostile, come nei naufraghi, o nel caso di molte famiglie di pazienti agorafobici; l’essere isolati assieme, e a questo proposito si consideri il fenomeno ben noto per cui si è più disposti a dare aiuto ad un incidentato se intorno non c’è nessun altro piuttosto che in mezzo alla folla di una strada cittadina. Probabilmente entra in gioco anche il riconoscimento di legami di parentela,di somiglianze ideologiche, di valori esistenziali.
Ma accanto a regole naturali che determinano quando ci si percepisce come un “noi”, si devono considerare anche le norme morali che intervengono nel modulare il confine “noi-loro”, ad esempio la morale cattolica prescrive di considerare “noi” anche i nemici. “Siamo tutti fratelli in Cristo” prescrive di evidenziare le somiglianze, rispetto al punto di vista di Dio, fra gli esseri umani così che tutti vengano inclusi nel dominio del “noi”.
2.2.2. Il secondo parametro: quali fortune e sfortune sono pesate?
Innanzitutto è ovvio che il colpevole opera il confronto fra ciò che lui reputa fortuna/sfortuna per sé e per la vittima. E un evento è valutato dannoso o favorevole rispetto a quelli che si ritiene siano gli scopi e le esigenze rispettivamente della vittima e del colpevole. Dunque ci si può sentire in colpa verso una vittima che si assume essere stata sfortunata, anche se si sa che la vittima è del tutto inconsapevole del danno e perciò non ne soffre. È vero anche il contrario? Ci si sente in colpa se si sa che la vittima soffre per un danno inesistente e dunque per un’esagerazione? Probabilmente sì ma a condizione che il colpevole ritenga l’errore interpretativo della vittima plausibile e non grossolano, gratuito e facilmente evitabile. Nel confronto entrano di solito anche i punti di forza e di debolezza di C e di V; e dunque le potenzialità di recupero della vittima.
Nei sdc più immediati ovvero più istintivi, di solito mi sembra che sono considerate le fortune più strettamente collegate con l’evento in cui il colpevole e la vittima sono stati coinvolti. Spesso è solo in fase di autogiustificazione che il colpevole considera nel bilancio fortune di altra natura o fortune avvenute in altri momenti o circostanze. È anche sulla definizione delle fortune da considerare che intervengono le norme, così che ad es. è consuetudine che chi ha già sofferto per un handicap fisico abbia diritto ad una maggiore attenzione.
2.2.3. Il terzo parametro: i meriti ed i demeriti
Per provare sdc non è sufficiente che il confronto compiuto da C dia un risultato sfavorevole per V, serve anche che la sfortuna di V sia immeritata e/o il vantaggio di C immeritato.
Nel confronto di fortune e sfortune che il colpevole compie, intervengono anche le sue valutazioni sui rispettivi meriti della vittima e propri, e più specificatamente entrano a definire qual’è il giusto rapporto di fortune.
Tra i meriti e demeriti rientra anche se e quanto la vittima ha la responsabilità del danno o almeno quanto ha contribuito a determinarlo e quanto avrebbe potuto evitarlo; sono di solito considerati anche i meriti di C e di V verso il gruppo di appartenenza, i meriti di uno verso l’altro.
Quali meriti e demeriti sono considerati da C? Credo che nei sdc più istintivi entrino i meriti ed i demeriti più strettamente connessi, direi quasi in senso gestaltico, con l’evento ed è spesso solo in una fase di elaborazione successiva, che si considerano altri meriti e demeriti. Le norme morali possono ovviamente definire i meriti ed i demeriti che il C deve considerare nel suo confronto.
2.3. Dal sdc del sopravvissuto al sdc etico
È possibile derivare il sdc etico dal sdc del sopravvissuto e per mostrarlo partiamo da una considerazione preliminare: per provare sdc non è necessario che la vittima sia realmente danneggiata, è sufficiente che il colpevole assuma di aver avuto l’intenzione, la disposizione a danneggiarla o il desiderio che venisse danneggiata. Più in generale è abbastanza evidente che gli esseri umani, nel valutare se stessi e gli altri, non solo tengono conto dei risultati delle azioni ma anche, e spesso soprattutto, delle disposizioni, delle tendenze e dunque dei desideri e delle intenzioni.
Nel caso del sdc etico puro non è necessario che nella mente di C vi sia una vittima del mancato rispetto di una norma, infatti la norma che viene infranta può essere una norma del tutto arbitraria come ad es. certe norme religiose che prescrivono comportamenti che sembrano fini a se stessi e che non hanno nessuna giustificazione altruistica o equitaria o igienica o di altro genere. E, per sentirsi in colpa, non è nemmeno necessario che il colpevole assuma che colui che ha emesso la norma, ad es. la divinità, si offenda o si dispiaccia per la trasgressione. È importante rispettare certe norme, che apparentemente non hanno nessuna attinenza con l’equità, perché in questo modo si testimonia la propria disponibilità a compiere confronti di fortune con gli altri membri del gruppo, che condividono la stessa norma. Il sdc etico è dunque sovrapponibile al sdc del sopravvissuto, nel senso che mentre il sopravvissuto si duole per il risultato iniquo del confronto tra le fortune proprie e quelle della vittima, il trasgressore della norma etica si duole per la sua scarsa disposizione a compiere tali confronti e a renderli equi.
2.4. Gli altri sdc e la loro generazione a partire dal sdc del sopravvissuto
È possibile collocare il sdc del sopravvissuto all’estremo di un continuum che ha all’estremo opposto il sdc etico; nel mezzo sono collocabili altri sdc: il sdc da danneggiamento ma senza trasgressione, il sdc da colpa ovvero da danneggiamento e trasgressione, il sdc per delusione delle aspettative altrui ed il sdc verso se stessi.
Nel sdc da danneggiamento ma senza trasgressione, il colpevole ha causato il danno della vittima pur senza infrangere alcuna regola. Supponiamo che C guidando nel pieno rispetto del codice della strada e della prudenza investa un bambino che, correndo in modo sconsiderato, gli finisce sotto l’auto e si ferisce gravemente.
Innanzitutto voglio dimostrare che anche in questo caso entra in gioco lo schema del sdc del sopravvissuto. A questo fine proviamo a cambiare alcuni aspetti dell’esempio e immaginiamo che il ragazzino si ferisca leggermente e che C nel tentativo di evitarlo finisca contro un palo rovinando gravemente la macchina e facendosi male. È facile supporre che C, una volta appurata la reale proporzione dei danni e dunque operato il confronto, non si senta affatto colpevole, ma piuttosto vittima arrabbiata. Come dire che a determinare la reazione emotiva è l’operazione mentale basica del sdc del sopravvissuto, ossia il confronto tra fortune, dove, a parità di meriti e di demeriti, e in questo caso nessuno dei due merita il danno e nemmeno ne è responsabile in nessuno dei due scenari, ciò che conta è la differenza di fortune. Può essere interessante per il lettore fare alcuni esperimenti mentali provando ad immaginare il tipo, rabbia o colpa, e l’intensità della reazione di C variando il rapporto fra i danni di C stesso e del ragazzino.
Merita illuminare un altro aspetto, perché C compie il confronto? Perché considera il ragazzino parte di un “noi”? Una risposta possibile è la seguente: perché la presenza, nell’evento considerato, di un nesso di causa, che va da C verso V, “lega” C a V, gli rende più difficile, se non impossibile, dire “io non c’entro”. È questa la ragione per cui, a parità di altre condizioni, la presenza di un nesso di causa, rende il sdc più probabile e più intenso e le autogiustificazioni più difficili.
Nel sdc da colpa si aggiunge la trasgressione e dunque una componente etica: non solo la presenza di un nesso di causa coinvolge in un “noi” il colpevole e la vittima, ma si aggiunge anche la consapevolezza di C di non aver avuto la disposizione a mantenere l’equità nei confronti di V. Da questa considerazione deriva che a parità di altre condizioni i sdc da colpa, sono più intensi del sdc da danneggiamento semplice e del sdc del sopravvissuto. Emerge anche quanto possa essere importante, per ridimensionare un sdc, realizzare di non aver trasgredito nessuna norma.
Nel sdc da delusione delle aspettative altrui il danno della vittima è duplice ed il corrispondente sdc del colpevole, tende a scivolare verso il sdc etico.
Supponiamo che V abbia un desiderio ed anche l’aspettativa che C lo aiuterà a soddisfarlo. Notiamo, preliminarmente, la differenza che c’è tra “aspettarsi” qualcosa da qualcuno, “prevedere” che qualcuno faccia qualcosa e “sperare” che qualcuno faccia qualcosa.
La previsione non implica una valutazione né positiva né negativa, e dunque il fatto previsto è neutro, o per lo meno non è definito. Al contrario nella “aspettativa” vi è una definizione positiva o negativa del fatto, come è anche nella speranza. Nell’aspettativa, a differenza di quanto accade nella speranza e nella semplice previsione, si assume che l’altro abbia preso l’impegno di fare qualcosa.
Se C non aiuta V a soddisfare il suo desiderio, e in conseguenza di ciò tale desiderio resta frustrato, allora per V vi sono due tipi di danno: il primo collegato con la frustrazione del desiderio ed il secondo con la delusione della aspettativa. Considerando la questione dal punto di vista di C vi possono essere due tipi di sdc.
Il più complesso è un sdc da trasgressione. Per provarlo C deve mettere nel bilancio tutti e due i danni subiti da V, ma deve anche riconoscere di essere venuto meno ad un impegno che aveva assunto. Si aggiunge, quindi, la componente etica.
Il più semplice è un sdc da danneggiamento. C assume di aver causato, magari per omissione, entrambi i danni di V, anche se é sufficiente che assuma di aver causato il secondo tipo di danno ossia quello collegato alla delusione di V, ma, non essendosi impegnato con V, non soffre della componente etica.
2.5. Gli scopi difesi ed attivati dal sdc
A questo punto è opportuno dedicarci ad una descrizione più accurata delle relazioni tra il sdc e i suoi scopi. Castelfranchi in più circostanze ha ben mostrato come le emozioni da una parte sorvegliano degli scopi, per esempio la vergogna sorveglia lo scopo della buona immagine, dall’altra innescano e attivano degli scopi, per esempio nel caso della vergogna il desiderio di scomparire, di nascondersi.
Lo scopo sorvegliato dal sdc è l’equità (Castelfranchi, 1994). Quest’ultima non è soltanto uno scopo terminale, ma è anche probabilmente strumentale ad un altro fine, la dignità, il valore personale (se sono iniquo sono anche indegno / se sono iniquo valgo di meno). Gli scopi del valore personale, della dignità sono sorvegliati anche da altre emozioni, come per esempio dal disgusto. Inoltre, il nostro senso di dignità e di valore personale serve anche ad un ulteriore fine che presumibilmente è l’appartenenza, e quindi l’evitamento dell’esclusione.
Oltre a ciò è da evidenziare che per sentirsi degni di appartenere non basta il valore personale inteso in termini morali, ma è necessaria una valutazione positiva delle proprie capacità o generalmente dei propri poteri. L’autostima, infatti, può avere due aspetti: si può desiderare di avere capacità più elevate (ad es., di essere più intelligente) o si può ambire ad essere una persona onesta. È dunque facile capire come chiunque provi sdc tenda a sentirsi indegno, isolato ed escluso. Questa tendenza avviene automaticamente, non c’è bisogno di un’inferenza successiva per sentirsi indegno. Si tratta piuttosto di una percezione unica con il sentirsi in colpa.
Per quanto riguarda gli scopi attivati dal sdc essi sono fondamentalmente di due tipi, il primo riparatorio e il secondo espiativo. Le strategie messe in atto dal colpevole tendono o a riparare il danno, e più in generale a sollevare le fortune della vittima, o consistono nella diminuzione delle fortune del colpevole.
Il fatto che il sdc possa attivare due strategie diverse, conferma che il nocciolo essenziale del sdc consiste in un confronto tra fortune della vittima e del colpevole. È ovvio infatti che se il sdc nasce da uno sbilanciamento nel confronto compiuto da C, allora C stesso, per ripianare il bilancio, può seguire due strade: innalzare le fortune della vittima aiutandola in qualche modo, o può abbassare le proprie fortune danneggiandosi. In realtà il sdc può innescare una terza strategia ben diversa dalle altre due e che affronterò più avanti: l’autogiustificazione.
3. Diagnosi differenziale tra sdc ed altre emozioni.
Il sdc può essere confuso con alcune altre emozioni: la pena, la vergogna, la paura della punizione, la depressione autosvalutativa ed il rammarico.
3.1. La pena
La pena potrebbe essere confusa con il sdc del sopravvissuto anche perché spesso le due emozioni convivono. Tuttavia è utile puntualizzare alcune differenze tra colpa e pena.
Secondo Poggi e Castelfranchi (1988) le condizioni per provare pena sono due: “la prima condizione perché A provi pena per B, è che A assuma che B si trovi in una mancanza di potere di, rispetto a scopi che A assume importanti per B” (id.).
La seconda condizione necessaria è un’altra assunzione: “A assume prova (potrebbe provare) sofferenza a causa di ciò” (id.).
Entrambe le condizioni potrebbero valere per il sdc del sopravvissuto, ma non mi pare che, a differenza della pena, sarebbero sufficienti. Per provare sdc del sopravvissuto, infatti, si richiede anche che il danneggiamento della vittima ed il beneficio del colpevole, siano contemporanei e risultino dall’evoluzione di una stessa situazione che abbia coinvolto entrambi gli individui o che, per lo meno, il colpevole metta a confronto sia la propria fortuna, che la sfortuna della vittima. Per un poveraccio che si incontra per la strada si tende a provare pena e non sdc del sopravvissuto, perché non lo si sente parte di uno stesso “noi”, la sua disgrazia non emerge dallo stesso evento da cui siamo usciti fortunati, non compiamo un bilancio tra le sue sofferenze e il nostro benessere.
3.2. La vergogna
Che la vergogna sia spesso confusa con la colpa è ampiamente rilevato nella letteratura (Battacchi e Codispoti, 1992). La differenza più eclatante fra le due emozioni sta nel tipo di scopi coinvolti: mentre, come si è visto, nel sdc gli scopi compromessi sono quelli dell’equità, nel caso della vergogna (Castelfranchi e Poggi, 1988) sono quelli dell’immagine da dare a se stessi e/o agli altri. Tuttavia niente impedisce che ci si possa vergognare di una colpa, anzi è un caso frequente, e quindi che le due emozioni coesistano.
3.3. La paura della punizione
Esiste una solida tradizione che tende a ricondurre il sdc a paura della punizione (Mowrer, 1960; Caprara et al., 1990). È vero che la paura della punizione può accompagnare il sdc, ma è altresì vero che non è né sufficiente, né necessario, temere la punizione per provare sdc. Ci si può sentire in colpa senza avere paura della punizione, e si può temere la punizione senza sentirsi in colpa. Ad es. il paziente che si era salvato dal naufragio, mentre uno dei compagni era morto, provava sdc ma non temeva alcuna punizione. È anche facile immaginare un bandito che compie una rapina e uccide delle persone, senza sentirsi in colpa ma temendo la punizione.
A complicare i rapporti tra sdc e paura della punizione, si aggiunge anche il fatto che nel sdc la punizione è desiderata, come forma di espiazione.
Il desiderio di espiazione, accanto a quello di riparazione, è un componente necessario del sdc e allora, come si spiega che al contempo il colpevole può anche temere la punizione?
Vi sono diverse possibilità.
Innanzitutto niente vieta che lo stesso evento sia desiderato per certi aspetti e temuto per altri, anzi direi che è difficile trovare un evento che giudichiamo da un solo punto di vista e che dunque valutiamo soltanto positivo o soltanto negativo. Finché non si manifestano inversioni delle preferenze non c’è nessun problema di spiegazione.
Un’altra possibilità molto semplice è che si può temere una punizione esagerata rispetto alla espiazione che si desidera.
Più problematico è il caso in cui si verificano delle inversioni delle preferenze: a volte la decisione del colpevole non riesce a stabilizzarsi su una linea univoca di condotta ma oscilla alternativamente fra ricerca ed evitamento della punizione rendendo incoerente o vanificando del tutto la sua capacità di agire.
Il problema di spiegazione posto dal conflitto tra ricerca e lo sviamento dell’espiazione esula dai limiti di questo articolo. Tuttavia merita di ricordare che i conflitti aprono almeno due grandi quesiti.
A quali condizioni e secondo quali regole un sistema cognitivo inverte ripetutamente la propria linea di condotta? E perché si persevera nelle inversioni, visto che le inversioni delle preferenze sono per definizione fallimentari e che i sistemi umani sono predisposti a risolvere i conflitti? Per alcune risposte rimando a Mancini e Semerari (1991).
3.4. La depressione autosvalutativa
È indubbio che il sdc si possa accompagnare a sentimenti di indegnità, svilimento ed esclusione. Tuttavia la relazione fra sdc e depressione autosvalutativa non è necessaria. Ci si può sentire in colpa, senza per questo sentirsi indegni e viceversa, ci si può sentire sviliti senza sentirsi in colpa.
Si consideri, infatti, ad esempio l’enfasi posta dalla morale cattolica post-conciliare, sulla distinzione fra “peccato” e “peccatore”, fra l’azione del furto e l’uomo che ruba, il cui valore personale e la cui dignità sono inalienabili. È possibile, dunque, che il colpevole discrimini fra le proprie colpe e la propria dignità.
Come è possibile avere sdc senza depressione autosvalutativa, così è possibile avere giudizi negativi sul proprio valore personale e sentimenti di indegnità in conseguenza non di colpe ma piuttosto di fallimenti di altro genere, di rifiuti, abbandoni ed emarginazioni.
Non mi sembra affatto sostenibile che ogni depresso abbia all’origine della sua depressione un sdc, né che chiunque si senta colpevole sia anche depresso in senso autosvalutativo.
3.5. Il rammarico
Il rammarico è il dispiacere che si prova per come sono andate le cose rispetto a come sarebbero potute andare. Per provarlo è sufficiente, dunque, un semplice confronto fra come sono andate le cose e come sarebbero potute andare. Il rammarico, a parità di danno, è tanto più intenso quanto più l’evenienza positiva è vicina, in un senso quasi percettivo, a quella negativa che si è realizzata.
Immaginiamo due persone (Piattelli Palmarini, 1993) che vanno all’aeroporto, incontrano un ingorgo sull’autostrada e arrivano in ritardo; al primo dicono: “Lei doveva andare a Milano? Il suo aereo è partito in orario un’ora fa”. Al secondo invece dicono: “Lei doveva andare a Parigi? Guardi c’è stato un guasto tecnico per cui l’aeroplano è partito 5 minuti fa”. È ragionevole supporre che quest’ultimo proverà un rammarico maggiore rispetto al primo. Tale emozione, infatti, dipende dalla vicinanza che il soggetto percepisce fra l’evenienza positiva che si sarebbe potuta verificare e quella negativa che si è realizzata.
4. La dinamica del sdc
In questo paragrafo ci occuperemo dell’aspetto dinamico del sdc, cioè del come diminuisce, come aumenta e come si mantiene inalterato.
Normalmente il sdc va incontro ad una sorta di ridimensionamento, sia della sua intensità sia della frequenza, così che può essere superato o almeno accettato. Tutto ciò avviene grazie a diverse modalità che possono essere divise in due gruppi:
1 – nel primo vi sono quelle che costituiscono parte integrante del sdc e che non implicano alcuna revisione delle valutazioni che determinano il sdc.
2 – Nel secondo invece vi sono le strategie che implicano un cambiamento delle valutazioni che generano il sdc.
4.1. Le modalità del primo gruppo
Sono almeno tre e di due di esse si è già detto precedentemente e sono la riparazione e l’espiazione. La terza consiste nella consapevolezza e nella valutazione positiva del proprio sentimento di colpa.
4.1.1. L’espiazione
Come si è detto più sopra, il modello di sdc qui proposto considera centrale l’operazione di confronto fra C e V. Se la bilancia pende a favore di C allora C si sente in colpa.
Non stupisce , quindi, che il sdc attivi scopi riparativi ed espiativi: entrambi infatti sono utili a riequilibrare il bilancio. La riparazione aumentando le fortune della vittima, l’espiazione abbassando quelle del colpevole.
Le strategie espiative implicano dunque un autodanneggiamento: C, al fine di ripianare il bilancio fra sé e V, evita di impegnarsi per raggiungere il successo dei propri piani o addirittura li boicotta. Per queste ragioni il sdc ha avuto tanta attenzione da parte di alcune correnti di psicoterapia. Infatti, una delle caratteristiche della sofferenza psicopatologica è la paradossalità, ossia il fatto che il soggetto persevera in linee di condotta ed atteggiamenti che sono dolorosi, dannosi o perfino controproducenti.
È piuttosto chiaro che il sdc possa presentarsi come una magnifica soluzione al problema. Tuttavia si rendono necessarie alcune considerazioni.
Innanzitutto, è vero che il sdc può innescare delle strategie espiative, e dunque “self-defeating”, ma non è assolutamente vero il contrario. Possono entrare in gioco, infatti, molti altri meccanismi che nulla hanno a che fare con il desiderio di espiazione e che spiegano il cosiddetto paradosso nevrotico altrettanto bene. La letteratura cognitivista insiste, ad es., su meccanismi a circolo vizioso (Beck, 1976; Gardner, Mancini e Semerari, 1985; Salkovskis, 1996).
In secondo luogo l’espiazione può risolvere un problema di spiegazione ma ne produce altri: perché spesso il paziente non è consapevole di voler espiare? E questo è particolarmente vero nel caso del sdc del sopravvissuto. E perché il paziente chiede di essere aiutato a non boicottarsi più? Vedremo le risposte nell’ultimo paragrafo.
4.1.2. La consapevolezza del sdc
Il fatto stesso di rendersi conto di sentirsi colpevoli può implicare la riduzione o il contenimento del sdc: “se non altro riconosco la mia colpa, approvo certi criteri di giustizia dunque sono, almeno potenzialmente, una persona giusta e degna”.
La consapevolezza di un proprio sentimento di colpa può limitare il senso di indegnità personale e aiutare a discriminare tra “aver commesso un peccato” ed “essere un peccatore”.
4.2. Le strategie del secondo gruppo
Possono essere ragionevolmente divise in tre sottogruppi.
4.2.1. L’evitamento cognitivo
Il soggetto evita di pensare alla colpa e dunque evita le occasioni che possono richiamargliela alla memoria. In questo modo diminuisce la frequenza con cui si prova un determinato sdc. Sorge però una domanda: perché, se è in qualche modo utile, allora non si segue sempre e soltanto questa strategia, tant’è che alcune persone sono completamente prese dal sdc?
Mi pare che vi siano due risposte. Innanzitutto essere consapevoli di soffrire per il sdc può incrementare o mantenere il senso della propria dignità morale, come si è detto poco sopra. In secondo luogo tenere presente alla mente il sdc è una condizione indispensabile per qualunque elaborazione del sdc e dunque si può rinunciare ad evitare di pensare al sdc per la speranza di riuscire a diminuirlo.
4.2.2. L’autogiustificazione
Il colpevole aggiunge, leva o cambia alcuni degli elementi che ha considerato nel confronto tra sé e la vittima con l’obiettivo di diminuire la propria colpa. Da notare che ciò avviene senza che C cambi le norme rispetto alle quali si sente in colpa.
L’autogiustificazione può prendere varie strade (Poggi, 1994). Si può cercare di dimostrarsi che il danno di V non è stato tanto grave, che V gode in realtà di altre fortune o che C ha altre sfortune, che i meriti ed i demeriti di V e di C sono diversi, che C ha causato solo in parte l’evento, che sono intervenute molte altre concause, che C non poteva fare diversamente, che C comunque non desiderava né intendeva danneggiare V.
Senz’altro è vero che ci si giustifica non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi e giustificarsi presso gli altri è finalizzato a riaverne la buona disposizione, ma a che fine ci si autogiustifica? Se è possibile autogiustificarsi perché allora non lo si fa sempre, che cosa lo rende difficile e per quali ragioni può essere svantaggioso? Rimando le risposte a dopo aver considerato il cambiamento delle norme.
4.2.3. Il cambiamento delle norme
Il sdc può diminuire o addirittura scomparire se C cambia le norme o la loro applicazione, ad es. alcuni dei soldati che massacrarono centinaia di civili in Vietnam a My Lai, si difesero sostenendo che gli uccisi non erano esseri umani (Poggi, 1994). Anche in questo caso c’è da chiedersi, come mai non si risolvono tutti i sdc cambiando le norme.
Questa strategia di gestione del sdc può azzerare la colpa dell’individuo, ma lo espone al gravissimo rischio di essere considerato indegno, perché neanche sensibile alle norme. Provare un sdc può essere considerato una testimonianza che si riconoscono le norme e che si è disposti a rispettarle, le si accettano e si riconosce di aver sbagliato, quindi lo sbaglio è stato occasionale.
Al contrario, mettere in discussione l’applicazione delle norme, ancor di più le norme stesse, significa rischiare di essere indegni e dunque di essere esclusi dal gruppo. Questo aspetto ha una certa rilevanza clinica.
Un breve esempio può aiutare a chiarire. Alcuni anni orsono ebbi l’occasione di seguire una paziente anoressica che, come la maggior parte delle pazienti con disturbi alimentari, aveva una spiccata tendenza ai sensi di colpa per la delusione delle aspettative materne.
La paziente combatteva contro questa colpevolizzazione, mettendo in discussione il diritto della madre ad avere aspettative su di lei. Il terapeuta precedente aveva appoggiata totalmente la ragazza in questo tentativo ed il risultato fu drammatico, infatti, i sentimenti di abbandono, di distacco, di solitudine, di isolamento della paziente arrivarono rapidamente a livelli vertiginosi, poiché con questo tipo di intervento terapeutico aveva sicuramente recuperato un senso di “non colpevolezza” nei confronti della madre, ma il “costo” di questo processo era la “non appartenenza”, cioè, la rinuncia a vedersi con la madre come un tutt’uno, o comunque a vedersi in confidenza o in rapporto con la madre.
4.2.4. A che fine si evita, ci si autogiustifica o si cambiano le norme?
La domanda sembra banale e la risposta appare ovvia: per non sentirsi in colpa.
In realtà, a ben vedere, questa affermazione è ambigua: dire “C non vuole sentirsi in colpa” può avere almeno due significati. Il primo è “C non vuole provare la sensazione del sdc, non vuole entrare in quello stato d’animo perché ne teme le conseguenze”.
Il secondo suona così: “C non vuole essere colpevole o per lo meno non così tanto”.
Nel primo caso il soggetto deve avere la capacità di prevedere che al proprio sentimento di colpa, si accompagnano o seguono altri atteggiamenti che possono avere implicazioni negative. Un esempio può essere utile.
Si tratta di una paziente che alcuni anni prima era rimasta vedova in circostanze tragiche. Il marito dopo circa due anni di grave depressione psicotica, si era suicidato sparandosi una fucilata in testa, mentre era da solo in casa. La paziente era rientrata con la figlia piccola, aveva aperto la stanza dove giaceva il cadavere del marito ed il primo pensiero che aveva avuto era di salvaguardare la bambina da quell’orribile spettacolo. Pertanto si era imposta la calma più assoluta ed aveva portato via la figlia. Nei mesi successivi aveva provato intensi sdc verso il marito, che cercava sempre di evitare soprattutto distraendosi e conducendo una vita forsennata. La ragione dell’evitamento era abbastanza chiara, infatti, temeva che i sentimenti di colpa potessero diventare troppo intensi e devastanti al punto da farle perdere il controllo e nuocere quindi alla figlia.
Nel secondo caso la strategia di riduzione del sdc è finalizzata alla diminuzione pura e semplice della colpa. Il colpevole vuole ristabilire l’equità. Il fine non è la modificazione del proprio stato d’animo o del sentimento, ma una effettiva riduzione della colpa. Si vogliono cambiare i fatti e non la propria reazione emotiva di fronte ai fatti.
4.3. Come aumenta il sdc
Interessante è cercare di capire come il sdc non diminuisca, ma addirittura, a volte, tenda ad aumentare nel tempo.
L’osservazione più ovvia, a questo proposito, è che i sensi di colpa aumentano o si mantengono se emergono nuovi elementi di colpa, quella più interessante è che i nuovi elementi di colpa sono dovuti a meccanismi autogenerativi. Consideriamo, ad esempio, il caso, già descritto all’inizio di questa trattazione, della giovane donna il cui fratello era deceduto prematuramente e verso il quale provava un intenso sdc del sopravvissuto. Con il passare degli anni la paziente non aveva minimamente risolto il suo sdc, anzi tendeva a sentirsi sempre più in colpa. La ragione dell’incremento, stava nel fatto che tendeva ad interpretare i risultati della sua strategia espiatoria, come causa di sue ulteriori colpe.
Al fine di ridurre la discrepanza di fortune fra sé ed il fratello morto, metteva in atto una strategia espiatoria, che consisteva nel boicottare la sua professione e la sua vita sentimentale.
Non riusciva ad avere successo nel lavoro perché cercava di espiare, ma prendeva i suoi fallimenti come causa di un’ulteriore colpa nei confronti del padre, il quale, secondo lei, meritava gratificazioni compensatorie per la morte del figliolo, che tanto amava. Dunque si sentiva in colpa nei confronti del padre, perché non riusciva a dargli quella soddisfazione che meritava. Un analogo meccanismo a circolo vizioso si era instaurato anche nei confronti del fidanzato. Non riusciva a prendere la decisione di costruirsi una famiglia, di sposarsi, di fare dei figli, perché perseguiva una strategia espiatoria. Ma anche nei confronti del fidanzato si sentiva terribilmente in colpa perché riteneva di penalizzarlo ingiustamente.
Dunque il sdc tendeva a generare delle strategie che avevano degli effetti che venivano letti dalla paziente come prove di ulteriori colpe.
Era un meccanismo a spirale che contribuiva a generare nuovi elementi di colpa e che aveva dispiegato i suoi effetti perversi nel corso degli anni.
4.4. Perché non sempre si modificano le valutazioni che generano il sdc?
A volte accade che le persone non tentino neanche di autogiustificarsi o di cambiare le norme. Mi pare che le ragioni principali possano essere quattro.
La prima è che si può temere di peggiorare la propria colpa.
Si è già detto che il cambiamento delle norme, implica il rischio di sentirsi indegni del gruppo che condivide quella norma. A queste considerazioni va aggiunto che anche cercare delle giustificazioni può essere considerato simile al tentativo di mettere in discussione le norme. Dunque può accadere che non si sia disposti a correre i rischi connessi con il cambiamento delle norme e con le autogiustificazioni.
La seconda possibilità sta nel fatto che per elaborare le proprie valutazioni di colpa ci si deve pensare ma, come si è visto nel caso della signora con il marito suicida, il solo fatto di pensare alla propria colpa può innescare degli stati d’animo giudicati talmente devastanti, che si preferisce evitare di pensarci.
Una terza spiegazione è che può essere difficile capire che ci si sente in colpa. E ciò è particolarmente vero nel caso del sdc del sopravvissuto. A volte chi ha un sdc del sopravvissuto, non se ne rende conto non perché evita, o perché non desidera rendersene conto, ma perché incontra una difficoltà puramente cognitiva. Sia quando riflettiamo sui possibili stati mentali di altre persone, sia quando riflettiamo sui nostri stessi stati mentali, utilizziamo degli stereotipi, spesso di derivazione culturale.
Lo stereotipo più diffuso del sdc è il sdc da colpa, quindi quando cerchiamo di capire cosa accade agli altri e a noi stessi, abbiamo una certa facilità a riconoscere la presenza del sdc da colpa, ma ci troviamo maggiormente in difficoltà se si tratta di identificare un sdc lontano dallo stereotipo, come appunto quello del sopravvissuto.
L’ultima possibilità è, infine, il caso della colpa di cui si è talmente convinti, che non è neanche concepibile l’idea di discuterne per accertare la possibilità di non essere colpevoli. Entra in gioco una sorta di confinamento della possibilità di elaborazione.
5. Conclusioni
Come era stato anticipato nell’introduzione, abbiamo considerato soltanto il profilo interno del sdc senza analizzare né il suo ruolo nei processi psicopatologici, né la spiegazione delle differenze individuali. Ora, nelle conclusioni, vorrei suggerire alcuni spunti per gli psicoterapeuti.
Innanzitutto credo che sia particolarmente rilevante per gli psicoterapeuti, mettere a fuoco la possibilità di sdc che non abbisognano né dell’assunzione di un nesso di causa, né dell’infrazione di una norma e nemmeno di una disposizione ostile. A sostegno di questa opinione si consideri nuovamente il caso della paziente con un sdc verso il fratello morto tanti anni prima. Supponiamo di aver spiegato il sdc ipotizzando la presenza, magari nell’inconscio, di sentimenti ostili verso il fratello. Supponiamo anche di aver orientato il lavoro psicoterapeutico verso la presa di coscienza di tali sentimenti ostili. Non è azzardata l’ipotesi che i circoli viziosi che alimentavano e mantenevano i suoi sdc ne sarebbero stati rafforzati.
In secondo luogo ritengo che dall’analisi del sdc svolta in questo articolo, derivino spunti utili per aiutare i pazienti ad elaborare i loro sdc. In particolare balza agli occhi l’utilità di aiutare il paziente a modificare i parametri del confronto fra sé e la vittima. Con la sottolineatura, però, di alcune cautele: dobbiamo infatti tenere presente che in qualunque revisione critica dei sdc, si nasconde il pericolo di incrementare il senso di indegnità morale o di esporre il paziente ad una crisi dei suoi rapporti interpersonali.
Non solo non è sempre opportuno aiutare il paziente a revisionare i suoi sdc, ma spesso i sdc non possono essere rielaborati al punto di scomparire. Dunque non resta che aiutare il paziente ad accettarli. A questo fine si consideri che meno pesante è il sdc, più facile è l’accettazione. Si può alleggerire il sdc in tanti modi, ad es. sfruttando la relazione terapeutica e testimoniando al paziente il proprio rispetto, si può anche sfruttare la disposizione alla riparazione ed alla espiazione, che automaticamente è innescata dal sdc.
Il ruolo psicopatologico del sdc spesso si estrinseca in condotte self defeating con cui il paziente tenta di abbassare le sue fortune. Una volta messo in chiaro con il paziente il suo tentativo di espiare, può essere utile aiutarlo a definire i tempi ed il grado dell’autopunizione così che l’espiazione non sia né infinita né smisurata ma abbia una durata ed una misura che il paziente giudica adeguata.
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