Il Bambino nascosto /4.2

Psicologia

Alcune età della vita, come abbiamo visto finora, sembrano condensare questa difficoltà. L’adolescenza ne è un esempio classico, ma altre sono altrettanto pregnanti. 

Il Bambino nascosto /4.2

di Alba Marcoli

(continua) Capitolo quarto. Il cambiamento

Sommario: 9. La mancanza di concentrazione in adolescenza – Favola numero 9 – La difficoltà a imparare in adolescenza – 10. Non c’è una sola nascita – Favola numero 10 – La difficoltà di nascere – 11. La fatica di ogni cambiamento – Favola numero 11 – Cambiamento e malattia nel bambino – 12. Fidarsi o non fidarsi? – Favola numero 12 – Il tradimento della fiducia

11. La fatica di ogni cambiamento 

Quando un bambino nasce avviene il primo grande cambiamento palese che incontra sulla sua strada (tanti altri ne sono già avvenuti nella pancia della madre, tuttavia). 

Passare da una situazione di protezione e di accudimento totale come quella prenatale al travaglio della nascita e poi allo sperimentare la fame, la sete, una luce, una temperatura, un ambiente esterno totalmente nuovi, sono sicuramente esperienze di cambiamento impegnative e faticose. 

Sarà questa la fatica che caratterizzerà lo scorrere della vita, fatto inevitabilmente di cambiamenti, da quelli più piacevoli a quelli più dolorosi e difficili, come l’esperienza totalizzante e assoluta della morte, il cambiamento più difficile di tutti perché senza ritorno. 

Alcune età della vita, come abbiamo visto finora, sembrano condensare questa difficoltà. 

L’adolescenza ne è un esempio classico, ma altre sono altrettanto pregnanti. 

Nella mia esperienza di psicoterapeuta ho ad esempio notato frequentemente delle crisi collocate fra i trenta e i quaranta anni, con la difficoltà a star dietro allo scorrere del tempo e il comparire di una forma di pensiero che a volte richiama quello infantile a carattere magico (del tipo: «Se compio trenta, oppure quaranta, anni, vuol dire che divento vecchio e allora dopo muoio!»), pensiero che, se da una parte è vero, in una prospettiva futura, dall’altra quasi annulla magicamente gli anni che uno può ancora vivere dopo quell’età, tanto più oggi che la vita media nel nostro mondo occidentale si è notevolmente allungata. 

Per un bambino che cresce una prova di cambiamento particolarmente faticosa può essere quella dei tre anni, quando va per la prima volta alla scuola materna. 

Questa difficoltà potrà anche essere vissuta con una maggiore facilità ad ammalarsi come suggerisce la favola che segue ora. In questi casi il bambino probabilmente regredisce utilizzando il corpo per esprimere il suo disagio. 

Aiutare un bambino a vivere bene questo passaggio può perciò diventare un’esperienza cardine e fondamentale per il suo processo evolutivo. 

Perché questo possa avvenire, tuttavia, è importante che la separazione venga vissuta come possibile anche all’interno della sua cultura familiare, altrimenti il bambino interiorizzerà la sensazione inconsapevole che non ci si può separare. 

In questo caso non è tanto il bambino, quanto la sua cultura familiare che ha bisogno di essere aiutata a integrare l’idea che ci si può separare senza per questo sentirci morire. 

Favola numero 11 

I cuccioli che si ammalavano spesso 

“Oggi il mio cuore è neve chiunque e ogni cosa vi lasciano orma.” G. Arpino, “Lo specchio dell’inverno”. 

C’erano certi cuccioli che passavano la loro stagione alla Scuola dello Spiazzo facendo quindici giorni a scuola e quindici giorni a casa malati, regolarmente, per tutta il periodo delle lezioni. 

Oppure capitava un’altra cosa, che andassero a scuola il lunedì e il martedì, poi il mercoledì gli cominciava a gocciolare il naso e il giovedì erano a casa con la bronchite e il febbrone, fino al lunedì successivo e così via. 

Oppure addirittura alternavano un periodo abbastanza lungo in cui riuscivano ad andare a scuola a un altro altrettanto lungo in cui stavano a casa, quasi a recuperare la fatica fatta per quel periodo così lungo in cui avevano resistito a scuola. 

Insomma, sembrava proprio che per alcuni l’andare a scuola costasse uno sforzo così grande che poi se ne liberavano soltanto con un bel febbrone e qualche giorno passato a casa nel tepore della cuccia, per poi ricominciare da capo la settimana dopo o quella successiva. 

Era un bel problema per tutti, per i piccoli che si ammalavano, per gli adulti della scuola che non sapevano mai quanti ne avrebbero avuti nel gruppo quel giorno e per i genitori che non potevano organizzare il lavoro nel bosco perché ogni tanto dovevano restare a casa col piccolo ammalato. 

Finché un bel giorno, discutendone tra di loro, finalmente a una mamma venne un’idea. 

«Sentite,» disse «se questa è una cosa che capita spesso, come sento dire qui, tanto vale discuterne tutti insieme, altrimenti ognuno di noi cerca di risolvere la questione per conto proprio, mentre quello che si capisce quando si è in tanti è sempre molto di più di quello che si capisce quando si è da soli.» 

E fu così che un bel giorno, al calar della sera, mentre i cuccioli giocavano a nascondersi fra le ombre del bosco, i genitori e gli insegnanti si riunirono insieme. 

«Io non capisco perché mia figlia fino a qualche settimana fa non riusciva a fare mai più di due o tre giorni a scuola» cominciò la prima mamma. 

«Era sempre malata: bronchiti, tonsilliti, e, se proprio non c’era altro, almeno qualche strana febbre.» 

« È vero,» confermò uno degli insegnanti «era spesso assente, ma non solo fisicamente. 

Anche quando non era malata e stava alla Scuola dello Spiazzo, agli inizi era quasi sempre come se non ci fosse e non partecipava alle attività degli altri. Adesso però, da qualche settimana, è molto più interessata, lavora con più piacere insieme agli altri e sembra più contenta della scuola.» 

«E fra l’altro è proprio da qualche settimana che viene sempre e non si è ancora ammalata,» notò stupita la madre, alle parole dell’insegnante «anzi, quando torna a casa, racconta quello che ha fatto a scuola, mentre prima non ne parlava mai.» 

«Anche la mia, appena ha cominciato a venire, ha iniziato a vomitare tutte le mattine, regolarmente. È stato proprio un periodo molto difficile perché io stavo malissimo a vederla così e ogni volta ero tentata di tenerla a casa!» 

«A chi lo dici!» sbottò subito un’altra madre. «La mia è ancora così, ed è uno strazio per me. 

Certe mattine si sveglia prestissimo, quando è ancora buio, e mi chiede: “Ma oggi c’è scuola?” ; e quando io le rispondo di sì, lei mi dice: “Ma non c’è sciopero?” e poi ancora: “Ma tu mi accompagni? E se ci sono le luci spente mi riporti a casa? E se non ci sono gli altri cuccioli e non c’è la mia maestra, mi riaccompagni a casa?” e non vi dico che cosa io provi dentro a sentirla preoccuparsi in questo modo. 

E se poi mi ricordo che da piccola, dopo tre giorni, io non sono più voluta andare a scuola e che la mia mamma mi ha accontentata e mi ha tenuta a casa, mi vien sempre la voglia di farlo anche con lei. 

È solo perché so che impara di più se sta con gli altri che mi sforzo di continuare a portarla a scuola, ma se fosse per me l’avrei già tenuta a casa. Oltretutto soffre di asma e io sono sempre in pensiero quando sono al lavoro e lei è a scuola. E poi ha anche il problema del vomito tutte le mattine.» 

« È un bel guaio» rincalzò la madre precedente. «Io ti capisco proprio, perché il vomito ce l’aveva anche la mia tutte le mattine, oltre alle bronchiti e alle tonsilliti ogni mese. Ma a scuola come andava?» chiese allora alle insegnanti. 

«Anche lei agli inizi ha fatto molta fatica a stare con gli altri, era sempre da parte, non lavorava negli angoli del bosco e se veniva interrogata restava muta come un pesce. 

Eppure era una cuccioletta intelligente. Poi un giorno, all’improvviso, ha cominciato a entrare in classe sorridente, a lavorare negli angoli e a fare delle cose molto creative e questo forse le ha dato fiducia nelle sue possibilità. È proprio molto cambiata.» 

«Meno male» rispose la madre un po’tranquillizzata «perché altrimenti non so se l’avrei mandata ancora a scuola.» 

«Io invece questo problema di decidere che cosa fare ce l’ho ancora, non l’ho risolto per niente» ribatté la madre precedente. 

«Ma ai vostri figli quanto tempo è servito per abituarsi alla scuola?» chiese poi impensierita. 

«Oh, alla mia è stata necessaria un’intera stagione» rispose la prima madre. 

«Alla mia un po’di meno, ma è stato ugualmente molto lungo» rispose la seconda. 

«Ma vi capita sempre di vederli continuare ad ammalarsi dopo un po’che vengono a scuola?» chiese ancora la madre di prima agli insegnanti. 

«Certamente» risposero tre o quattro voci insieme «ogni stagione c’è sempre qualcuno che ha questo problema. 

Anzi, il problema della scuola agli inizi ce l’hanno tutti, ma proprio tutti, poi poco a poco la cosa si calma. 

Ma non tutti reagiscono alla stessa maniera. A qualcuno bastano pochi giorni per abituarsi, ad altri è necessaria un’intera stagione. 

Ognuno ha la sua personalità e i suoi tempi.» 

«Il mio è sempre andato a scuola regolarmente, tranne quando aveva gli attacchi di bronchite asmatica» ricordò una madre dei grandi che assisteva insieme agli altri. 

Però ogni mattina era sempre la solita storia: “Oggi non posso andare a scuola: c’è la nebbia”, oppure: “Oggi ho proprio mal di pancia”, oppure un qualsiasi altro male, persino al gomito e alla lingua. 

Ma io penso che a quell’epoca avesse paura a lasciarmi a casa da sola perché io stavo male, ero spesso malata e lui voleva restare lì a curarmi. Anzi, me lo diceva sempre: “E se poi io sono a scuola e tu stai male?”. 

E quest’anno che sono stata ricoverata in ospedale per un’operazione improvvisa lui ha avuto un attacco d’asma molto brutto, dopo che ormai da tre stagioni non ne aveva più. 

E adesso che ha ripreso ad andare alle lezioni la sua maestra mi dice che è come se non ci fosse a scuola e fa tanti errori che prima non faceva e ogni giorno si preoccupa di lasciarmi a casa da sola. 

A scuola ci va lo stesso, ma ho scoperto che prima di andare mette sempre dei bigliettini nelle tasche del papà con i suoi disegni; forse vuole che il papà pensi a lui durante la giornata, quando si mette le mani in tasca.» 

«Questa è una cosa molto bella» notò un’altra madre «perché vuol dire che conta proprio su di lui e che se il papà sta fuori di casa, e non ha paura che la mamma stia male quando è a casa da sola, allora anche lui può stare tranquillo e il disegno nella tasca gli garantisce che il papà penserà a lui prima o poi, quando si metterà le mani in tasca.» 

«Ma guarda un po’come sono ingegnosi questi cuccioli e come sanno escogitare il sistema per aiutarsi!» osservò ammirato uno degli insegnanti. 

«Mi viene in mente il caso di uno che nel periodo che aveva tante paure veniva sempre a scuola con una lettera del suo alfabeto di plastica adesiva ed era la P di papà. 

Lui se la teneva stretta tutto il giorno in mezzo a una zampetta, tanto che non riuscivamo mai a fargliela aprire. Se la portava dappertutto, anche a letto. Per un lunghissimo periodo circolava sempre e solo con la P di papà e nessuno gliela poteva portar via.» 

«A proposito di malattie,» disse allora un’altra madre «io ho notato una cosa strana: mio figlio non ha mai avuto problemi per andare a scuola, ma si è sempre regolarmente ammalato ogni volta che noi dovevamo partire, anche per una vacanza. 

Agli inizi non ci facevo caso, poi mi sono accorta che questo succedeva prima di ogni partenza e adesso so già in anticipo che probabilmente succederà. 

Però, sapendolo, mi preoccupo di meno.» 

«Ma perché si ammala sempre prima di una partenza?» chiese stupita un’altra madre. «In fin dei conti una vacanza è una cosa bella e si dovrebbe essere contenti.» 

«Forse non è tanto la vacanza, quanto il lasciare la propria casa, la propria cuccia, i propri giochi anche solo per un po’. 

Se ci pensate, per un cucciolo tutto è “suo”, il suo papà, la sua mamma, i suoi giochi, la sua casa, la sua cuccia, eccetera. 

Forse si ammala perché ha paura di non trovare più la sua casa se lui se ne allontana per una vacanza.» 

«Ma questo può avvenire anche ogni giorno quando va a scuola» continuò un’altra madre. «Il mio, per esempio, quando va a scuola mette il suo orsacchiotto sul letto con un orsetto in braccio e guai se non lo ritrova tale e quale quando ritorna a casa! Va subito a controllare che nessuno l’abbia toccato. 

Forse è proprio il suo orsetto che lui lascia a casa a farmi compagnia quando è a scuola. 

E il suo orsetto per lui è molto importante. 

Un giorno che io ho dovuto lasciarlo a casa da solo, ed ero molto preoccupata, mi ha detto: “Tu va pure, tanto io mi prendo la mia pistola, il mio orso e la mia spada, e mi accendo la T.V. mentre tu sei fuori” e così ha fatto e tutte queste cose l’hanno aiutato.» «Ma allora i giochi non sono una cosa in più per loro, sono la cosa che li aiuta a crescere e a vincere le paure!» osservò attentamente un’altra mamma. 

«Eh già, questo è proprio vero,» risposero gli insegnanti «noi lo vediamo ogni giorno nei giochi che fanno tra di loro. Li usano per imparare a crescere e a vivere. Sono proprio molto, molto importanti.» 

«Sapete quando la mia si ammalava sempre?» notò allora un’altra mamma. 

«È stato dopo che è nato il fratellino. Lei era così gelosa che non voleva andare a scuola mentre lui era a casa. E siccome io la mandavo lo stesso, dopo un giorno o due si ammalava. 

Ho calcolato che in un intero anno di scuola ci è andata solo sedici giorni, e alla fine l’ho tenuta a casa.» 

«Ma allora c’è sempre qualche motivo quando succedono queste cose?» chiese un’altra madre. 

«Può anche darsi,» rispose un’altra ancora «ma sembrano essere tante cose diverse: la scuola, la partenza, la nascita di un fratellino, la mamma che non sta bene, eccetera. Come si fa a sapere qual è quella giusta?» 

«Proviamo a vedere se queste cose ne hanno qualcuna in comune» disse allora una. 

«Che cosa ci può essere in comune fra tutte?» 

«Mah, innanzitutto sono tutte quante dei cambiamenti, delle cose nuove: la scuola, il fratellino, le vacanze, la mamma in ospedale. 

Forse i cuccioli hanno paura delle cose nuove.» 

«Capisco che abbiano paura di una cosa nuova brutta, come la mamma in ospedale, ma perché devono aver paura di una cosa nuova bella come le vacanze?» chiese un’altra. 

«Forse si ha bisogno della continuità, e i cambiamenti, anche se belli, la interrompono» 

«Ma allora la malattia ha un significato? Non è una cosa che succede per caso?» 

«Tutte le cose hanno un significato, e quindi anche la malattia ne ha uno! E forse la malattia del cucciolo che non riesce a stare a scuola o ad allontanarsi da casa o ad accettare il fratellino vuol dire che lui sta facendo un grosso sforzo, che è quello di abituarsi a un cambiamento.» 

«Ma la vita è fatta di continui cambiamenti! Anche un cucciolo che cresce fa dei cambiamenti ogni giorno!» notò una madre. 

«E voi, che cosa avete visto che aiuta i piccoli ad accettare i cambiamenti e a imparare a crescere?» 

«Vediamo un po’« rispose un’altra. «Sono tante le cose che li aiutano. 

Una per esempio è quella di imparare delle cose e dei giochi che prima non sapevano fare e che gli diano soddisfazione.» 

«Un’altra è quella di vedere che adesso sanno fare delle cose che da piccoli non riuscivano a fare.» 

«Un’altra ancora è lo scoprire come ci si sente tutti più forti se si è in un gruppo piuttosto che da soli.» «Ma guarda,» osservò allora una madre «è un po’la stessa cosa che sta capitando anche a noi. Prima di metterci tutte insieme per provare a capire, ognuna si sentiva più debole e qualche volta non si riteneva all’altezza di affrontare la situazione. Adesso invece, da quando ne parliamo tutte insieme, anche i nostri problemi ci sembrano più facili da risolvere.» 

«È proprio così» confermò un’altra. 

«D’altra parte se è vero che lasciando la loro casa per la prima volta per andare a scuola i nostri figli affrontano un grande cambiamento, è anche vero che si tratta di un grande cambiamento anche per noi, perché una cosa è l’essere genitori di un cucciolo che sta nella tana, e un’altra è l’essere genitori di uno che va fuori nel bosco. 

Non sono solo loro che devono affrontare dei cambiamenti, siamo anche noi.» 

E così le madri dei cuccioli del Bosco che erano spesso malati andarono avanti a discutere tra di loro per giorni e giorni, e parlarono con gli insegnanti e con le madri delle stagioni precedenti per imparare anche dalle loro esperienze. 

E quando ebbero raccolto delle idee abbastanza chiare sul problema stesero un decalogo che appesero davanti all’ingresso della Scuola dello Spiazzo, reparto piccolissimi, come promemoria per le madri future. 

Il decalogo diceva questo: 

1 – Non drammatizzare mai la malattia; prenderla esattamente come si prende un giorno di sole o uno di pioggia. 

2 – La malattia può anche voler dire delle cose. 

3 – La malattia di un cucciolo davanti alle separazioni e ai cambiamenti può anche voler dire che lui sta facendo il grosso sforzo di abituarsi al cambiamento e di provare a trovare sicurezza anche fuori dal suo nido. 

4 – Solo se si scopre come non aver paura di lasciare il nido si può imparare a crescere. 

5 – Per imparare a lasciare il nido e a crescere bisogna acquistare fiducia nell’ambiente esterno che ci riceve. 

6 – La fiducia nell’ambiente che ci riceve non è una cosa che si ottenga da un giorno all’altro. Ognuno ha bisogno del proprio tempo a seconda del suo carattere e della sua storia. 

7 – Gli adulti che circondano i piccoli possono aiutarli di più se si rendono conto che quello che loro stanno facendo è un grosso sforzo che gli costa molta fatica. 

8 – Anche agli adulti costa sempre uno sforzo adattarsi ai cambiamenti perché bisogna continuare a camminare e non stare mai fermi e c’è ogni tanto qualcosa che dispiace lasciare alle spalle. 

9 – Tutto cammina, anche le onde del mare e il vento. Il sole cammina tutto il giorno per percorrere l’arco del cielo e perché ci possa essere un nuovo giorno anche le stelle camminano per tutta la notte. È solo se impariamo a camminare che scopriamo il mondo. 

10 – Scoprire il mondo è l’avventura della vita. 

Qualche riflessione sulla favola: Cambiamento e malattia nel bambino 

“«Toccami qua, mamma, ho un dolore dentro la testa!» 

«Ti fa ancora male, adesso?» 

«Sai, mamma, non è ancora guarito, però sta per guarire. Penso che non ci sarà bisogno di andare dal dottore!» “Clara, 9 anni, alla mamma. 

Questa favola è praticamente la rielaborazione del protocollo di una seduta sullo stesso tema con i genitori e le insegnanti di una scuola materna dell’hinterland milanese alcuni anni fa. 

Quello che entrambi avevano osservato era stato che spesso i malesseri o le malattie dei bambini si presentavano in coincidenza con occasioni particolari, fra le quali le partenze o altre separazioni, cioè situazioni che in ogni caso rappresentavano un cambiamento, anche piccolo, o della routine e dei rituali del quotidiano, o del mondo interno dei genitori e della dinamica familiare. 

La stessa cosa può succedere a volte anche a noi adulti, come osserva uno studio recente sul messaggio evolutivo sottostante alla malattia. [9

Tuttavia mi sembra che siano due età in particolare, l’infanzia e la vecchiaia, quelle in cui si riscontra spesso la difficoltà ad accettare i cambiamenti anche di lieve entità. 

Mi sembra quindi che il sorgere e il tramontare della vita dell’uomo abbiano questo terreno in comune e in effetti si tratta di due età entrambe molto caratterizzate dai cambiamenti per motivi diversi. 

L’una conquista qualcosa perdendo qualcosa d’altro ogni giorno e prepara così alla vita adulta, l’altra poco a poco vede svanire usi, modi, costumi e persone di quello che è stato il suo mondo relazionale e affettivo, o le sue stesse possibilità fisiche e a volte intellettive, preparando forse così a lasciare la vita. 

Ora, il modo principale con cui noi tutti, ma i bambini in particolare, possiamo manifestare le nostre difficoltà davanti ai cambiamenti cui la vita ci espone è proprio il disagio nel corpo, che è la maggior certezza d’esistenza che abbiamo. 

Dice Kreisler a questo proposito: 

“Il corpo è il luogo e il mezzo privilegiato attraverso il quale, preso in un conflitto, il bambino esprime il suo malessere; questa via di espressione è tanto più utilizzata quanto più il bambino è piccolo. 

L’infanzia, si dice spesso, è l’età d’oro della psicosomatica…” [10

Fra i tanti cambiamenti che un bambino affronta, l’andata alla scuola materna è in genere uno dei maggiori ed è la prima prova sociale che un piccolo che non sia andato al nido normalmente incontra sul suo cammino; essa sancisce il passaggio del bambino dal «dentro» al «fuori», dall’appartenenza al gruppo familiare ristretto a quello allargato dei coetanei. 

È perciò importante aiutare un bambino ad affrontarla e a superarla; quando questo succede in modo naturale l’esperienza mentale che il bambino ne riceverà sarà che separarsi è difficile ma possibile, e che questo cambiamento può portare con sé tante altre conquiste sul piano delle esperienze, delle relazioni e dell’apprendimento. 

Il bambino che invece presenta difficoltà tali che il genitore preferisce riportarlo a casa, magari con una baby sitter o una nonna, si può portare dentro, inconsapevolmente, l’esperienza che separarsi non è possibile, perché troppo doloroso, e poiché tutti i cambiamenti implicano delle separazioni mentali da ciò che si lascia, ne consegue che questo bambino potrà probabilmente trovare più difficoltà nell’accettare i cambiamenti e i passaggi. 

Anche qui forse si può esemplificare con una storia fra tante altre. 

Quando la mamma di Donata si presenta per una consulenza, su suggerimento di una maestra, la bambina ha tre anni e mezzo e ha appena iniziato ad andare alla scuola materna. 

La mamma, Anna, ha 32 anni ed è giustamente molto preoccupata perché la piccola ha avuto un fortissimo attacco d’asma al secondo giorno di scuola. 

Donata è nata a circa otto anni dal matrimonio dei genitori; è stata molto desiderata ed è la «cosa più preziosa» della loro casa. 

L’attacco d’asma della piccola è il quarto nel giro di un anno e mezzo e Anna e suo marito hanno già fatto il carosello di pediatri e allergologi per fare tutto ciò che era nelle loro possibilità. 

Anna ha molte resistenze per la consultazione psicologica perché è una persona estremamente riservata che sin dall’infanzia è sempre stata abituata a «gestirsi» i problemi da sola e senza l’aiuto di nessuno. 

Quando si presenta tiene a precisare, come spesso succede, che lei è lì «solo per la bambina», non per sé, e che si è decisa a venire soltanto per amor suo, facendo una cosa che le costa proprio molta fatica. 

È stata la maestra di scuola materna che ha notato le difficoltà che la bambina aveva a inserirsi e le ha suggerito di provare anche una consultazione psicologica. Anna si presenta quindi per un atto d’amore verso sua figlia, per evitare di lasciare intentata anche una sola possibilità, e la consultazione inizia. 

Si fa la storia degli attacchi d’asma grave che la piccola ha avuto; finora sono stati quattro, e tutti (tranne, apparentemente, il primo) in occasione di separazioni reali o simboliche (la partenza per le ferie, la morte della nonna materna, l’andata alla scuola materna). 

Si passa quindi alla storia della piccola. 

Desiderata molto tempo prima che nascesse, una gravidanza con minacce d’aborto fino ai tre mesi, poi ottima fino al settimo mese, dopo di che è comparsa una gestosi gravidica che tuttavia non ha pregiudicato la nascita quasi a termine (circa 15 giorni di anticipo) e il parto, che si è svolto bene. 

Sembrerebbe quindi che, come spesso succede, gli inizi e la fine della gravidanza, i più vicini ai grandi cambiamenti siano stati i momenti più ansiogeni. 

Una volta tornata a casa la mamma si è occupata della piccola fino ai nove mesi d’età con grande cura ma con molta ansia, perché le sembrava che fosse una responsabilità troppo grande per lei e aveva il terrore di essere inadeguata; bastava tuttavia la presenza di qualcun altro in casa per rassicurarla e farla sentire adeguata come mamma anche quando l’allattava al seno e aveva paura che il latte fosse insufficiente. 

Quando la piccola aveva nove mesi è stata affidata ai nonni paterni perché la madre è tornata al lavoro; a quell’epoca non aveva particolari oggetti a cui fosse affezionata. 

Si è invece affezionata col tempo agli animali presenti nella casa dei nonni, dai quali ha dovuto essere separata dopo il primo attacco d’asma (verso i due anni) che era stata diagnosticata come allergia ai peli di cani e gatti. 

Adesso che Donata ha tre anni e mezzo si pone il problema della scuola materna; tutti le consigliano di mandarla, ma Anna ha una grossa lacerazione dentro di sé e non sa che cosa fare perché la piccola manifesta molte difficoltà nell’inserimento e vorrebbe stare a casa con la baby-sitter alla quale è molto legata. 

Nella consultazione si cerca di capire quali possono essere i pro e i contro dell’andare a scuola o dello stare a casa per entrambe e Anna riesce a mettere a fuoco che mentre per la bambina i pro-scuola le sembrano essere di più, per lei c’è una dominanza assoluta di pro-casa. 

Lo stare a casa della piccola sembra quindi essere più nell’interesse della mamma che di Donata. 

«I vantaggi che io ne ricevo se lei sta a casa sono che: 

«1 – Ho soddisfatto la bambina che me lo chiede. Io ho sempre cercato di non imporle niente come non è mai stato imposto niente a me da piccola. 

Se decidevo ero io a farlo» (emergerà poi che il rovescio di questa medaglia per Anna, che è vissuta con una madre gravemente depressa, è stato il sentirsi emotivamente molto sola da bambina). 

«2 – Io sarei più tranquilla perché mi fido molto della sua baby sitter e so che la bambina sarebbe coccolata e curata individualmente invece che insieme agli altri bambini; inoltre non sarebbe costretta ad adattarsi alle regole, alle restrizioni e agli orari del vivere in comunità» 

(“Ma Donata, senza queste esperienze, come potrà abituarsi a vivere con gli altri?” si chiede poi). 

«3 – Io passerei la mia giornata al lavoro in tranquillità invece che nella continua ansia che mi telefonino per dirmi che è stata ricoverata in ospedale per un attacco d’asma. 

Io so che la sua baby sitter la conosce bene e interviene a darle i farmaci giusti prima che l’attacco grave si scateni. 

E come se ci fossi io in casa perché lei fa esattamente tutto ciò che le dico e questo per me rappresenta una grossa tranquillità, mentre a scuola le maestre si devono occupare di tanti bambini, non di uno solo. 

«4 – Sarei più tranquilla anche per tutte le malattie infettive, perché stando a casa la bambina avrebbe minor possibilità di contagio.» 

Per Anna quindi sarebbe molto meglio se Donata stesse a casa, da tutti i punti di vista, anche perché lei per non cadere in ansia ha un forte bisogno mentale di controllare la situazione e di poter prevedere esattamente ciò che succederà. 

Persino un evento piacevole, come un invito, la disturba se non è stato programmato in precedenza perché sovverte la sua routine quotidiana. 

Ma evidentemente Anna sapeva già, da qualche parte dentro di sé, che forse questa non era la soluzione migliore per Donata, altrimenti non avrebbe neanche accettato di chiedere la consulenza, avrebbe semplicemente tenuto la bambina a casa. 

Infatti, una volta messi a fuoco questi vantaggi e svantaggi, decide di continuare a mandare la bambina a scuola, mentre la consultazione continua. 

A posteriori si deve riconoscere che c’è voluto proprio molto coraggio da parte della mamma per prendere questa decisione accettando di convivere con la propria ansia senza che questa intervenisse a impedire alla bambina un’esperienza fondamentale. 

L’inserimento è stato lungo, faticoso, ma è riuscito. 

Quando la bambina si alzava con la «giornata-no» («Ma anche oggi mi porti a scuola? Ma non c’è sciopero? E se non c’è la mia maestra? E se le luci sono spente?» eccetera) per Anna era un doppio supplizio. 

«Da una parte c’è lei, la persona a cui tengo di più al mondo che mi implora in un modo che mi strazia il cuore, dall’altra ripiombo nei miei ricordi, quelli delle “giornate-no” di mia madre, quando io mi alzavo e le chiedevo: “Mamma, come stai?” e lei rispondeva: “Male!” e a me crollava il mondo addosso. 

Ogni volta che Donata ha una “giornata-no” io mi dico: “Ecco, ci risiamo!” e vengo sommersa da queste cose tutte insieme.» Il dividere e separare ciò che riguarda il passato da ciò che sta succedendo ora, aiuta Anna a tollerare meglio la situazione anche perché, per fortuna, le giornate-no di Donata diventano sempre meno frequenti e la bambina quando è a scuola ha un ottimo rapporto con la maestra che ama molto e con i suoi compagni, ha il piacere di giocare con gli altri e di imparare (come spesso succede ai bambini asmatici, è anche molto intelligente). 

Per Donata è duro confrontarsi con le regole e i limiti perché non li ha ancora sperimentati finora, ma sono questi stessi limiti che poco a poco le danno la sicurezza del contenimento mentale. 

(Una volta la piccola ha detto alla mamma: «Sai, io vorrei che qualche volta anche tu mi sgridassi, come la mamma della mia amica!», come se sentisse la necessità di questa esperienza.) 

Contemporaneamente anche Anna nota che quando percepisce i suoi «confini» separati da quelli della bambina sta molto meglio, mentre viene sommersa dall’ansia quando si sente mischiata a lei, senza separazione mentale, come le è sempre successo in passato. 

Donata riesce a stare a scuola perché ora può essere accompagnata dalla mamma «nel pensiero», invece che fisicamente. 

Tre anni dopo le dirà, mostrandole un cerchietto: «Vedi, mamma, questo cerchietto mi ricorda che quando io ero all’asilo e avevo voglia di te davo un’annusata al cerchietto» (che era della mamma) «sentivo l’odore della mamma, e così passava un’altra ora.» 

Poco a poco, Anna si rende anche conto che il rapporto con la bambina diventa più rilassato; prima Donata era così attaccata alla mamma che pur di starle addosso o la coccolava o la provocava continuamente, mentre ora sa stare anche a giocare da sola o con gli altri bambini. 

Anche l’asma, che per la piccola registra un precedente nella famiglia paterna, si attenua nel senso che gli attacchi non sono più così forti da far temere il ricovero ospedaliero e anche le cure mediche la contengono bene. 

L’apertura della coppia mamma-bambina, che prima tendeva a essere chiusa, permette anche al papà di avere una presenza più importante nella vita della bambina, soprattutto per quanto riguarda lo stabilire i limiti perché il papà è molto affettuoso e comprensivo, ma più deciso e severo della mamma. 

Donata percorre così, con le sue difficoltà e conquiste, il periodo della scuola materna, cosicché anche questa esperienza viene integrata nel suo mondo mentale. 

Un attacco d’asma (ormai diventato molto più raro) si presenta nuovamente, poco dopo l’ingresso alla scuola elementare, con la nascita della sorellina, evento che rivoluziona il suo mondo detronizzandola dalla posizione di privilegio conosciuta fino ad allora. 

Ma sia come entità che come vissuto familiare, la cosa non appare più così drammatica. 

«Mamma», dirà Donata un giorno «quando avevo l’asma, ecco, l’asma mi è passata non per le punture e lo sciroppo, ma perché io guardavo fuori della finestra e vedevo le nuvole che si muovevano nel cielo!» 

Il grande dono che la mamma di Donata le ha fatto non è stata la semplice nascita biologica, ma l’aiuto psicologico. 

Si è infatti presa cura lei del suo carico d’ansia (che era “suo”, della sua storia precedente la nascita della bambina) invece di viverlo inconsapevolmente proiettato sulla figlia, che a questo punto non avrebbe potuto che continuare a fare la «malata». 

È frequentissimo che succeda questo scambio fra genitori e figli. 

Madri molto ansiose per la loro stessa storia personale inevitabilmente e inconsapevolmente possono fare del figlio l’oggetto della loro ansia. 

In questo modo si crea un equilibrio tale che il bambino entra spesso nell’identità di “chi deve continuare a procurare l’ansia abituale di vita del genitore” attraverso i comportamenti (iperattivi, autolesionistici, eccetera) o attraverso la malattia. 

Dice la Mannoni: 

“Succede, in effetti, che il bambino rifiuti una terapia, indicando così chiaramente che sua madre non ha che lui (malato) come ragione di vita. 

L’analista deve allora stare attento a non prendere in cura un bambino la cui «guarigione» rischierebbe di scatenare una depressione o di scompensare uno dei genitori. 

Il più fragile non è sempre colui per il quale viene chiesta la consultazione…” [11

Un altro caso interessante di malattia legata al mantenimento dell’equilibrio familiare (e quindi alla paura del cambiamento) è quello del bambino la cui malattia “tiene unita” una coppia conflittuale. 

“I bambini – dice Covitz – investiranno tutta l’energia necessaria per assicurare la conservazione dell’armonia familiare, anche se questo significa sacrificarsi a farlo sviluppando dei disordini psicologici. 

Il bambino «maltrattato emotivamente» [12] di solito manifesta dei sintomi che lo fanno apparire malato, ma che possono essere dei segnali riguardanti il matrimonio dei suoi genitori. […] 

Quanto ai genitori, se focalizzano la loro attenzione sul loro bambino problematico piuttosto che sul loro stesso matrimonio, un peso viene loro sollevato e arrivano ad avere un vantaggio nel perdurare della malattia del loro bambino. 

Può essere che il bambino istintivamente tenti di unire i suoi genitori con l’attirare l’attenzione su di sé. 

«Preferisco essere malato» sembra voler dire «se l’essere malato significa che voi due vi darete da fare insieme per farmi star meglio!» 

Questo è facilmente intuibile perché il bambino teme che se il matrimonio dei suoi genitori fallisce, lui resterà senza nido.” [13

Anche qui, quindi, la malattia ha una sua precisa motivazione e finalità, come spesso può succedere. 

12. Fidarsi o non fidarsi? 

Il tema della fiducia si può giocare spesso fra due poli opposti: fidarsi di tutti indistintamente, oppure non fidarsi di nessuno, altrettanto indistintamente. 

La fatica del crescere è anche quella di sperimentare di chi e in quali momenti possiamo fidarci e di chi o in quali momenti è forse meglio che non ci fidiamo. 

Il neonato sperimenta agli inizi un ambiente da cui è totalmente dipendente per ogni suo bisogno. 

Più gli adulti rispondono ai suoi bisogni, nutrendolo, riscaldandolo, proteggendolo, più lui imparerà a fidarsi di loro. 

È totale la fiducia che un bambino piccolo deve nutrire nei confronti del padre e della madre, che diventano per lui il centro del mondo, paragonabili solo a Dio. 

Diventa perciò tanto più nocivo il fatto che a volte questa fiducia possa essere tradita. 

Se non possiamo fidarci neanche di Dio, chi ci resta allora? 

Il tradimento della fiducia di un bambino è qualcosa che gli si imprimerà come un marchio nella carne e lo accompagnerà a vita, condizionando tutti i suoi futuri rapporti sociali da adulto. 

Il tema della storia che segue ora è proprio un tradimento di fiducia, seppure involontario. 

Favola numero 12 

Il gabbiano che giocava col vento 

“Nel cuore portavo la spina di una passione; riuscii a strapparmela un giorno: ora non sento più il cuore. 

A. Machado, “El limonero l nguido”. 

Fra le storie che si raccontavano al tramonto alla Scuola del Mare ci fu una volta anche quella del gabbiano giocherellone. 

In effetti non era una storia di mare, ma di vento, di quelle scritte sulle onde quando si rincorrevano fra di loro. 

C’era una volta un gabbiano che amava molto vedere le cose dall’alto. 

Tutta la sua giornata era fatta di saliscendi. 

Saliva verso le nuvole per godersi lo spettacolo e poi scendeva verso il mare in veloci picchiate e si posava sopra le onde per farsi cullare dolcemente. 

E poi di nuovo su, nel cielo, a salire e scendere di nuvola in nuvola. 

Ma la cosa che il gabbiano amava più di tutto erano le giornate di vento, di quello che ogni tanto soffia sul mare e si diverte a formare i mulinelli nell’acqua e nell’aria. 

Appena il vento giusto arrivava, ecco che il gabbiano si levava in volo per cercare il punto più tempestoso e quando lo trovava si metteva ad ali spiegate e si lasciava andare fiducioso. 

Allora il vento, che lo conosceva bene, lo prendeva su di sé e iniziava a giocare. 

Prima lo sosteneva, poi lo lasciava cadere un po’, poi lo riprendeva di nuovo e lo sollevava più in alto, poi gli faceva fare un giro di danza e lui era proprio molto felice. 

Il gabbiano aveva fiducia nel vento e il vento non tradiva la sua fiducia. 

E così questo rapporto fatto di fiducia andò avanti per molto tempo, con gran soddisfazione di entrambi. 

Finché una volta capitò una giornata in cui il vento si era alzato con un gran mal di testa. 

Quel giorno era preoccupato perché aveva tante cose da fare ed era proprio arrabbiato col mondo e, avendo poca voglia di pensare agli altri, anche un po’distratto. 

Ma il gabbiano non si accorse di niente, essendo anche lui preso dai suoi pensieri, e fu così che quando si lasciò andare fiducioso nei suoi mulinelli il vento fu meno pronto del solito a farlo risalire prima che cadesse e il povero gabbiano andò a sbattere contro una roccia e si ferì a un’ala, esattamente nel punto che gli faceva ancora male per una vecchia ferita. 

In realtà questa cosa gli era successa tante altre volte e non era poi così grave, ma non gli era mai successa con il vento e questo lo spaventò e lo offese moltissimo. 

Il gabbiano si allontanò dal mare con la sua ala ferita e volò, volò, volò più lontano che poté, finché arrivò a una città che non conosceva il mare perché era completamente circondata dalla terra e lì si fermò. 

Vide degli altri uccelli grandi come lui e che gli somigliavano, ma non fece amicizia, si nascose in un angolo e rimase sempre da solo. 

Ormai il gabbiano non si fidava più degli altri e così visse per tanto tempo solitario e pieno di paure. 

Intanto il vento giocherellone, che non si era accorto di come il gabbiano si fosse fatto male, continuava ad aspettarlo per giocare con lui. 

Ma i giorni passavano e lui non tornava mai, anzi, se n’era persa ogni traccia. 

Allora il vento, che aveva nostalgia del suo gabbiano, cominciò a cercarlo, prima su tutto il mare e poi anche sulla terra; e gli uomini che non conoscevano questa storia pensavano che doveva proprio essere cambiato il clima, se un vento di mare soffiava così forte anche dove prima non si faceva mai sentire. 

Passò così tanto tempo e il vento continuava a cercare il suo gabbiano e lui a nascondersi ogni volta che lo sentiva arrivare da lontano, alla sua ricerca. 

Però tutti e due si sentivano molto soli e rimpiangevano i giochi di quando erano amici. 

Andò a finire che poco a poco il vento si scoraggiò e pensò che non avrebbe più trovato il suo gabbiano. 

E allora si immalinconì tanto che cominciò a uscire sempre meno di casa e poi a non uscire più del tutto. 

E quando questo successe, tutto si fermò. 

Le nuvole stavano ferme nel cielo perché non c’era più nessuno che le spingesse, il mare era immobile, le vele si afflosciavano senza vita e i semi dei nuovi fiori erano ammucchiati tutti insieme perché nessuno li spandeva più nell’aria per preparare i fiori della primavera seguente. 

E allora la terra e il mare si impensierirono e decisero di fare qualcosa, ma era difficile sapere che cosa esattamente. 

Finché un giorno la terra, che aveva buona memoria e un grande cuore, si ricordò della scena del gabbiano che giocava con il vento e pensò che forse il vento era triste per questo ricordo e ne parlò col mare. 

«Potremmo provare a farli incontrare di nuovo perché si spieghino le cose e si ritrovino,» disse infine il mare «ma mi chiedo se sia questa la soluzione» aggiunse poi pensieroso. 

«Me lo chiedo anch’io,» rispose la terra «perché se questo è successo vuol dire che c’è qualcosa dentro di loro che l’ha provocato e che continua a restare dentro.» 

«È vero», rispose il mare «allora se questo qualcosa non cambia è inutile farli incontrare, perché l’episodio potrebbe ripetersi in qualsiasi altro momento della giornata e della vita. Chissà quante altre volte il vento si potrà alzare col mal di testa e il gabbiano si potrà graffiare l’ala proprio nel punto che gli fa più male!» 

E così, pensa e ripensa, la terra e il mare decisero di chiamare a raccolta gli uccelli e li incaricarono di prendere nel becco un seme ciascuno, fra quelli tutti ammucchiati insieme, per trasportarli lontano come prima faceva il vento, affinché nascessero nuove piante e nuovi fiori. 

Gli uccelli iniziarono un lungo lavoro che durò giorni e giorni e giorni e lo fecero con tutta la cura che ci poterono mettere. 

Ma per quanto si sforzassero, era proprio difficile trovare il posto giusto per ogni seme perché loro non conoscevano le strade del vento. 

Fu così che la primavera successiva, quando le nuove piantine cominciarono a nascere, capitarono le cose più strane. 

Anzi, sembrava proprio una Babilonia. Per quanto gli uccelli si fossero sforzati, quasi nessun fiore era al posto giusto. 

Allora la terra andò a svegliare il vento, che sonnecchiava intristito nella sua casa, e lo invitò a fare un giretto per il mondo. 

Lui si lasciò convincere, per una sola volta, ma quando fu fuori rimase sbalordito da ciò che era successo. 

«Ma questi fiori sono tutti al posto sbagliato!» disse sorpreso alla terra. «Perché è successo questo?» 

«Perché sei tu e non gli uccelli che conosci le strade per trasportarli,» rispose la terra «cosicché loro hanno fatto ciò che hanno potuto.» 

Fu allora che il vento si rese conto di una cosa che prima non sapeva ed era che la vita aveva proprio bisogno anche di lui e delle sue strade. 

E fu pure così che il vento decise di tornare nel mondo perché i fiori non soffrissero più nascendo nel luogo sbagliato e perché sentiva che anche per lui quello era il suo posto. 

E quando torno a fare il suo antico mestiere si accorse che era molto più bello viaggiare per la terra e per il mare piuttosto che restare intristito in casa in compagnia di un solo pensiero, sempre uguale e identico a se stesso, giorno dopo giorno. 

Nel frattempo sulla terraferma, là vicino alla città, anche il gabbiano si era accorto dell’ordine rovesciato delle piante e dei fiori e anche lui era rimasto stupito della cosa. 

Anzi, cominciava a capire che diventava difficile anche per gli animali vivere e trovare da nutrirsi, con tutte le piante al posto sbagliato. 

E anche lui scoprì che, anche se era triste, aveva ancora voglia di respirare e di nutrirsi e di vedere le piante giuste al posto giusto. 

E poi c’era un’altra voglia che da un po’di tempo gli stava venendo ed era quella di tornare ad avere nella sua testa dei pensieri diversi che gli facessero compagnia e non sempre lo stesso pensiero, uguale e monotono, identico a se stesso. 

Un po’come era successo al vento. 

E allora si ricordò che ai tempi dei vecchi giochi i pensieri della sua testa facevano risuonare delle cose dentro di lui che gli piacevano, mentre ora gli sembrava che non ci fossero più. Eppure lui sapeva di averle ancora, sepolte chissà dove, mentre adesso era come se risuonasse sempre e solo la stessa corda, monotona e grigia. 

Il povero gabbiano era come un musicista che aveva dentro una musica da suonare, ma non trovava più lo strumento che gli serviva. 

Finché un giorno anche lui decise di partire per ritrovare il suo strumento. Sapeva che l’avrebbe trovato al paese del mare e del vento e questo lo intimidiva un po’. 

Ma mentre volava ecco che arrivò il suo vento che gli diede un tuffo al cuore, ma lui non lo riconobbe, tanto il gabbiano era intristito e immalinconito. 

E quando il vento vide questo gabbiano che avanzava timoroso perché aveva una vecchia ferita, lo prese gentilmente sulle sue ali e lo portò verso il mare per farlo respirare meglio che là, sulla terra lontana. 

E allora sul mare il vento si mise a giocare scherzoso e il gabbiano stette a guardarlo muto. 

Poi, piano piano, gli si avvicinò di nuovo e gli chiese di portarlo su una nuvola. E quando lui lo portò, il gabbiano si lasciò andare ai vecchi giochi e il vento, stupito e commosso, lo riconobbe. 

E fu così che i due antichi amici si ritrovarono e ripresero a incontrarsi per giocare, loro col mondo e il mondo con loro. 

E quando ciò avvenne, la terra e il mare si guardarono soddisfatti. 

Anche dalle vecchie ferite può nascere sempre qualcosa; in fin dei conti anche nella terra bisogna scavare un solco perché un seme possa crescere. 

E nessuno, proprio nessuno, può impedire all’erba di crescere a primavera, anche fra i sassi e i rovi, persino fra le tegole sui tetti delle case degli uomini. 

E qui finisce la storia del gabbiano che giocava col vento, ma il vento e i gabbiani continuano ancora a giocare. 

Qualche riflessione sulla favola: Il tradimento della fiducia 

“Ma tu, ti credi di essere la mia padrona?” Paolo, 4 anni, alla mamma. 

Il tema di questa favola mi è stato suggerito più dalle terapie di adulti che dal lavoro sulla relazione con i bambini, poiché si tratta di qualcosa che è forse più facile mettere a fuoco in un’età successiva della vita. 

Mi è capitato così frequentemente di incontrare nella sofferenza psicologica delle persone una ferita da fiducia tradita del bambino che loro stesse sono state, che ho pensato che valesse la pena di inserire anche un tema del genere in questa raccolta di favole. 

Poche esperienze infatti mi sembrano aver lasciato delle tracce così dolorose e condizionanti come questa nella vita di una persona. 

Quando ci troviamo di fronte a una rabbia, nostra o altrui, improvvisa e violenta che non trova sufficiente giustificazione nella realtà esterna, allora è facile che sotto covi il dolore di un’antica ferita che un qualsiasi elemento esterno può aver fatto entrare improvvisamente in risonanza. 

È ricchissima la gamma di emozioni e affetti che possiamo trovare sotto a rabbie violente e apparentemente incomprensibili, dall’angoscia al dolore, alla solitudine, alla paura dell’abbandono, ecc. 

La rabbia è qualcosa che sta per qualcosa d’altro e in terapia si tratta di una preziosa testimonianza della presenza di vecchie ferite. 

Nelle normali interazioni di vita fra adulti è tuttavia qualcosa che non ci facilita le relazioni perché i nostri interlocutori non sono tenuti a sapere che quel particolare tasto farà riemergere il dolore di una nostra vecchia ferita. 

Viene allora a mancare la possibilità di comunicazione e di scambio reale perché entra in gioco qualcosa di cui sia l’altro che a volte noi stessi possiamo non essere consapevoli. 

Questo tipo di rabbia, evocando qualcosa che ci è difficile tollerare mentalmente, porta facilmente all’agito, a fare delle azioni che in altri momenti non faremmo. 

“La tendenza all’agito – dice Nagera – è uno dei maggiori nemici per la capacità di comprensione, sia nel bambino che nell’adulto.” [14

È importante perciò fare attenzione alle rabbie nei bambini e non liquidarle tutte come capricci. 

Se molte rientrano in questa categoria (ma i genitori in genere si accorgono quando si tratta di capricci), ce ne sono altre invece che sono una testimonianza incompresa di veri e propri «assassinii d’anima» consumati ai loro danni. 

L’aspetto esterno che può aiutare a riconoscerle è il furore, la grande intensità che le accompagna e che in genere stupisce chi non si rende conto di ciò che succede. 

Altri ancora invece sono purtroppo “assassinii d’anima” che si consumano in silenzio perché il bambino sente di non potersi neanche permettere di manifestare quanto è stato ferito. 

Tradire la fiducia di un bambino è come pugnalarlo alle spalle, perché lui si presenta disarmato e stupito davanti agli adulti in quanto sono proprio degli adulti che l’hanno accudito, nutrito e protetto, per cui nei loro confronti ha in genere la massima fiducia e dipendenza. 

Ma se il tradimento di un qualsiasi adulto è doloroso per un bambino, quello che in assoluto appare distruttivo è il tradimento da parte dello stesso genitore. 

Ora, tralasciando i casi di sadismo vero e proprio che sono stati splendidamente illustrati dalla Miller, [15] quello che la storia vorrebbe raccontare sono i casi di tradimento involontario, come quello del vento, che lasciano tuttavia anch’essi dei segni dolorosi perché un bambino che si sente tradito così radicalmente potrà erigere dei muri di difesa fra sé e il mondo a scapito di una evoluzione naturale più in armonia con se stesso e con l’ambiente circostante. 

«Ricordo un episodio da bambina che ancora oggi mi fa fremere di rabbia e di dolore» ha raccontato una volta una persona in terapia. 

«Avrò avuto circa quattro anni ed ero una bambina affettuosa e fiduciosa; mi piaceva molto la pasta e me ne avevano dato un piatto pieno. 

Mio padre, ridendo, aveva detto: “Sta a vedere che è capace di mangiarselo tutto!” e io infatti l’ho mangiato tutto con gusto. 

A quel punto, non so come e “solo oggi” a distanza di moltissimi anni, mi rendo conto che doveva essere un gioco, mio padre me ne ha riempito un altro piatto e mi ha invitato a mangiarlo tutto. 

Io ero una bambina molto obbediente e fiduciosa e anche se non avevo più fame, a poco a poco l’ho mangiato tutto, con grande sforzo e senza capire il perché, dopo di che credevo di aver finalmente finito quando mio padre, sempre ridendo, me ne ha riempito un terzo piatto. 

Io proprio non me l’aspettavo, già al secondo piatto “non riuscivo a capire” che cosa stesse succedendo e perché si comportasse così, ma non ero abituata a dire di no, così ho iniziato a mangiare anche il terzo, fino a quando un singhiozzo più grande degli altri mi è salito dalla gola e sono scoppiata a piangere. 

Quella sensazione di subire una cosa “che non capivo”, che mi “veniva imposta”, e della quale gli altri “ridevano”, non l’ho più dimenticata e non la dimenticherò più. 

Da allora, anche se ero bambina, ho deciso che non mi sarei più fidata degli altri e ho eretto una barriera fra me e il mondo, nulla mi toccava più.» 

Quel padre non si era probabilmente reso conto di quello che stava succedendo alla bambina, era semplicemente preso dentro al divertimento del suo stesso gioco. 

Ma una relazione quotidiana con un padre bambino per il quale era più importante il proprio divertimento rispetto alle emozioni della piccola (che evidentemente lui neanche immaginava potessero essere di tanto dolore), e con una madre che proteggeva il marito come se il bambino in casa fosse lui, chiedendo inconsapevolmente alla figlia di fargli da madre come faceva lei stessa, hanno segnato in modo estremamente doloroso l’infanzia di questa persona. 

«Ero io la bambina in quella casa» dirà anni più tardi con molta sofferenza e molta rabbia. 

«Ero io che ero piccola e avevo bisogno di essere capita e protetta e invece sono stata una figlia che non poteva contare sul padre perché il bambino in casa era lui, e che non poteva contare sulla madre perché anche lei stava al gioco e chiedeva a me di far la grande e proteggerlo.» 

Dice la Miller a questo proposito: 

“L’aspetto peggiore era però costituito, secondo me, dal fatto che i bambini fossero lasciati soli con tutte queste loro sensazioni: le madri, sorridenti, non erano evidentemente in grado di capire, altrimenti non avrebbero mai esposto i loro figli a una simile situazione. 

Perché quelle madri non erano nella condizione di poter capire? […] 

Perché non si sono identificate nel bambino indifeso? […] 

Se le madri trent’anni prima non avessero dovuto rimuovere un’identica forma di crudeltà oggi avrebbero una sensibilità attenta per la situazione in cui si trovano i loro figli, e non consentirebbero certo che siano minacciati, impauriti, umiliati, pubblicamente derisi e lasciati soli.” [16

Aggiunge Covitz: “I genitori ego-riferiti vedono se stessi come il punto focale della loro famiglia. Il padre è il re, la madre la regina del palazzo. 

Questi genitori definiscono i loro propri bisogni narcisistici come primari e il bisogno degli altri membri della famiglia come secondari. 

Essi non rispettano il «NOI» della famiglia, mostrando un interesse prioritario per il «ME» e così generano problemi ai figli i cui bisogni narcisistici appropriati all’età non saranno soddisfatti.” [17

Quello che in genere colpisce sempre di questi racconti (credo che ogni psicoterapeuta abbia solo l’imbarazzo della scelta, tanto si incontrano frequentemente) sono innanzi tutto l’apparente banalità dell’episodio, il che dimostra la scarsa attenzione che noi adulti prestiamo ai bambini, liquidando le cose come banali, e in secondo luogo gli effetti devastanti che questo stupore prima e questo dolore poi hanno nei confronti della personalità in evoluzione. 

È proprio forse anche l’apparente banalità dell’episodio ciò che ci permette di dedurre la qualità del rapporto sperimentato nella pratica della vita quotidiana, che è quella che lascia più segni sull’esperienza psichica. 

Perdere la fiducia nel genitore significa perdere il maggior punto di riferimento che possa avere un bambino, che si sente così solo e lasciato a se stesso in balia di eventi più grandi di lui e nell’incertezza di ciò che potrà succedergli. 

«Finché ero a scuola, stavo bene» raccontano altri ex bambini ormai diventati adulti «ma il tratto da scuola a casa era un inferno. 

“Non sapevo mai” che cosa avrei trovato a casa. Era proprio un incubo.» 

Anche questa è un’osservazione molto frequente. 

Ogni bambino ha reagito come ha saputo e potuto. 

C’è chi faceva la strada pregando e promettendo a Dio di «fare il bravo» se a casa tutto era tranquillo, chi reagiva non volendo tornare e cercando dei sostituti genitori, chi si sfogava su altri bambini più deboli, oppure sugli animali, coccolandoli o torturandoli… 

Tutti sono accomunati dall’aver provato l’angoscia dell’impotenza, del subire una situazione senza capirla e senza poterci fare niente, del sentirsi in balia di eventi superiori alle proprie forze, cose molto difficili da tollerare anche per noi adulti; immaginiamo quindi quanto male possano fare a un bambino che ha già in partenza meno difese su cui contare. 

Credo che meglio di tutto lo possa esprimere, ad anni di distanza, la testimonianza che una persona mi ha portato nel corso di una terapia. 

Ci si può ritrovare tutta la sofferenza, la confusione e il disorientamento che può provare un bambino nel momento in cui si sente tradito da un papà-Dio. 

Ringrazio la persona che me l’ha affidata e che mi ha dato il permesso di inserirla in questo libro. 

Le sue parole sono state: «Ecco, ho potuto finalmente scrivere queste cose perché adesso, dopo tanti e tanti anni, sento che non mi fanno più male dentro. Spero che la mia esperienza possa essere di aiuto a qualcuno.» 

Eccone il testo: 

Il bambino petulante 

Il bambino petulante si riteneva offeso da Dio. 

Andò davanti a Dio con le mani dietro la schiena, imbronciato e piagnucolante, per fargli compassione e perché Dio potesse chiedergli scusa. 

Dio non gli badò. 

Allora si arrabbiò. 

Pestò i piedi per terra, poi, raccogliendo tutto il suo coraggio, gridò a Dio: «Chiedimi scusa!». 

Dio lo guardò meravigliato e un po’ironico. 

Dopo qualche tempo rispose: «No, non te lo chiedo!» 

Il bambino petulante non sapeva più che cosa fare. Poteva andarsene offeso. 

Ma Dio non lo avrebbe richiamato, e lui avrebbe dovuto tornarsene da solo con la coda tra le gambe. 

Poteva aspettare finché Dio si fosse scordato della faccenda e poi far finta di niente. 

Ma non avrebbe ricevuto le sue scuse. 

Poteva tenere il broncio e far vedere tutto il suo dolore, ma Dio non gli avrebbe dato retta, avrebbe aspettato (aveva tanto di quel tempo, Dio!) e infine il bambino si sarebbe scordato della faccenda, tornando a ridere e a giocare, salvo ricordarsene all’improvviso e vergognarsi per il suo orgoglio preso in giro. 

Non c’era modo di salvarsi, ormai. 

Aveva osato chiedere a Dio delle scuse. 

Forse poteva scusarsi per aver chiesto delle scuse. Ma era poi così importante avere delle scuse? 

Ma era poi così importante il suo orgoglio offeso? 

O non era forse in colpa perché aveva un orgoglio? 

Il bambino, non più petulante, ormai, non capiva più niente. 

__________ 

Note 

9. Abraham-Peregrini, “Ammalarsi fa bene”, Feltrinelli, Milano 1989. (torna al testo

10. L. Kreisler, “Clinica psicosomatica del bambino”, Cortina, Milano 1986. (torna al testo)

11. M. Mannoni, “Un savoir qui ne sait pas”, Denol, Parigi 1985. (torna al testo)

12. La traduzione italiana non rende l’intero campo semantico del termine inglese “abused” che implica il concetto di violentare. (torna al testo)

13. J Covitz, “Emotional Child Abuse”, Sigo Press, Boston 1986. (torna al testo)

14. H. Nagera, “The Developmental Approach to Childhood Psychopathology”, J. Aronson, New York 1981. (torna al testo)

15. A. Miller, “La persecuzione del bambino”, Bollati Boringhieri, Torino 1986. (torna al testo)

16. A. Miller, “L’infanzia rimossa”, Garzanti, Milano 1990. (torna al testo)

17. J.Covitz, “Emotional Child Abuse”, Sigo Press, Boston 1986. (torna al testo)

torna su