L’oblio della Tradizione e il nichilismo della Tecnica

Dialoghi FilosoficiL’orizzonte che abitiamo si presenta a noi, spauriti uomini del nascente millennio, totalmente avvolto nelle trame autoreferenziali del nuovo ordine mondiale. La tecnica, elevatasi a dimensione planetaria, si presenta come un motore immoto che dirige le ragnatele di comando e di dominio. Come un Moloch macrocosmico, essa inerisce al sonno dei cuori e delle menti. Nell’era della “desertificazione spirituale” – della messa in scena dell’intimità di fronte a telecamere che spiano morbosamente i nuovi animali dello zoo umano – il nichilismo celebra l’apogeo della sua potenza.

L’oblio della Tradizione e il nichilismo della Tecnica

di Antonio D’Alonzo

L’orizzonte che abitiamo si presenta a noi, spauriti uomini del nascente millennio, totalmente avvolto nelle trame autoreferenziali del nuovo ordine mondiale. La tecnica, elevatasi a dimensione planetaria, si presenta come un motore immoto che dirige le ragnatele di comando e di dominio. Come un Moloch macrocosmico, essa inerisce al sonno dei cuori e delle menti. Nell’era della “desertificazione spirituale” – della messa in scena dell’intimità di fronte a telecamere che spiano morbosamente i nuovi animali dello zoo umano – il nichilismo celebra l’apogeo della sua potenza.

All’uomo-massa non rimane, se vuole sfuggire illusoriamente all’omologazione culturale, che il gesto chimerico dell’apparire. Per poche ore, minuti o secondi, si rovescia l’anonimato quotidiano dell’uomo qualunque in caricaturale “ telegenicità. Gli aspiranti protagonisti del circo massmediologico s’improvvisano personaggi, stereotipi mediatici pronti a rispondere al richiamo tautologico del gregge, che in loro riconosce la sua stessa essenza. Ci si accontenta di essere universalmente visibili a scapito dell’interiore spiritualità che abbassa l’audience e risulta incomprensibile alle masse televisive. Si acconsente ad essere soltanto la proiezione idealtipica dell’immaginario collettivo, perché l’unico appagamento è quello dell’Io narcisistico che vuole soltanto essere ammirato ed ammirarsi nello schermo. L’apparire come surrogato dell’essere.

La tecnica omologa le identità, rendendole funzionali alle esigenze produttive, sgretolando il castello dell’interiorità, che di fronte al bombardamento mediatico si trova di fatto privato della ricerca introspettiva, per sempre inibito agli antichi esercizi della solitudine e dell’isolamento. Accerchiata dai media la soggettività si reclude autisticamente in una chiusura narcisistica, dove paradossalmente s’identifica con l’impersonale funzionalità del ruolo sociale, intercambiabile e rimpiazzabile. Sono così rimosse tutte le possibilità di avvalersi di azioni creative, che in quanto non massificate sono ritenute pericolosamente trasgressive dall’apparato. Questo narcisismo postmoderno è paradossale perché non produce vera eccentricità psichica – ovvero creatività – ma identificazione in modelli di successo sociale che obbediscono a standard differenziati, secondo la tipologia del consumatore. Il manager di successo, possiede quell’automobile, beve quella marca di whisky, regala diamanti in occasione di anniversari.

Questa rincorsa collettiva agli status sociali è funzionale all’apparato tecnocratico perché addomestica le pulsioni distruttive individuali, che anziché essere liberate selvaggiamente contro il potere, vengono imbrigliate e circoscritte in ambiti di utilizzo limitati a determinati spazi ed eventi particolari. Si pensi, ad esempio, all’aggressività liberata negli stadi di calcio da persone che la sera stessa o il giorno dopo si riappropriano della propria identità funzionale.

È evidente che la liberazione del dionisiaco, del surplus di compulsioni thanatiche, è meno pericolosa se indirizzata verso un altro tifoso, piuttosto che verso un’autorità politica. La stessa tecnica del potere si ripresenta nel fenomeno giovanile del sabato sera. La discoteca produce lo sfogo e la catarsi delle pulsioni aggressive ed allenta, nello spazio di una notte, l’enorme lavorio che l’apparato tecno-mediatico indirizza contro il consumatore. Imbottirsi di pastiglie il sabato sera o accapigliarsi con gli ultrà la domenica, è quindi in fondo occultamente tollerato, purché il lunedì tutti ritornino ad indossare l’abito sociale di studenti diligenti e lavoratori indefessi.

Come a suo tempo aveva brillantemente diagnosticato Adorno, tramite la persuasione pubblicitaria l’apparato crea i bisogni del consumatore, prima di indicare quali sono le merci-feticcio funzionali alla soddisfazione degli stessi. Si crea la figura del rampante padrone del suo tempo, irresistibilmente lanciato verso orizzonti di successo professionale, tutto teso a finalizzare ossessivamente ogni spazio libero disponibile. Solo successivamente si lancia sul mercato il prodotto del telefono cellulare, di cui tutti oggi sentono un disperato bisogno, senza chiedersi che cos’era la società un decennio prima dell’invenzione in questione.

Inevitabilmente, con l’avvento della persuasione tecno-mediatica inizia a completarsi il processo di regressione culturale delle masse. I media realizzano un’alfabetizzazione minima di tutta la popolazione, pena l’impossibilità di rivestire il ruolo sociale di consumatori, ma livellano gli standard culturali collettivi incredibilmente in basso. Il pensiero soggettivo diventa quindi inutile, surclassato da quello oggettivo unanimemente condiviso, così come futile appare l’atto di porsi troppe domande. È il trionfo della cultura di massa e del tempo presente, dove la rimozione del pensiero della morte libera il consumatore dagli inutili fardelli esistenziali ed indirizza l’attenzione alla frenetica rincorsa dei gadgets consumistici.

In questo contesto non c’è più spazio per la “cultura alta”, e il letterato appare sempre più come un residuo del passato ormai prossimo all’estinzione. La regionalizzazione del sapere in nicchie disciplinari celebra la nascita delle specializzazioni e il naufragio di quella che un tempo era l’universalità della cultura, paradigma del modello rinascimentale. Questa parcellizzazione della conoscenza impedisce di fatto qualsiasi pretesa di possedere quello sguardo d’insieme sul proprio tempo, caratteristico invece dell’umanista del cinquecento. La regionalizzazione del sapere è un prodotto di quella richiesta di velocità nella risposta che l’Apparato pretende dai suoi funzionari. I tempi convulsi che regolano il reperimento dei mezzi-risposte idonei ad assicurare la soddisfazione degli stimoli che l’Apparato realizza come fini da obiettivare, rende indispensabile la rapidità diagnostica nella consultazione dei campi del sapere. Il funzionario deve riuscire a re-agire allo stimolo nel più breve tempo possibile, garantendo la risoluzione del problema che si era presentato. La vecchia cultura umanistica, nell’era della tecnica, aveva il difetto di offrire una maggiore profondità di analisi sulle prospettive scandagliate, a scapito della rapidità nella messa-in-opera delle soluzioni offerte.

Il mito della velocità, l’enfasi posta sulla solerte efficienza, la valorizzazione del parlare conciso e stringato rispetto alla vuota ridondanza del linguaggio aulico: la tecnica dischiude lo scenario ereditato dall’età dei Lumi. L’illuminismo porta a compimento il progetto baconiano del dominio sulla natura, inaugurando l’epoca dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mercé la ragione ridotta a mera funzione strumentale. Per realizzare il dominio sulla natura, la razionalità illuministica deve procedere alla sua totale desacralizzazione, liberandola dalla seduzione dell’ignoto, dalla magia, dal mito.

La ragione svuotata così di qualsiasi apertura trascendente, ravvisa l’inganno nell’incanto della natura fiabesca, e provvede a strutturarsi per lo smascheramento dell’Alterità, in cui riconosce essenzialmente la proiezione di se stessa. Il tempo degli dei si dissipa nel gesto epocale della ragione illuminista che espunge dal proprio ambito tutto ciò che eccede la propria glaciale progettualità. Dichiarando falsa ogni finalità che non ricada all’interno della logica meccanicistica della causa e dell’effetto, la ragione progressivamente dichiara funzionale al raggiungimento dei propri obiettivi anche lo sfruttamento umano. Anziché essere espressione di “Rischiaramento”, la ragione illuminista si tramuta rapidamente in ragione strumentale, e dichiarando la propria fede scientista, relega l’etica a retaggio mitico.

La ragione strumentale diventa così strumento di potere per inaugurare il regnum hominis. Auschwitz e la Kolyma sono il frutto di quest’uso abominevole della razionalità tecnocentrica, dove l’etica si riduce all’ottimizzazione dell’operare funzionale alla Realpolitik, perché in fondo si tratta solo di schiacciare un bottone e di obbedire ad un ordine senza interrogarsi sulle conseguenze dell’azione, che sono già state calcolate e prevenute dall’Apparato.

Se questa estremizzazione dell’uso strumentale della ragione tecnocratica ha il suo ineluttabile dominio d’applicazione nei campi di sterminio e nei gulag, anche nelle moderne società democratiche dell’Occidente, gli scopi della tecnocrazia non mutano. Il potere dell’Apparato si riveste di forme meno cruente, più morbide e garantiste. Il dissidente non viene più sterminato, come nei regimi totalitari, ma lentamente isolato ed emarginato. Mentre le esecuzioni pubbliche degli eretici provocavano nelle folle medioevali, che assistevano in piazza ai supplizi, moti di naturale solidarietà con il condannato, la ghettizzazione e l’emarginazione moderna degli Outsiders, avvengono all’insaputa della pubblica opinione e con la collaborazione del silenzio omertoso dei Media. È permesso avere idee non condivise dall’Apparato, tanto non si troverà nessuna cassa di risonanza mediatica disposta a pubblicizzarle. Come l’anacoreta abbandonava i recinti della città medioevale per ritirarsi nell’isolamento e nella solitudine delle vette, così per l’Outsiders è pronto il territorio della marginalità sociale, fuori degli spazi della comunicazione e della visibilità, esiliato nel suo destino di reietto sociale.

Il risultato del dominio della tecnica è la coeva società dei consumi, dove il singolo esiste solo per essere metabolizzato da un “Noi” e dove la soggettività è ripulita da qualsiasi residuo di creatività e criticità.

L’uomo deve rivolgere la sua attenzione soltanto ai media, al video o alla rete, che irrompendo nel privato isolano l’individuo, impedendogli, tramite l’ipnotica ricezione del flusso di immagini, la comunicazione intersoggettiva. Si realizza così una condizione paradossale che rende il soggetto contemporaneamente isolato e impossibilitato alla solitudine. L’utente è solo davanti al video e tuttavia non lo è, perché è il passivo recettore del cosmo mediatico. L’aggressione pubblicitaria si realizza nel voler rendere pubblico delle tecnologie mediatiche, che irrompono nel privato avvolgendo l’individuo in effluvi di comunicazione ridondante e ininterrotta.

Galimberti nel suo Psiche e techne rileva come l’apparato tecnico trasformando il “regno dei fini” in un “universo di mezzi”, abbia abolito la storia come éschaton, ed eserciti una riduzione sul senso dell’attesa collettiva. Nell’ebraismo il tempo è una linea retta, con un inizio (la Rivelazione) ed una fine (La venuta del Messia e l’avvento del regno di Dio). Il cristianesimo si diversifica dalla concezione del tempo vetero-testamentaria perché concepisce anche un momento intermedio (La prima venuta di Cristo) e sostituisce la Parusia (termine teologico indicante l’atteso ritorno del Cristo in terra per unirsi ai suoi fedeli alla fine della storia) all’avvento del Messia ebraico. In entrambe le prospettive domina una visione lineare del tempo che è rivoluzionaria, perché sostituisce all’insignificanza del tempo circolare greco, l’epifania del divino che si fa storia.

All’inizio del diciannovesimo secolo, la scienza e il pensiero utopico hanno collocato il paradigma del tempo lineare ebraico-cristiano in un orizzonte apparentemente secolarizzato, in realtà riproponendo la stessa metafisica che era alla base dell’escatologia religiosa. All’éschaton divino si sostituiva il fine ultimo del dominio sulla natura o l’avvento della società egualitaria. La scienza e l’utopia proiettavano alla fine del tempo l’éschaton secolare, contribuendo così a radicalizzare la trasformazione cristiana del divenire irrazionale in storia. Ora, la tecnica rende possibile la fine della storia perché proietta il fine ultimo non alla fine del paradigma rettilineo, al di fuori del tempo, ma nel tempo stesso, anzi nel tempo immediato. La ricerca incessante dell’autopotenziamento è l’unico fine che la tecnica colloca nel tempo, in una serie progressiva di traguardi da raggiungere e da oltrepassare subito, in vista di ulteriori steps dalla breve durata.

Questa frammentazione e frantumazione del paradigma rettilineo in istanti che valgono come traguardi intermedi da realizzare, trasforma la proiezione dell’attesa del sogno prometeico in una nuova insignificanza del tempo, realizzando così l’estinzione dell’azione umana a lungo termine e, di conseguenza, la fine della storia. Inoltre, l’autentico scopo che la tecnica persegue è il proprio potenziamento, ottenendo così, secondo Galimberti, il rovesciamento dei fini in mezzi, a cui sopra accennavamo. Non si tratta più di utilizzare la tecnica come un mezzo per realizzare il fine del benessere sociale. Al contrario, la tecnica edifica il benessere collettivo per lanciare novità tecnologiche sul mercato, subito dichiarate obsolete e soppiantate da altri gadgets. Il software già da “rottamare” perché non risponde più ai fermenti dei nuovi prodotti informatici. La sublimazione dei mezzi in fini produce la riduzione dello spessore di senso dell’esistenza, svuotando l’orizzonte umano di traguardi veramente edificanti da realizzare e facendo così avanzare le sabbie del nichilismo.

In quest’orizzonte di senso così svuotato di significati e di ideali, dove l’apparato risponde agli afflati bassamente spirituali delle masse con l’ideologia della Newage, si può solo diagnosticare la malattia senza avere la possibilità di indicare con sicurezza una cura efficace. Rimangono solo ipotesi su cui lavorare, “sentieri interrotti” da percorrere, per usare le parole di Heidegger, con la speranza di poter trovare un varco, una breccia, che ci consenta – se non di oltrepassare il nichilismo – di arrestarne, perlomeno per qualche istante, l’avanzata implacabile.

Uno dei possibili sentieri interrotti è lo studio della Tradizione, dei suoi archetipi simbolici. Non perché sia facile ritrovare magicamente il filo rosso di una sapienza ormai obliterata e sepolta nei secoli dall’impetuoso incedere della scienza moderna. Tuttavia, l’oblio della tradizione iniziatica non rende certo inutile la ricerca delle radici primordiali attraverso lo studio e la ricerca simbologica. La ricerca dovrebbe realizzarsi, a mio avviso, prendendo spunto dall’enorme rimando di significati che il simbolismo tradizionale possiede ed esercita sul Profondo. Gli archetipi possono indicare al ricercatore, viatici che non conducono immediatamente in Cielo, ma percorrono le immani stratificazioni dell’Immaginario Collettivo. Lo stesso Jung, ha indicato che alcuni archetipi – come ad esempio quelli alchemici – non sono altro che trasposizioni simboliche del lavoro introspettivo, che il ricercatore deve effettuare per arrivare ad una maggiore comprensione del mondo interiore.

I simboli della Tradizione possono, secondo l’insegnamento di Eliade, essere interpretati come ierofanie – ovvero manifestazioni del sacro – che la storia non può rimuovere, dal momento che quest’ultima può solo aggiungere ulteriori significati alle immagini arcaiche, senza però riuscire a distruggerne del tutto la struttura originaria. L’Occidente deve capire che la posta in gioco è la perdita della propria memoria, che lo scacco che la metafisica ha subito dal novecento ha irreversibilmente accelerato. È necessario quindi continuare ad interrogarsi, ma cambiando le domande. In questo senso, nel nuovo millennio, lo studio tradizionale può davvero occupare il posto lasciato vacante dalla metafisica per rilanciare la sfida con nuovi strumenti.

La necessità di riproporre l’interrogativo della verità deve diventare il nostro tentativo di cercare un qualche senso, in risposta all’assenza de facto di significati alternativi a quelli del feticismo della “velocità” e del mito modernista dell’“efficienza”. La riscoperta del pensiero c.d. “tradizionale” può contrapporsi all’assenza di fondazione dell’agire umano nel rumore dell’epoca postomoderna. Contrastare l’incipiente dissoluzione della spiritualità, sottratta al suo sostrato interiore e proiettata nell’esposizione dei sondaggi di mercato, neutralizzata nella pubblicità di un’immagine di successo. Il nuovo compito che attende gli esponenti del pensiero c.d. “tradizionale” agli albori del terzo millennio, è di fondare un Mondo che oltrepassi l’autoreferenzialità dell’orizzonte aperto dalla tecnica.

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Bibliografia essenziale

•  Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani

•  Adorno, Horkheimer, L’industria culturale in La dialettica dell’Illuminismo. Einaudi

•  Freud, Il disagio della civiltà, Bompiani

•  E. Zolla, Il dio nascosto, Einaudi

•  M.T. Torti, Abitare la notte, Costa & nolan

•  U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli

•  M. Eliade, Il sacro e il profano, Jaca Books

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