La dea Cibele, mito e complesso /3

Psicologia

Per ritornare all’elaborazione del complesso di Cibele, la stessa comportò una percorrenza concettuale estremamente perigliosa.

La dea Cibele, mito e complesso /3

di Mario Bulletti

Un ponte antropologico dalla preistoria ai nostri tempi. 

Sommario: 1. I presupposti della postanalisi – 2. Breve introduzione al metodo postanalitico – 3. Gli antefatti – 4. Analogie fra il caso A con quello dei vissuti freudiani – 5. L’esiodea Gaia e la frigia Cibele: due espressioni ambivalenti del mito della Grande Madre – 6. I seicento anni del culto di Cibele a Roma – 7. Il tempio romano del Pantheon e Cibele – 8. L’analogia distorta fra il mito di Cibele e la teologia del cristianesimo – 9. Cibele e la psicosi – 10. La Cibele dell’indagine post analitica – 11. Dal pacifico matriarcato monoteista all’aggressivo patriarcato politeista pagano – Appendice

10. La Cibele dell’indagine post analitica 

Per ritornare all’elaborazione del complesso di Cibele, la stessa comportò una percorrenza concettuale estremamente perigliosa. Innanzitutto ciò che emergeva nella pratica sperimentale della psicoterapia che agivo via via nel tempo, era il constatare la forte presenza di un mimetismo camaleontico messo in atto dalle madri cibeliche. Nel caso A, invece e fortunatamente per l’indagine psicologica, la madre si era espressa con un furore che potrebbe essere definito tipicamente leonino. L’effetto che ne derivava era quello di suscitare, proprio come nel carme di Catullo, il terrore nella figlia al fine di farla rimanere per tutta la vita accanto a sé. Nella maggior parte dei casi, come verrà a noi esplicitato durante l’esperienza professionale, la madre cibelica opererà, quasi sempre, usando le più sofisticate tecniche del mimetismo psicologico e dell’artefatto retorico. Un chiaro esempio ci viene dal caso della suocera di Sigmund Freud interpretato dal padre della psicoanalisi come un “raffinato capriccio”. Un capriccio che avrà come risultante il perenne ed ambiguo stato di nubilato della figlia Minna Bernays. Questa finalità, ossia quella di determinare un ambiguo stato di nubilato o di celibato, psicologico o fisico, nei figli anche sposati, verrà perseguita in vario modo da tutte le madri cibeliche. La figlia o il figlio rimarranno sempre legati, anche se fidanzati o sposati, in modo prioritario, al “baricentro” materno. I partners dei figli cibelizzati, ristretti nello statuto di prole, saranno sempre figure di secondo piano. Il centro affettivo primario rimarrà, perennemente per ognuno di loro, la madre. Un baricentro affettivo dichiarato apertamente e senza ombra di dubbio, oppure celato nel segreto più intimo e nascosto. La madre cibelica, dal canto suo, opera sempre con efficacia, seguendo modalità psicofisiche cruente o incruente. Nel caso A le modalità erano, sia sul piano psicologico che su quello fisico, manifestamente cruente. Al contrario dell’esplicitazione diretta vi è anche una modalità isterica, quella del controinvestimento, che si mimetizza attraverso un’apparente eccesso di tenerezza ed apprensione. Ci esemplifica a proposito Sigmund Freud: “L’isterica, per esempio, la quale tratta con eccessiva tenerezza i suoi bambini che in fondo odia, non diventa per ciò in generale più disposta ad amare di altre donne, e neppure più tenera nei confronti di altri bambini” [73]. Questa strategia perversa seguita dalla madre è tesa ad operare in modo indiretto, quella che in psicoanalisi viene definita come castrazione ma che in postanalisi viene definita, a nostro avviso più propriamente, come evirazione od infibulazione psicologica. Ambedue, sia l’evirazione od, alternativamente, l’infibulazione, sono chiaramente agite su di un esclusivo piano psicologico. 

I mezzi di intervento, per fissare la suddetta psicopatologia, sono però innumerevoli, mostrandosi come eterogenei od omogenei. Sono eterogenei esprimendosi come escursioni bipolari oscillanti tra la violenza fisica e quella psicologica. Inoltre, all’interno di uno stesso polo, si potrà rilevare una forma cruenta omogenea prevalente, come ad esempio quella delle percosse fisiche oppure quella dell’aggressività psicologica. In ogni caso tali condotte come accade nelle bipolarità perverse, come ad esempio quella del sadomasochismo, non saranno mai fissate su di un polo unico ma oscillanti in relazione al contesto spazio/temporale nel quale si verificano. Sul piano psicologico si riscontrerà, ad esempio, da parte della madre un atteggiamento di seduzione manifesta od un’eccessiva tenerezza, oppure un eccesso di apprensione o di preoccupazione per eventi negativi. Tali atteggiamenti sono veri e propri utensili psicologici usati come meri strumenti chirurgici per operare efficacemente quella raffinata evirazione od infibulazione psicologica agita sulla prole. I termini evirazione od infibulazione psicologica vengono usati perciò correntemente nella nomenclatura postanalitica, in conseguenza dei riscontri acquisiti grazie allo studio ed all’indagine casistica. 

Questa endiadi evirazione-infibulazione verrà agita, dalla madre cibelica, al fine di impedire al figlio o alla figlia di allontanarsi o di sfuggire dal suo baricentro o centro di gravità affettivo. Un centro di gravità delimitato da un confine invalicabile posto tutt’intorno ai figli. Un pericentro che è quindi sinonimo, in sé e per sé, di un ben definito recinto virtuale il cui confine psicologico non potrà mai essere varcato. Perciò tale pericentro diverrà il luogo dell’eterna prigionia. Un luogo che è, in sé e per sé, da una parte pseudorassicurante e dall’altra luogo dell’eterna angoscia. Di conseguenza ogni volta che il figlio o la figlia si allontaneranno da quel pericentro andranno incontro al panico, un panico che però si riaccenderà nel momento stesso in cui ritorneranno all’interno del pericentro gravitazionale dell’aggressivo affetto materno. Inoltre nella serie di automatismi che vengono attivati c’è sempre, alla base, quel reduplicare il traumatismo iniziale dell’evirazione-infibulazione. 

In realtà la madre cibelica non è altro che una donna che da bambina, durante la fase preedipica, ha subito l’infibulazione psicologica da parte della madre. Una madre che non le ha permesso in modo sostanziale di superare la fase preedipica. Per tal motivo si può affermare che ogni madre cibelica è stata da bambina imprigionata nella fase preedipica. In pratica, l’infibulazione subita si reduplicherà in una serie infinita di concatenazioni che risalgono all’indietro nel tempo di figlia in madre, fino al passato più remoto del matriarcato androcratico. 

La dinamica attraverso la quale viene trasmessa questa concatenazione si attiva durante la fase preedipica della bambina come un vero e proprio “imprinting”. Un processo, quello dell’imprinting, che secondo l’etologo H. Thomae è da considerare: “[…] come un caso di apprendimento naturale involontario, in cui il primo fatto da prendere in considerazione sarebbe non tanto l’unione di determinati contenuti di conoscenza in una precisa struttura comportamentale, bensì la fissazione del comportamento in determinati schemi” [74]. Quindi la fissazione del comportamento in determinati schemi finalizzati all’evirazione, si inscriverà in modo indelebile, nella personalità di base di ogni figlio della madre cibelica. Tale dinamica persisterà, per poi reduplicarsi, di madre in figlia, interessando collateralmente anche il figlio di sesso maschile. Di fatto evirazione ed infibulazione psicologica saranno prima subite durante la fase edipica e poi reduplicate, durante la fase della vita sessuale matura, sulla prole. La figlia o, più precisamente, la donna divenuta madre sarà quindi chiaramente, il tramite privilegiato e lineare del processo di evirazione cibelica. 

Un processo di evirazione che, sotto il profilo filogenetico della partenogenesi, ci rimanda, ancora una volta, alla riproduzione asessuata dei protozoi. Un processo di riproduzione, quello protozoico, che si attiva per autoscissione in assenza del maschio. Un’assenza metaforicamente presente nel concepimento senza piacere della donna infibulata psicologicamente dalla madre cibelica. Un’assenza di piacere, e quindi di esclusione del maschio, che ci riporta paradossalmente alla metafora della riproduzione asessuata. Il maschio infatti, nella proiezione partenogenetica cibelica, sarà sempre precluso o reietto, sia in modo esplicito che implicito. Per attualizzare tale esclusione, sul piano dell’ambivalenza psicofisica, verranno utilizzati tutti gli artefatti che permetteranno la messa in atto del rimando partenogenetico attivato nella strategia cibelica. 

Nel complesso di Cibele è chiaro che vi sia un controinvestimento affettivo, a carattere nevrotico che si propone, di riflesso, anche sul piano perverso e schizoideo della partenogenesi. Questa prassi perversa è chiaramente descritta dalla psicoanalista Louise J. Kaplan: “Incentrando la propria vita sul figlio e i suoi desideri infantili, la madre bloccherà lo sviluppo sessuale e morale del bambino. Inoltre, concentrando i propri desideri erotici sul figlio, presto o tardi la madre finirà per rivendicare la propria menomata esistenza tormentando il figlio” [75]. La psicoanalista americana con la sua perifrasi concettuale, contenente l’indicazione attiva dell’“incentrare” e del “concentrare” psicopatologico, ripropone l’indicazione di quel luogo che è stato da noi indicato come pericentro affettivo invalicabile. In tale pericentro, vera e propria prigione psicologica o recinto coercitivo, il figlio sarà tormentato dalla madre. Parimenti anche la figlia subirà lo stesso tormento divenendo però il tramite attraverso il quale sarà reduplicato sulla prole l’imprinting cibelico subito. 

Perciò in “automatico” si assisterà al reduplicarsi dei processi dell’inglobare e del circuire la prole, alla quale sarà impedita la normale crescita psicologica ed il fisiologico sviluppo dell’autonomia. All’attività perversa dell’inglobare e del circuire farà da eco il sintomo principale e più conclamato dell’isteria: quello, paradossalmente più mimetizzato, dell’odio. Scriverà al proposito Sigmund Freud: “è molto più difficile dimostrare il controinvestimento nell’isteria, dove pure, in base alle aspettative teoriche, esso è altrettanto indispensabile. Anche qui non si può non riconoscere una certa alterazione dell’Io determinata da formazioni reattive, e anzi in alcune circostanze questo fenomeno è talmente vistoso da imporsi all’attenzione come sintomo principale della malattia. In tale maniera viene risolto, per esempio, il conflitto di ambivalenza nell’isteria: l’odio contro una persona amata viene tenuto a bada con un eccesso di tenerezza e di apprensione per essa. Va notato, tuttavia, che a differenza della nevrosi ossessiva queste formazioni reattive non mostrano la natura generale dei tratti di carattere, rimanendo confinate ad alcuni particolari tipi di reazioni” [76]. 

Questa itinerazione concettuale si riferisce chiaramente al rapporto di odio nascosto che ha ogni madre isterica con i propri figli. Un odio ben presente, anche se ben camuffato, nella madre Cibele che induce e quindi provoca l’evirazione del figlio Attis. Di fatto è proprio nel complesso di Cibele che possiamo rilevare la radice più nascosta dell’odio. Un odio mimetizzato nel suo contrario più impensabile; quello dell’eccesso di tenerezza e di apprensione verso la prole. Un odio al contrario inesistente nell’iconografia e nel culto della Mater Dei cristiana il cui amore per il Figlio divenne il simbolo più emblematico del cristianesimo. Un amore che distingueva anche la Grande Dea del matriarcato pacifico primigenio, che si contrappose invano all’odio cibelico della Mater deum pagana. Una dea, vera e propria icona diabolica, che perseguiterà perversamente, grazie al suo persistere nell’inconscio collettivo, tutta l’umanità fino ad oggi. Se si considera che in ogni donna si situa il centro psico-fisico e spazio/temporale del concepimento di ogni essere umano, possiamo renderci conto dei danni che può provocare il complesso di Cibele nel delinearsi bio-sociale dell’umanità. Un danno che inizia con la nostra ontogenesi più remota ossia quella della vita fetale e che fissa la nostra personalità di base durante la fase preedipica per poi reduplicarsi in aeternum di madre in figlia. Pertanto il complesso di Cibele, della cui scoperta la postanalisi si fa vanto, diviene la chiave di lettura di innumerevoli psicopatologie che ogni occhio attento può intravedere ed ora, dopo la concettualizzazione postanalitica, evidenziare con chiarezza. 

__________ 

73. S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, Inibizione, sintomo e angoscia (1925), Capitolo 11. Aggiunte, A. Modificazione di vedute già esposte, vol. X, p. 304. (torna al testo)

74. H. Thomae, Entwicklungspsychologie in Handbuch der Psychologie 3, C.J.Hogrefe, Göttingen, 1954 , p. 242. (torna al testo)

75. L. J. Kaplan, Perversioni femminili, CDE, Milano, 1992, p. 226. (torna al testo)

76. S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, Inibizione, sintomo e angoscia (1925), Capitolo 11. Aggiunte, A. Modificazione di vedute già esposte, vol. X, p. 304. (torna al testo)
__________ 

11. Dal pacifico matriarcato monoteista all’aggressivo patriarcato politeista pagano 

Il parallelismo fra la nostra ontogenesi psicologica con la filogenesi culturale della società occidentale si presenta oltremodo singolare. La conflittualità emblematizzata della matriarca Cibele, non esisteva nel periodo del matriarcato monoteista preistorico. La cronologia dell’avvento della violenza nel regno cultuale e culturale della Grande Dea ci viene presentata in tutta la sua precisa definizione dalla più illustre paleoantropologa del ventesimo secolo, Marija Gimbutas [77]: “Mentre le culture europee trascorrevano un’esistenza pacifica e raggiungevano una fioritura artistica e architettonica altamente sofisticate nel V millennio a.C., una cultura neolitica assai diversa, in cui si addomesticava il cavallo e si producevano armi letali, emergeva nel bacino del Volga, nella Russia meridionale, e dopo la metà del V millennio, perfino a ovest del Mar Nero. Questa nuova forza, inevitabilmente, cambiò il corso della preistoria europea. Io la chiamo la cultura “Kurgan” (In russo “Kurgan” significa tumulo), poiché i morti venivano sepolti in tumuli circolari che coprivano gli edifici funebri dei personaggi importanti. Le caratteristiche fondamentali della cultura Kurgan, che risalgono al VII e VI millennio a.C. nell’alto e medio bacino del Volga sono il: patriarcato; patrilinearità; agricoltura su scala ridotta e allevamento di animali, compreso l’addomesticamento del cavallo a partire dal VI millennio; posizione preminente del cavallo nel culto; e, di grande rilievo, fabbricazione delle armi quali l’arco e la freccia, la lancia e la daga. Elementi distintivi, tutti che si accordano con quanto è stato ricostruito come fenomeno proto-indoeuropeo dagli studi linguistici e di mitologia comparata e che si oppongono alla cultura gilanica [detta anche della partnership, in cui si realizzi una fattiva collaborazione tra uomini e donne sia nella sfera privata che in quella pubblica, n.d.r.], pacifica, sedentaria dell’antica Europa, caratterizzata da un’agricoltura altamente sviluppata e dalle grandi tradizioni architettoniche, scultoree e ceramiche. 

Così i ripetuti tumulti e le incursioni dei Kurgan (che considero proto-indoeuropei) misero fine all’antica cultura europea all’incirca tra il 4300 e il 2800 a.C., trasformandola da gilanica in androcratica e da matrilineare in patrilineare. Le regioni dell’Egeo e del Mediterraneo e l’Europa Occidentale si sottrassero più a lungo al processo; in isole come Thera, Creta, Malta e Sardegna l’antica cultura fiorì dando luogo a una civiltà creativa e invidiabilmente pacifica fino al 1500 a.C., mille-millecinquecento anni dopo la completa trasformazione dell’Europa centrale. Nondimeno, la religione della Dea e i suoi simboli sopravvissero, come una corrente sotterranea, in molte aree geografiche. In realtà molti di questi simboli sono ancora presenti come immagini della nostra arte e letteratura, motivi di grande suggestione nei nostri miti e negli archetipi dei nostri sogni. 

Viviamo ancora sotto il dominio di quella aggressiva invasione maschile e abbiamo appena cominciato a scoprire la nostra lunga alienazione dall’autentica eredità europea: una cultura gilanica, non violenta, incentrata sulla terra” [78]. 

Oltre all’altissimo livello di civiltà espresso nel periodo del matriarcato pacifico della Grande Dea, l’assenza di guerre, e quindi di odio fra collettività differenti, all’interno di questa società pacifica, ci viene comprovata anche dall’illustre genetista Luca Cavalli-Sforza dell’Università Californiana di Stenford: “Abbiamo detto che mesolitici e neolitici prosperavano in due ambienti diversi: agli uni serviva la foresta, agli altri terreno favorevole all’agricoltura, che si può ricavare da certi tipi di foresta abbattendone gli alberi. All’estrema periferia dell’espansione, per esempio in Spagna e Danimarca, alcuni mesolitici sopravvissero a lungo accanto ai primi neolitici, forse perché erano di costumi abbastanza avanzati da non temere il confronto. Vi furono certamente numerosi contatti fra gli uni e gli altri, ma non ci sono tracce sicure di conflitti. Gli agricoltori vivevano di solito in villaggi e in case singole senza protezioni speciali, con palizzate tutt’al più utili per trattenervi il bestiame. Solo millenni più tardi, e soprattutto all’epoca dei metalli, compaiono chiare postazioni difensive” [79]. Alla pacifica cultura matriarcale faceva da eco un culto matriarcale ben specifico, quello della Grande Dea. Una Grande Dea benefica che nella sua essenza positiva era esattamente l’opposto contrario della Grande Madre del politeismo androcratico pagano. Quindi, sotto il profilo storico, il rovesciamento della pacifica cultura matriarcale fu determinato dall’aggressiva invasione dei Kurgan che ribaltò la stabilità della più longeva società umana. Una società caratterizzata da un’armonica uniformità culturale, quella del pacifico matriarcato. Di conseguenza i Kurgan furono la causa del rovesciamento cruento che colpì in primo, fin nel più profondo, ogni donna e in secondo l’organizzazione sociale centrata sul pacifico matriarcato. È proprio da quel cruento traumatismo che ebbe inizio, per controreazione, e poi per stabilizzazione, la psicopatologia cibelica. Una psicopatologia che si reduplicherà per via matrilineare di madre in figlia, interessando collateralmente anche i figli di sesso maschile. 

L’evidenza che si presenta è che il matriarcato pacifico reduplicava la sua filosofia pacifica, mentre il matriarcato traumatizzato dai Kurgan reduplicava la filosofia aggressiva degli stessi. Una reduplicazione che si manifesta ancora oggi in tutta la sua virulenza sia nel confronto cruento fra società che nei confronti della natura. Questa psicopatologia dell’aggressione è giunta fino a noi, per traslazione di madre in figlia, esprimendo tutto il suo potenziale terrificante. Un potenziale che interessa ogni conflittualità intrapsichica relativa ad ogni individuo. Un potenziale che si attiva fra individuo e individuo, fra classe sociale e classe sociale, fra collettività differenti, fra popoli diversi ed infine, non per ultimo, fra essere umano e natura. Questo potenziale diabolico nel senso più letterale della parola o della divisione o del contrasto aggressivo è giunto fino a noi a partire dall’invasione dei Kurgan. Ognuno di noi ne subisce, incontestabilmente, le conseguenze o in riverbero, della stessa. 

È indubbio che, quanto detto, ha la sua rappresentazione simbolica nella Grande Madre, presente all’interno della cultura greco-romana nel binomio Gaia-Cibele. Alla presenza di queste due matriarche, solo per qualche millennio, si contrappone l’inimmaginabile longevità della Grande Dea primigenia. Una presenza documentata a partire dal 500.000 a.C. Grazie a questa datazione possiamo affermare che essa ha superato la barriera del tempo nella quale si sono sviluppate tre differenti specie umane. Quella dell’homo antecessor [80], dell’homo sapiens e dell’homo sapiens-sapiens, a cui noi apparteniamo. Per ciò che riguarda il reperto archeologico che dimostra innegabilmente l’età della Grande Dea esso è costituito da una icona che ci viene descritta dalla paleoantropologa Marija Gimbutas: “Una pietra triangolare come simbolo della Dea o del suo potere rigeneratore risale forse al paleolitico inferiore. Formati naturalmente o tagliati ad hoc, i triangoli in selce, alcuni con i seni o la testa abbozzata al vertice del triangolo, si incontrano nei depositi Acheuleani/Heidelberghiani dell’Europa occidentale. Questa figura triangolare del paleolitico inferiore, in selce staccata dal nodulo, è dotata di seni e reca le tracce dei colpi inferti per modellare la testa, i seni, la vulva. Le sporgenze naturali sono state scheggiate per formare i seni. La statuetta può reggersi su una superficie piatta. Ritenuta Heidelberghiana; datata, sulla base dell’associazione con utensili, probabilmente intorno al 500.000 a.C.” [81]. 

Quindi il culto della dea Cibele fa da ponte, anche se cronologicamente di piccola entità, fra la cultualità preistorica più arcaica con quella odierna della cattolica Mater Dei. Un ponte che unisce attraverso l’uniformità di genere tre differenti icone femminili ben diverse fra di loro. Un ponte sostenuto dalle analogie con la Grande Dea paleolitica, da una parte, e con quelle relative alla nostra cultualità mariana, dall’altra. Cibele però rappresenta la parte più psicopatologica e nascosta o “rimossa” della nostra cultura. È, nel contempo, l’icona più rappresentativa della sofferenza femminile. È proprio su tale realtà e sull’indagine psicologica, operata sulla stessa, dalla postanalisi che si è definito il complesso di Cibele. Rimarcando ancora, è proprio sulla psicogenesi cibelica che viene iterata ed amplificata tutta la nostra ricerca in modo ampio e dettagliato. Una ricerca che ci permette di affermare che ogni violenza subita dalla donna ha un riflesso negativo diretto ed immediato, così esteso e profondo, in ogni società e cultura, da superare qualunque immaginazione. 

La scoperta del complesso di Cibele è stata definita come rivoluzionaria nel campo della psicologia dinamica e dell’antropologia sociale. Apre un nuovo campo di ricerca e di analisi riguardando nel contempo individuo e società del mondo attuale. Costituisce un presupposto ben visibile, una volta identificato, ma che fino ad oggi è rimasto celato all’interno del rimosso più tenace di ogni individuo e collettività. Lo studio del complesso di Cibele si rivela come la ricerca più efficacie tesa a migliorare e difendere lo status femminile della donna, della sua funzione materna, e di riflesso dell’umanità intera. La postanalisi, da sempre, propone, già prima di ogni altro, la parità delle quote rosa in ogni Parlamento e in tutte le istituzioni di ogni Stato, e la perfetta equiparazione dei diritti fra donna ed uomo, tenendo, giustamente, conto delle differenze psicofisiche esistenti. La ricerca postanalitica vuol rendere, in sé e per sé, un tangibile omaggio ad ogni donna ed ad ogni madre, nel cui ventre fertile ogni essere umano viene concepito, nutrito e conformato, per poi essere partorito alla luce della vita. Un omaggio che però vuol rimettere in discussione anche il ruolo fondamentale di ogni uomo e di ogni padre, non più escluso o forcluso dall’amore della propria donna. 

__________ 

77. M. Gimbutas (1921-1994): già docente di Archeologia dell’Europa orientale-Harvard University e di Archeologia europea – università della California Los Angeles. (torna al testo)

78. M. Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Longanesi, Milano, 1990, Introduzione, XX-XXI. (torna al testo)

79. L. & F. Cavalli-Sforza, Chi siamo, Mondadori, Milano, 1995, p. 221. (torna al testo)

80. G. Manzi, Argil, l’antenato d’Europa, in “Le Scienze”, 428/Aprile 2004, p. 53. “Si candida come rappresentante dell’umanità che diede origine alla divergenza evolutiva tra le linee del Neanderthal e di Homo sapiens”. (torna al testo)

81. M. Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Longanesi, Milano, 1990, La vulva rigeneratrice: triangolo, clessidra e zampe di uccello, p. 237, vedi fig. n°369. (torna al testo)
__________ 

Appendice 

G. Valeri Catulli,  Carmina, LXIII, 
Super alta vectus Attis celeri rate maria.
G. Valerio Catullo,  Poesie, LXIII, 
Super alta vectus Attis celeri rate maria. 
Traduzione a cura di G. Chiarini, Frassinelli Editore, Milano, 2001.
Super alta vectus Attis celeri rate maria Phrygium ut nemus citato cupide pede tetigit adiitque opaca silvis redimita loca deae, stimulatus ibi furenti rabie, vagus animis, devolsit ilei acuto sibi pondera silice. Itaque ut relicta sensit sibi membra sine viro, etiam recente terrae sola sanguine maculans niveis citata cepit manibus leve typanum, typanum toum, Cybelle, tua, mater, initia, quatiensque terga taurei teneris cava digitis canere haec suis adortast tremebonda comitibus. «agite ite ad alta, Gallae, Cybeles nemora simul, simul ite, Dindymenae dominae vaga pecora, aliena quae petentes velut exules loca sectam meam executae duce me mihi comites rapidum salum tulistis truculentaque pelagi et corpus evirastis Veneris nimio odio, hilarate erae citatis erroribus animun. mora tarda mente cedat: siml ite, sequimini Phrygiam ad domun Cybelles, Phrygia ad nemora deae, ubi cymbalum sonat vox, ubi tympana reboant, tibicen ubi canit Phryx curvo grave calamo, ubi capita Maenades vi iaciunt ederigerae, ubi sacra sancta acutis ululatibus agitant, ubi suevit illa divae volitare vaga cohors: quo nos decet citatis celerare tripudiis» Simul haec comitibus Attis cecinit notha mulier, thiasus repente linguis trepidantibus ululant, leve tympanum remugit, cava cymbala recrepant, viridem citus adit Idam properante pede chorus. furibunda simul anhelans vaga vadit, animan agens, comitata tympano Attis per opaca nemora dux, veluti iuvenca vitans onus indomita iugi: rapidae ducem sequntur Gallae properipedem. itaque ut domun Cybelles tetigere lassulae, nimio e labore somnum capiunt sine Cerere. piger his labante langore oculos sa por operit: abit in quiete molli rabidus furor animi. sed ubi oris aurei Sol radiantibus oculis lustravit aethera album, sola, dura, mare ferum, pepulitque noctis umbras vegetis sonipedibus, ibi Somnus excitum Attin fugiens citus abiit: trepidante eum recepit dea Pasithea sinu. ita de quiete molli rapida sine rabie simul ipsa pectore Attis sua facta recoluit, liquidaque mente vidit sine queis ubique foret, animo aestuante rusum reditum ad vada tetulit. ibi maria vasta visens lacrimantibus oculis, patriam allocuta maestast ita voce miseriter. «Patria o mei creatrix, patria o mea genetrix, ego quam miser relinquens, dominos, ut erifugae famuli solent, ad idea tetuli nemora pedem, ut aput nivem et ferarum gelida stabula forem et earum omnia adirem furibunda latibula: ubinam aut quibus locis te positam, patria, reor? Cupit ipsa pupula ad te sibi dirigere aciem rabie fera carens dum breve tempus animus est. Egone a mea remota haec ferar in nemora domo? Patria, bonis, amicis, genitoribus, abero? Abero foro, palestra, stadio et guminasiis? miser a miser, querentumst etiam atque etiam,anime. Quod enim genus figuraest, ego non quod obierim? Ego mulier ego adolescenz, ego epebhus, ego puer, Ego gymnasi fui flos, ego eram decus olei: mihi ianuae frequentes, mihi limina tepida, mihi floridis corollis redimita domus erat, linquendum ubi essert orto mihi sole cubiculum. Ego nunc deum ministra et Cybeles famula ferar? ego Maenas, ego mei pers, ego vir sterilis ero? Ego viridis algida Idae nive amicta loca colam? ego vitam agam sub altis Phrygiae columinibus, ubi cerva sivicultrix, ubi aper nemorivagus? Iam iam dolet quod egi iam iamque paenitet» Roseis ut huic labellis sonitus «citus» abiit, Geminas deorum ad aures nova nuntia referens Ibi iuncta iuga resolvens Cybele leonibus Laevemque pecoris hostem stimulas ita loquitur «agedum» inquit «age ferox[i] fac ut hunc furor [agitet] Fac uti furoris ictu reditum in nemora ferat, mea libere nimis qui fugere imperia cupit. Age caede terga cauda, tua verbera patere, fac cuncta mugienti fremitu loca retonent, rutilam ferox torosa cervice quate iubam» ait haec minax Cybelle religatque iuga manu. Ferus ipse sese adhortans rapidum incitat animo, vadit, fremit, refringit virgulta pede vago. At ubi umida albicantis loca litoris adiit, tenerumque vidit Attin prope marmora pelagi, facit impetum: ille demens fugit in nemora fera: ibi semper omne vitae spatium famula fuit. Dea magna, dea Cybelle, dea domina Dindymei, procul a mea tuos sit furor omnis, era, domo: alios age incitatos, alios age rabidos.Quando, varcati su celere nave i mari profondi, Attis posò avidamente il piede impaziente nel bosco troiano ed entrò nel folto, nel regno della dea recinto di selve, qui, di furente rabbia ferito e la mente ondeggiante, con selce affilata recise il peso del sesso. Così, sentendo le membra svuotate del nerbo virile, macchiando di sangue ancor fresco il suolo del luogo, con candida mano prese, invasata, il tamburo leggero, il tuo tamburo, Cibele, delle tue iniziazioni, oh madre, e battendo con tenere dita la cava pelle di toro, così prese a cantare fremendo con le compagne: «Su, andate, oh Galle, alle fonde selve sacre a Cibele, andate, mandrie erranti della Signora del Dindimo, voi che, cercando come esuli luoghi remoti, la mia fede seguiste, compagne e ancelle ubbidienti, acque vorticose sfidando e mari in tempesta, e il corpo eviraste in odio a Venere, smisurato: al cuor della dea date gioia con corse sfrenate. Via ogni indugio dal cuore: andate tutte, seguitemi alla frigia dimora di Cibele, ai frigi boschi della dea, dove dei cembali la voce risuona, dove rombano i tamburi, dove suona il frigio flautista note gravi con canna ricurva, dove le Menadi squassano il capo d’edera incoronato, dove le sacre orge compiono con alti ululati, dove la schiera errante della dea ama andar volteggiando: là è bello affrettarci con danze impetuose». Com’ebbe così cantato alle amiche, Attis, donna incompiuta, subito il tiaso ulula con lingua convulsa, muggisce il tamburo leggero, tinniscono i cembali cavi, veloce il coro si lancia verso l’Ida frondoso con piede impaziente. Folle anelante errabonda va Attis, tutta affannata, le compagne col tamburo guidando per opaca foresta, come giovenca non doma che rifugge dal peso del giogo: rapide le Galle seguon la guida dal piede affrettato; e quando di Cibele la casa raggiungono estenuate, per troppa fatica son vinte dal sonno e non toccano pane. Un pigro sopore suggella i lor occhi con esitante languore. Il rapinoso furore si volge in placida quiete. Ma come il Sole dal volto dorato con occhi raggianti chiarì l’albido cielo, la terra ferma, il mare selvaggio, e scacciò le ombre notturne con gli zoccoli sonanti dei vivaci destrieri, allora il Sonno fuggì veloce da Attis svegliata: nel palpitante suo seno lo accolse Pasitea divina. E come Attis dalla morbida pace senza focoso furore riandò nel suo cuore a quanto le era accaduto, e con lucida mente vide di cosa e dove fosse privata, con animo in tumulto di nuovo al mare fece ritorno. Lì, contemplando le vaste distese con occhi piangenti, così mesta parlò alla patria con voce mesta: «Patria oh mia creatrice, patria oh mia genitrice, che io infelice, lasciando come lasciano i padroni i servi fuggiaschi, alle selve dell’Ida mossi il piede per trovarmi in mezzo alla neve e alle gelide tane di fiere e cacciarmi in preda al furore nei lor nascondigli: dove, in che luogo suppongo tu sia, oh mia patria? Da se la pupilla rivolge bramosa lo sguardo in cerca di te, nel breve intervallo in cui sgombra è la mente di rabbia. Dovrò dunque aggirarmi in queste selve remote da casa? Dovrò rinunciare alla patria, ai beni, agli amici, ai genitori? o rinunciare al foro, alla lotta, allo stadio, alla palestra? Infelice oh infelice, piangi ancora e ancora, anima mia. Quale aspetto, qual forma non ho io già assunto? Io son donna, io son stato ragazzo, io giovane e bimbo, io fior degli atleti, io ornamento dei giochi: per me le porte si aprivano, le soglie s’empivano d’ammiratori, la casa già tutta era piena di corone fiorite quando lasciavo, col primo sole, il giaciglio. Sono io adesso invece ministra di dei e schiava di Cibele? Io Menade, io parte di me, io uomo che non può generare? Io abiterò le fredde cime nevose del verde Ida? Io vivrò alle falde delle alte vette di Frigia, regno della cerva silvestre, del cinghiale di macchia? Di ciò che ho fatto adesso mi duole, si adesso mi pento». Come tali suoni uscirono dalle labbra rosate, alle orecchie degli dei portando l’annuncio inatteso, lesta Cibele disciolse i leoni aggiogati e pungolando la belva di sinistra così parla: «Su, forza, va’ con ferocia, riempilo di follia, fa’ che follia lo colga e rientri nei boschi, lui che, libero oltre misura, vorrebbe sfuggire al mio imperio. Su, con la coda flagellati i fianchi, battila fino al dolore, fa’ che tutti i luoghi riecheggino del tuo fremente ruggito, scuoti spietato la rossa criniera». Così minaccia Cibele e libera il giogo. La belva s’esorta incitando il cuore selvaggio, va, ruggisce, svelle i cespugli aggirandosi in caccia. Ma come giunge alle umide piagge del lido lucente, e gli appare la tenera Attis presso i flutti spumosi, la assale. Quella fuggì dal terrore nel bosco selvaggio: e lì per tutta la vita fu ancella della dea. Dea grande, dea Cibele, dea signora del Dindimo, lontano dalla mia casa stia, oh dea, il tuo furore: altri spingi ai tuoi riti, altri rendi invasati.» 
torna su