Derrida e l’essenza della «verità-donna»

Dialoghi FilosoficiA differenza di altri filosofi francesi, Jacques Derrida è stato influenzato più da Heidegger che da Nietzsche. Derrida ha posto le basi della sua analisi decostruzionista prendendo spunto dalle rocciose meditazioni heideggeriane, reinterpretando il referente ontologico stesso del pensiero del filosofo tedesco: l’essere.
Il nucleo centrale della decostruzione derridiana si fonda sull’idea che al centro del progetto di oltrepassamento della metafisica deve essere pensata una radicale Differenza.

Derrida e l’essenza della «verità-donna»

di Antonio D’Alonzo

A differenza di altri filosofi francesi, Jacques Derrida è stato influenzato più da Heidegger che da Nietzsche. Derrida ha posto le basi della sua analisi decostruzionista prendendo spunto dalle rocciose meditazioni heideggeriane, reinterpretando il referente ontologico stesso del pensiero del filosofo tedesco: l’essere.

Il nucleo centrale della decostruzione derridiana si fonda sull’idea che al centro del progetto di oltrepassamento della metafisica deve essere pensata una radicale Differenza. È una Differenza (non-)originaria che struttura il reale. Heidegger, secondo Derrida, ha avuto il merito di pensare per la prima volta l’essere non come mera ipostasi, ma proprio perchè il suo pensiero rimane comunque all’interno della metafisica, non è riuscito ad essere radicale fino in fondo e a vedere la causa prima come originariamente scissa in sé. In questa prospettiva, Derrida – dopo aver fatto proprie le categorie ermeneutiche del pensiero heideggeriano – utilizza in chiave antimetafisica, il pensiero di Nietzsche contro Heidegger.

Anche per Derrida, Nietzsche è un pensatore della differenza. Nietzsche non postula, al contrario di Heidegger, un’identità originaria – l’essere – al centro e all’inizio della storia occidentale. La genealogia nietzscheana è viceversa proprio un tentativo di pensare la storia non come processo lineare, in cui qualcosa di prestabilito arriva – prima o poi – a dispiegare la propria essenza. La genealogia pensa la storia come risultato di una conflittualità infinita di forze, il cui esito finale non è mai dato, non è mai sicuro, è sempre aperto ad ogni possibilità. La storia, per Nietzsche, è segnata da regressioni, punti di allontanamento, slanci iniziali che si esauriscono, momenti di stasi. È segnata dal caos e dall’incertezza. Secondo Derrida, la genealogia nietzscheana pensa la storia come sviluppo discontinuo di possibilità, aperta alla Differenza. Nietzsche è un pensatore della Differenza anche nel modo di scrivere, nello stile.

Derrida si propone nel suo Éperons. Le styles de Nietzsche, di analizzare alcuni aforismi della Gaia Scienza e di Al di là del bene e del male, dove il filosofo tedesco analizza il problema della donna e della verità. Nella Gaia Scienza l’attenzione di Derrida si fissa sul passo in cui Nietzsche si occupa sul potere e sull’effetto a distanza delle donne. La forza di seduzione femminile risiede nella capacità di sottrarsi al desiderio altrui, nel potere dello scarto, di questa iato tra il desiderante e l’oggetto anelato. Il misogino Nietzsche, sembra ammonire che questa distanza – la distanza del desiderio – non solo è inevitabile, ma è anche auspicabile. Bisogna tenersi comunque a distanza, da ciò che si sottrae. Secondo Derrida, nel corpus nietzscheano, l’allegoria della donna simboleggia la distanza sé.

«La distanza si distanzia, il lontano s’allontana» (Cfr. Sproni , Adelphi, Milano, p. 50).

Se si trattasse di un semplice allontanamento da una distanza originaria – quasi uno scarto fenomenologico da un motore immoto – la Differenza sarebbe riducibile dialetticamente ad un qualsiasi sistema identitario. Si resterebbe all’interno della metafisica, che pur si vuole oltrepassare. Derrida supera la possibilità di correre questo rischio, postulando un allontanamento che si allontana da un lontano, un a(l)-lontanamento irriducibile a se stesso che diventa così scarto di uno scarto.

Derrida preferisce trasporre questa «essenza» della verità – sarebbe più corretto parlare di «non essenza» – nella allegoria della «donna». La donna nella esplicazione del suo giuoco erotico è, infatti, colei che nel darsi progressivamente alle brame altrui, si allontana. La donna fa un passo in avanti e due indietro. Il suo potere seduttivo sta proprio in quest’incoerenza, in questa eterna indecisione su se stessa e sugli altri. Ecco perchè, per Derrida e per Nietzsche, la verità è donna, o meglio ancora, la donna è la verità. Ella è verità, proprio perchè è nella sua natura di essere una non-verità, una Differenza «originaria». Il filosofo dogmatico che crede alla unicità della verità è, per Nietzsche e Derrida, uno che non capisce nulla di donne, un credulone. La donna stessa è la prima a non credere in sé, a non credere alla possibilità che il suo essere femminile racchiuda una verità essenziale:

«Ed essa è donna in quanto, per quel che la concerne, non crede alla verità, non crede, cioè a quello che essa è e a quello che si crede che sia: e cioè che non è» (Ivi, p.52 ).

Dunque, questa donna che non crede a se stessa, alla sua essenza, è, tuttavia, la verità. La «presa» ipostatica di qualunque dogmatismo viene elusa, da questo essere femmineo che in se stesso si rivela sempre come scarto e iato irriducibile. Non si tratta, tuttavia, di pensare alla maniera di Heidegger questa verità come dis-velamento: essa non ha un’essenza celata e riparata dagli sguardi profani. Questa verità, per Derrida, in sé non esiste, non è un’essenza. Ciò di cui, in fondo, per Derrida si tratta, riguarda soltanto l’«operazione» femmina:

«Essa (si) scrive. Lo stile spetta a lei. […] se lo stile fosse […] l’uomo, la scrittura sarebbe la donna» (ivi, p. 56).

Derrida trova la maniera di rovesciare la concezione del «velo di Maya» che Schopenhauer ha tratto dalla lettura delle Upanishad. In questo testo fondamentale del pensiero indiano le cose del mondo quotidiano si rivelano apparenti. La verità si nasconde piuttosto oltre il velo del divenire. Per Derrida, al contrario, il «dentro» – la «verità» – coincide integralmente con il «fuori», con la superficie, e se solleviamo il fatidico velo ci accorgiamo che essa non esiste. Il velo che cade non disvela la verità, come è sempre stato teorizzato dalla metafisica (con l’eccezione del buddhismo mahayana e del taoismo). Oltre il velo, la nozione stessa di verità si dilegua: il velo che cade è, in fondo, un voile/tombe. Per questo l’ontologia che pretende di catturare la verità nella presa del possesso è sempre una ricaduta nella castrazione della metafisica della presenza.

Derrida chiama «fallogocentrismo» l’atteggiamento di prevaricazione metafisica della voce che porta la verità alla presenza nella coscienza, e – ispirandosi allo stadio fallico freudiano – ne violenta l’alterità dell’assenza. La metafisica – che coincide con le strutture socio – culturali da rovesciare – è essenzialmente fallogocentrica, perchè, in essa, la ricerca della verità non predilige un effettivo contatto con l’Altro, rispettandone l’irriducibile eterogeneità. La metafisica si preoccupa primariamente di riportare la Differenza al gioco identitario: va incontro all’Altro, ma solo per violentarlo, annientarlo, manipolandone la peculiarità sotto il giogo dell’Io. Proprio come avviene nella sessualità fallica dove il piacere è esclusivamente limitato a finalità narcisistiche, nella totale noncuranza delle aspettative dell’Altro, del partner. Nella sessualità fallica, la libido è localizzata unicamente sul fallo e volta ad una rapida eiaculazione. Il vero contatto etero-erotico con l’Altro, però non può prescindere da un coinvolgimento totale, che impegna integralmente tutti e cinque i sensi. Questo vuol dire rispettare, conoscere veramente e non parzialmente, l’Altro.

Derrida riporta questo concetto sul piano del pensiero. Si tratta allora di ricercare un approccio metodologico che decostruisca questo schema metafisico e faccia finalmente apparire lo spazio dell’assenza che si articola all’interno delle false e presupposte essenze. Derrida con la sua decostruzione si propone, attraverso un’attenta e raffinata esegesi testuale, di destrutturare le opere fondamentali della metafisica occidentale, per mostrare come l’istanza identitaria non è originale, ma nasce da un preciso atto di rimozione nel testo. L’autore è sempre inconsciamente “consapevole” della Differenza primordiale, ma ad un certo punto dello sviluppo testuale, con un preciso e curioso atto arbitrario, la rimuove e colloca al suo posto l’identità, cioè la presenza di qualcosa che in realtà è assente. In questo senso diventa essenziale la priorità paradigmatica della scrittura sulla voce, in quanto la prima, che è sempre stata tradizionalmente considerata come una semplice appendice della seconda, assicura – attraverso l’analisi testuale – la liberazione del gioco del rimosso, ovvero della Differenza.

Derrida arriva a queste conclusioni, anche tramite lo studio della linguistica del De Saussure. Derrida radicalizza, così, le conclusioni del linguista svizzero, che nel suo Corso di linguistica generale era arrivato a postulare non solo l’arbitrarietà del significante, ma anche del significato, ed aveva fissato nella nozione di puro valore le entità linguistiche. Per il filosofo francese, la constatazione che il segno è valore comporta il definitivo abbandono dei principi metafisici dell’identità e della non-contraddizione. Un termine all’interno di un sistema linguistico è pronunciabile solo perchè nel momento della sua affermazione, quindi nel tempo della sua presenza, esclude gli altri elementi del sistema, che si caratterizzano nello stesso lasso di tempo per la loro assenza. Nondimeno, essi continuano ad essere presupposti dal termine presente, fino ad essere indispensabili, pur nella loro provvisoria assenza, alla sua identità. L’identità quindi si costituisce, secondo Derrida, presupponendo un sistema che nel momento dell’essere-presente dell’identità è assente e totalmente altro nella sua differenza. La differenza quindi crea l’identità e non viceversa: quest’ultima può formarsi solo rimuovendo la differenza, che nell’articolare l’identità, la differisce, differendo anch’essa da se stessa.

Nella lettura che Derrida effettua del testo nietzscheano, la nozione di castrazione esprime questo rapporto fallogocentrico verso la verità, che, però proprio per la sua labilità femminile, finisce per sfuggire al soggetto: di qui la nozione di castrazione come inevitabile colpo-a-vuoto del fallogocentrismo. La castrazione è il fallimento di qualsiasi tentativo di presa metafisica sulla verità.

Derrida, tuttavia, è ben conscio del rischio che una nozione così astratta di verità comporta, del pericolo di ricadere in una teologia negativa del tipo di quella che Heidegger imputava a Nietzsche con il suo eterno ritorno. Ed infatti, si appresta subito a dire che la donna, ovvero l’essenza della verità, non crede alla castrazione, così come non crede a se stessa. Derrida esce così dalla metafisica del principio di non-contraddizione: la donna-verità non crede a se stessa, non crede alla sua verità. Alla «verità-donna» vi crede, soltanto, l’uomo. Derrida rafforza questa conclusione affermando che il femminismo – in quanto imitazione della virilità maschile – conduce alla castrazione anche della donna, ora divenuta virago. La verità è donna, fatua evanescenza, e Nietzsche è un pensatore della differenza:

«Nietzsche […] è il pensatore della gravidanza. […] E siccome piangeva facilmente, e siccome gli è capitato di parlare del proprio pensiero come una donna incinta del proprio bambino, mi piace spesso immaginarlo mentre versa lacrime sul suo ventre» (ivi, p. 63).

Con un accostamento, che rivela un inconfondibile esprit francese, Derrida trasforma Zarathustra in un «pensatore-femmina» che conosce le doglie del parto del proprio pensiero, ma che sa anche che l’essenza della verità è evanescente ed effimera. Per questo Nietzsche è un pensatore della differenza: il suo pensiero «femminile» coglie l’essenza della «verità-donna». Derrida cerca di decostruire un frammento del Crepuscolo degli Idoli; nel frammento chiamato storia di un errore , Nietzsche sottolinea la proposizione «sie wird Weib»: «essa (l’idea) diventa donna». Fino a quando la metafisica non arriverà a compimento, fino a quando il fallogocentrismo pretenderà di esercitare la sua presa sulla verità, essa non si darà come donna. Solo nel momento in cui il metafisico si rende conto che la verità non può essere conchiusa in un sistema, né afferrata da qualche intuizione trascendentale, solo allora l’idea diventa donna, si rivela come Differenza.

«L’idea è una forma della presentazione di sé della verità. Dunque la verità non è sempre stata donna» (Ivi, pp. 80-81).

Per Derrida la «donna-verità», sul piano semantico, sottolinea l’idea di differenza intrinseca e giocata su un piano di non trascendenza: la donna rimanda ai sensi, alla sensualità, alla terra ed all’ateismo. L’Evento heideggeriano, viceversa, rimanda ad un’allegoria di derivazione chiaramente teologica, quindi – secondo Derrida – metafisica. Ma Derrida è anche ben conscio del fatto che il testo di Nietzsche rimane aperto, indecifrabile, «in-decidibile». Derrida riassume, nel testo nietzscheano, le altre due proposizioni in cui l’idea di donna non è associata a quella di Differenza. Nel testo nietzscheano la donna è connessa sia alla menzogna, sia alla verità della metafisica. Ma Derrida si affretta a precisare che la proposizione principale è quella in cui la donna è identificata come Differenza, forza dissimulatrice e dionisiaca: l’unica posizione in cui la donna è giudicata da sé stessa e non dall’uomo. Nietzsche non riesce a vedere ciò che Derrida vede chiaramente attraverso la decostruzione del testo nietzscheano: la donna è la Differenza, ed è la Differenza nella sua verità. Una volta postulata l’«essenza» della verità come donna-Differenza, cade anche l’ultima «favola» metafisica: il noumeno, la cosa in sé.

«De-limitare, disfare, disfarsi: poiché si tratta del velo, non significa forse ancora svelare? O magari, distruggere un feticcio?» (ivi, p. 98).

Parimenti, per Derrida – che sente il bisogno di allontanare dalla sua lettura della Differenza ogni residuo di heideggerismo – non vi è un’essenza della donna nel suo donarsi. Se l’essenza dell’uomo è l’appropriazione, la manifestazione estrinseca della donna, cioè della Differenza, è il suo donarsi. Ma è un donarsi che non racchiude alcuna essenza, pena il ricadere nella istanza di un altro ente supremo, e quindi il rimanere all’interno della metafisica.

Successivamente Derrida, nel suo saggio, si sofferma ad analizzare il frammento postumo del 1881-1882: «Ho dimenticato il mio ombrello». Molti studiosi di Nietzsche si sono soffermati su questa proposizione, cercando di capire a cosa il filosofo tedesco voleva alludere. È soprattutto facile effettuare una lettura freudiana – la psicoanalisi ha sempre avuto un’importanza fondamentale in Francia, molto più che in Germania – trasponendo la dimenticanza dell’ombrello come la rimozione della libido, anche e soprattutto alla luce delle difficoltà di Nietzsche nei rapporti con l’altro sesso. Derrida, viceversa, interpreta la proposizione nietzscheana come un’apertura del non-senso sulla contestualità, ovvero come un rimando del significante alla sua illimitata indecidibilità. Derrida teorizza, così, una decostruzione infinita che radicalizza le istanze della ermeneutica tedesca. Partendo dalla considerazione che il testo di Nietzsche deve rimanere aperto rispetto alla possibilità di una sua decodificazione semantica, Derrida arriva alla conclusione che, in fondo, la scrittura nietzscheana è paradigmatica nella sua in-decidibilità per le illusorie pretese di una ermeneutica esaustiva. Non esiste più una «totalità del testo di Nietzsche»: la scrittura nietzscheana è sempre aperta alla differenza e per questo diventa paradigmatica. Derrida conclude il suo progetto dissolutivo per qualsiasi contenuto semantico e tipo di scrittura – sempre prendendo per modello il testo nietzscheano – annunciando che non vi è mai stato lo stile, il simulacro, la donna.

«Perché il simulacro si mostri, è necessario scrivere nello scarto fra parecchi stili. Se stile vi è […] ce ne deve essere più di uno» (Ivi, p. 123).

Ogni entità linguistica presume e rimanda tutti gli altri. L’essere-presente del segno è possibile solo grazie al rinvio infinito che presume ed insieme esclude gli altri elementi del sistema linguistico. Si tratta, in sostanza, dell’Alles ist kraft del prospettivismo delle volontà di potenza. Nell’eterno ritorno – per Derrida, come per Gilles Deleuze – non ritorna l’identico: il futuro con il suo carattere di novità nel tornare indietro trasforma anche il passato, il «così fu». Il «nuovo» non è mai veramente qualcosa che irrompe nel presente, ma sempre rinvia al passato. Dal canto suo, il passato non è più irrecuperabile nella sua immobilità: proprio perchè il futuro ritorna indietro sul «già stato», il passato si trasforma a sua volta nel rimandare al futuro, cioè si apre alla possibilità di nuove letture. Il presente, quindi, è sempre e comunque destabilizzato da qualunque tentativo d’ipostasi metafisiche e vive in questo perenne rinviare tra futuro e passato. Il nuovo nell’eterno ritorno rinvia al passato: quest’ultimo si trasforma, nella lettura del presente, rinviando al futuro. Il ritorno per Derrida è soprattutto questo gioco di rimandi che è funzionale alla nozione di sistema testuale, nel quale si apre l’assenza della Differenza.

Per cercare l’idea del Superuomo nella lettura nietzscheana di Derrida, o meglio qualcosa che vi si avvicini, dobbiamo ripensare alla nozione di «grande stile». Quest’ultimo è la capacità di sopportare il negativo – il dionisiaco – rinunciando ad una superiore riconciliazione con il positivo nella quiete di una qualunque dialettica. Sopportare l’alterità, la negazione, la scissione, rispettando la differenza come tale, il vuoto e la vertigine che essa provoca: questa prova può essere superata soltanto da un Superuomo.

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