Occorre dare per conosciuta, almeno nei suoi lineamenti generali, la copiosa letteratura fiorita sin oggi intorno all’enigma del “Quadrato Magico” di SATOR.Passo a tracciarne sinteticamente la soluzione, che si trova scolpita – all’insaputa di tutti – su una colonna del portale nord della cattedrale di Chartres.
Museo Archeologico Nazionale di NapoliIncontri di Archeologia
Occorre dare per conosciuta, almeno nei suoi lineamenti generali, la copiosa letteratura fiorita sin oggi intorno all’enigma del “Quadrato Magico” di SATOR, la cui prima apparizione risale agli anni precedenti la catastrofica eruzione vesuviana del 79 dopo Cristo. Passo a tracciarne sinteticamente la soluzione, che si trova scolpita – all’insaputa di tutti – su una colonna del portale nord della cattedrale di Chartres. Si intreccia nel problema una pluralità di piani, che impegna chi legge a non fermarsi a considerazioni parziali relative ai momenti distinti del discorso che si va a fare, ma a valutare la congruenza degli argomenti nella loro conclusione. Nell’anno 70 dopo Cristo Tito, figlio dell’imperatore Flavio Vespasiano e suo futuro successore, represse la rivolta giudaica, conquistando Gerusalemme e distruggendo il tempio di Salomone. L’evento ebbe grandissima ripercussione nella comunità ebraica diffusa a Roma e in Italia. Già un secolo prima Orazio, nella famosa satira del seccatore (la IX del primo libro), aveva sottolineato l’influenza di quell’ambiente, con l’ironico timore che si potessero offendere i Giudei (“Vorresti tu scorreggiare in faccia ai circoncisi Giudei?”). Fu in quel contesto rovinoso che un ignoto ebreo di Pompei, mosso da un sentimento di partecipazione al disastro del suo popolo, ebbe a incidere nella scanalatura di una colonna della Grande Palestra di Pompei la scritta che vediamo. Nessuno dei tentativi di traduzione, che per secoli sono stati fatti della struttura palindroma di quelle parole, ha un senso comprensibile, soprattutto per lo scoglio rappresentato dalla quarta di esse (AREPO). Si era infatti fuorviati dall’idea che fosse una parola unica, come le altre, mentre si trattava in realtà, come qui oggi si dimostra, di due distinte parole – A, REPO – che, così separate, suonano in perfetto latino “Ahimè, io striscio”, dove A è esclamazione, come nei versi 14-15 della prima Bucolica di Virgilio: … gemellos / spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit (” [la capretta] partorì sforzandosi, ahimè, sulla nuda roccia due gemelli, speranza del gregge!”). SATOR diventa allora vocativo: “O Seminatore” e il quadrato magico si potrà definire il lamento del serpente, ovviamente – per l’anonimo ebreo – di quello biblico ( Genesi 3 ), il quale teme di essere tranciato dalle “ruote” che “l’Opera tiene con sé”: ROTAS / OPERA / TENET / A REPO / SATOR ruote / l’Opera / tiene con sé / ahimè io striscio / o Seminatore L’interpretazione letterale è premessa di quella simbolica. L’Opera è già un termine metaforico, alludendo biblicamente a uno strumento fabbricato dal Seminatore, nemico del serpente, cioè da Dio. Tale oggetto, nel clima determinato dalla distruzione del Tempio, non può essere che l’Arca dell’Alleanza, contenente le leggi del Signore e anticamente custodita nel Tempio fino a un’epoca e a vicende imprecisate. In Esodo 25, nella descrizione dell’Arca voluta da Dio, non si parla di ruote ma di stanghe e di anelli per il trasporto a spalle. Le ruote, quindi, sono un’interpolazione concettuale dell’anonimo, fatta per un duplice motivo. Quello simbolico di carattere religioso è di dare effetto mortale per il serpente, avversario di Dio, al movimento dell’Arca (come carro o aratro) guidata dal Seminatore. L’altro, simbolico di carattere matematico, allude alla costruzione geometrica di un fondamentale rapporto, presente nelle leggi di natura: ne parleremo tra poco.
La mancanza del dittongo ae nel verbo caedèris, sostituito da una semplice e, è usuale nel latino scritto di quei secoli. Si può per sovrappiù ipotizzare, con un filologismo forse eccessivo, che la H superflua nella parola ARCA ne faccia la traslitterazione del greco ARCHE’, Potere (sommo), con un doppio senso voluto.
Tuttavia, l’aspetto più clamoroso e paradossale della visibilità invisibile del serpente è il fatto che, parecchio al di sopra della iscrizione vera e propria, il serpente è stato manifestamente disegnato con una inequivocabile linea, per l’appunto, serpentina, che rappresenta il sigillo conclusivo di garanzia della traduzione ora data. Passo all’aspetto simbolico di carattere matematico e naturalistico, che è il vero fondamento dell’enigma di SATOR e si collega alle “ruote” che hanno i loro assi sull’Opera, che perciò le “tiene con sé”, a sé unite (è questo, in tale contesto, il vero senso del tenet latino, sottolineato dalla precisa struttura palindroma della parola). Apro una parentesi sulla radicale differenza tra la scienza matematica dell’antichità e quella moderna. La prima si indirizza generalmente, spesso in forma non palese alle masse, verso la ricerca di una chiave geometrica dell’universo, considerata espressione di una suprema Mente che governa le leggi di natura. Platone fece scrivere all’ingresso della sua scuola: “Qui non entri chi non conosce la geometria”. La seconda è subordinata solo alla tecnica e alle sue realizzazioni pratiche.
Dall’antichità ai nostri giorni corre nelle misure delle varie arti il filone tradizionale – più o meno segreto – della cosiddetta “sezione aurea” (geometricamente, la parte media proporzionale di un segmento tra l’intero segmento e la parte residua), che costituisce uno speciale rapporto matematico ricorrente nella natura in modi innumerevoli (così in tutte le forme penta-decagonali, ma non solo) e che gli antichi matematici avevano identificato come la radice universale delle cose. Nella tradizione giudaico-cristiana proprio la ricerca dell’Arca, andata perduta nelle varie distruzioni subite da Gerusalemme, ha assunto il simbolo di una trasmissione del segreto della “sezione aurea” attraverso la storia. Ne sono esempio in questo senso le opere, non solo bellicose, dei Cavalieri Templari. Indipendente da questo percorso è l’altro, che si può definire greco-pitagorico, sempre attinente alla “sezione aurea”, che si manifesta nella scultura e nell’architettura greca, a partire da Fidia (con la cui iniziale phi si designa matematicamente quel rapporto). Il punto di partenza di entrambi i percorsi è però molto più antico, risalendo alla sapienza egizia e alla costruzione delle grandi piramidi di al-Gizah. Il percorso ebraico (la Qabbalah) comincia con l’Esodo e col relativo libro della Bibbia, perviene a Gerusalemme col Tempio di Salomone e i suoi arredi – principale tra essi, appunto, l’Arca dell’Alleanza –, prosegue con i Templari verso la Francia e il sorgere delle cattedrali gotiche. Il percorso pitagorico passa per la Grecia con la sua arte, giunge in Magna Grecia con le scuole di Crotone e di Elea e la fondazione di Neapolis (la cui planimetria urbanistica ne è una prova e richiede un discorso a parte), si dirama nei secoli fino a Costantinopoli (Santa Sofia) e all’età bizantina. C’è un altro valore matematico, che fa coppia con la “sezione aurea” come altra essenziale radice della natura, ed è quello che si lega al cerchio e alle sue forme naturali: il rapporto tra circonferenza e diametro, ovvero il pi greco . Anch’esso segue due percorsi di ricerca, entrambi – come la “sezione aurea” – muoventi dalla fonte egizia delle Piramidi. Quello della speculazione greca ha un caposaldo nell’opera di Archimede. L’altro affiora nella tradizione cristiana come ricordo e ricerca del Santo Graal: un vaso-scodella, che servì da piatto e calice nell’Ultima Cena e da contenitore del sangue di Cristo raccolto da Giuseppe di Arimatea. Di questa seconda radice matematica dell’universo possiamo solo accennare la presenza tradizionale nell’epopea dei Cavalieri della “Tavola Rotonda” e la valenza segreta, rispetto al problema, dell’ ottagono : la forma dello stesso Graal in qualche rappresentazione analogica, come quella della sua supposta custodia nella struttura ottagonale di Castel del Monte ad opera di Federico II. Che non si tratti di una relazione di pura fantasia tra cerchio e ottagono in natura, chiunque può verificarlo, tagliando trasversalmente – come si è fatto per la pera e la mela – il frutto rotondo del cachi. Vi si troverà il disegno raggiato di un perfetto ottagono regolare. Ma vediamo ora come le “ruote”, da cui il serpente teme di essere ucciso, servono a costruire la “sezione aurea” e a dimensionare con essa l’Opera. L’anonimo non si limita a un’operazione asetticamente geometrica, quella che noi moderni faremmo seguendo la regola dettata dai nostri libri di geometria, ma estrae il valore dalla fonte originaria della sua ispirazione e della stessa tradizione giudaica: la sapienza scritta nelle Piramidi. A questo punto occorre sottolineare la superficialità con cui la scienza moderna tratta l’argomento delle conoscenze di antiche caste iniziatiche, come quella dei sacerdoti e costruttori egizi. Su LE SCIENZE n. 78 Martin Gardner ironizza sulla possibilità che la Grande Piramide di Cheope rappresenti con la pendenza dei suoi lati, in rapporto alle sue dimensioni, i due valori matematici fondamentali di cui abbiamo ora discusso. Egli argomenta che lo stato attuale del monumento, degradato dal tempo e dalle rapine, ci rende del tutto impossibile una qualsiasi verifica dell’ipotesi, che resta quindi priva di fondamento scientifico. In ciò è corroborato da chi, come Kurt Mendelssohn, sostiene che gli Egizi avessero men che rudimentali nozioni di matematica. Ma il Gardner, nel manifestare la propria ironia sulla questione, non si preoccupa di prendere in considerazione l’altra piramide, quella di Chefren, figlio di Cheope, per la semplicità elementare delle sue proporzioni, che non soggiacciono in quanto tali al dubbio della possibilità di verifica e non sembrano dare adito al sospetto di particolari segreti esoterici. Esaminiamo allora questo secondo problema. Il triangolo rettangolo della semisezione mediana della piramide di Chefren presenta base, altezza e ipotenusa nel rapporto evidente e incontrovertibile dei numeri interi 3, 4, 5 (si consulti per conferma la voce relativa nell’Enciclopedia Italiana): così proporzionato, il triangolo prende nome di “triangolo isiaco”. Abbiamo motivo di credere d’essere i primi a rivelare, come dalla elementarità di queste proporzioni, con una procedura rigorosa tutta interna alla struttura, si giunga a determinare la “sezione aurea” del cateto di base della semisezione di Chefren. Si direbbe che il figlio di Cheope abbia voluto beffare con millenni di anticipo lo scetticismo dei posteri sulle intenzioni segrete del padre, confermandole con un procedimento assolutamente preciso.
Disegniamo una circonferenza con centro nell’incrocio delle diagonali e raggio la semialtezza del rettangolo. Anche qui è sottintesa la dimostrazione che la circonferenza risulta inscritta nel triangolo della sezione di Chefren, ossia che tutti e tre i lati sono tangenti a tale circonferenza. Il procedimento seguito è ben noto nella sua parte finale relativa al rettangolo-biquadrato ed è quello che individua il segmento che sta tra ciascun vertice di base e la circonferenza come “sezione aurea” del lato di ciascun quadrato: esso vale per costruzione (√5-1)/2 = 0,618…, un numero che gode di diverse particolari proprietà. Disegniamo le circonferenze che hanno centro nei due vertici di base e per raggio la “sezione aurea”, che così viene riportata sui due lati minori del rettangolo. Sulle due perpendicolari laterali tagliamo due segmenti doppi della “sezione aurea” e uniamone gli estremi superiori con un segmento rettilineo. Il rettangolo risultante è in proporzione la sezione verticale dell’Arca: il rapporto tra lato minore e maggiore è 0,618…, quello di Esodo 25 è nella usuale approssimazione di 0,6 (come tra 3 e 5 nella successione detta di Fibonacci, che all’infinito vale quel rapporto). Se ora guardiamo la rappresentazione dell’Arca fattane dallo scultore di Chartres, ne constatiamo la non casuale somiglianza con la figura nata dal procedimento geometrico. Aggiungiamo solo questa notazione finale: i raggi delle ruote sono quelli di un ottagono regolare. Fuori del presente discorso restano ancora due particolari del “quadrato” pompeiano, da chiarire in altra sede: la figura geometrica in alto e la misteriosa sigla in basso (v. Appendice).
Appendice a “La risposta di SATOR”La diffusione del messaggio Il Cristianesimo, fattore aggiunto Una variante del cubito greco-egizio usata per le misure delle stoffe di lino era composta di 5 palmi, ovvero di 20 dita. Le misure dell’Arca dell’Alleanza in Esodo 25 sono di un cubito e mezzo in larghezza e due cubiti e mezzo in lunghezza; l’altezza è pari alla larghezza. Tradotte in dita, risultano rispettivamente di 30 e 50 dita. La sigla in basso alla scritta pompeiana non è in latino, come mostra chiaramente il primo dei segni, che non corrisponde a nessuna lettera dell’alfabeto latino, e meno che mai a una A, come si crede comunemente. Pur nella grafia incerta dovuta allo scrivere in una scanalatura della colonna, la scritta si mostra composta di tre lettere greche: ΛΝΟ (lambda, ni, omicron), che nel sistema numerale greco significano: 30, 50 e l’aggiunta di una omicron come iniziale dell’avverbio homòiōs, cioè “egualmente”, in riferimento all’altezza pari alla larghezza. La conferma si trova nel triangolo rettangolo che sovrasta il “quadrato”, i cui due cateti sono proporzionali alla misure di larghezza e lunghezza ora indicate e al “rapporto aureo” discusso nel testo, mentre il segmento tracciato da un vertice del triangolo verso l’esterno indica l’altezza dell’Arca in prospettiva, ma non in proporzione: richiede perciò la precisazione espressa dall’avverbio suddetto. La scelta geometrica del triangolo ne fa anche un indicatore della colonna centrale con la parola TENET . La sigla stessa in basso è conclusa da alcune linee incise, meno evidenti, che la qualificano nel suo significato metrico. Si può quindi dedurre, per ipotesi, che l’anonimo fosse un ebreo di lingua greca, commerciante in tessuti e amico del ricco fornaio Paquio Proculo, duumviro a Pompei, nella cui casa si è trovato mutilo lo stesso “quadrato”. La cultura si associa chiaramente alla ricchezza nel famoso ritratto di Paquio Proculo e sua moglie: il volumen nelle mani di lui e i codicilli e lo stilus in quelle di lei. Posto che i dati offerti nel testo, cui questa appendice si lega, sono assolutamente indiscutibili circa il contenuto ebraico del messaggio, è opportuno accennare, come un fattore aggiunto, la tesi del carattere anche cristiano del messaggio stesso. Una tesi che appare molto fondata, non tanto in relazione al possibile noto anagramma del Pater Noster, quanto alla evidente “crux dissimulata” del TENET e alla realtà del possente proselitismo cristiano, che aveva sicuramente già penetrato la società del tempo. La distruzione del Tempio di Gerusalemme e la conseguente diaspora ebraica sono alimento esplosivo di una complementare diffusione del credo cristiano, che nel decennio 70-79 d. C., anche sull’onda della non spenta emozione suscitata dalla recente persecuzione neroniana, corre già per l’Impero tra le file degli eserciti e lungo le rotte mercantili. Il messaggio dell’anonimo ebreo, già forte abbastanza per essere accettato come distintivo in qualche casa pompeiana, sembra essere stato, per la cura semantica dei dettagli, il vero prototipo di un simbolo di appartenenza alla nuova religione. Dieci anni gli bastano per proiettarsi, anche dopo la distruzione di Pompei, sui secoli futuri fino ad oggi. Restano da fare due osservazioni di carattere filologico. Il paradosso di un non-segreto, che è rimasto segreto per oltre diciannove secoli, si deve alla perdita di senso del latino di uso nel corso della storia. Un contemporaneo dell’anonimo pompeiano non avrebbe avuto dubbi nel leggere e capire AREPO come A, REPO, essendo a lui arcinoto – nell’uso vivo e non solo scolastico della lingua – il significato di “repo” come “io striscio” e di “a” esclamativo, pur senza la h (si veda anche in Orazio, Epodo V 71: “A, a, solutus ambulat…”). Ciò è tanto vero, che una notizia archivistica dovuta a una ricerca di Carlo Franciosi ci parla di un terzo quadrato rinvenuto nel ‘700 nella casa di Giulia Felice, che al quarto rigo presentava REPO, con l’omissione della A, considerata evidentemente superflua al significato della frase. Non sembra poi giustificata, in riferimento all’interpretazione cristiana, la “pedanteria” di negare la datazione al primo secolo di A e O nel significato apocalittico di ALFA e OMEGA, dal momento che nulla può far escludere che tale senso potesse avere un suo corso preletterario e quindi precedente alla diffusa conoscenza dell’ Apocalisse di Giovanni. Non può ritenersi certo casuale, in tale ottica, la disposizione – già nel quadrato originario – di quelle due vocali, che si ritrovano costantemente ai lati di ogni lettera T della stessa iscrizione. Il carattere chiaramente biblico del messaggio viene accentuato dal giusto richiamo del Cumont a un passo di Ezechiele (I, 4-21), la cui visione presenta un altro “carro di Dio”, fornito di ruote sui quattro lati, così come il “quadrato” si contorna della parola ROTAS . Uno strano destino ha voluto che il rapido propagarsi del messaggio abbia avuto per incentivo, in un primo arco di secoli, proprio la sua immediata comprensibilità tra gente adusa al latino parlato o anche solo scritto, e in una seconda serie che giunge fino ai nostri tempi, la suggestione magica conseguente alla perdita del senso lessicale per il sopraggiunto disuso del latino come lingua “corrente”. L’istintiva convinzione che si trattasse di cinque parole, e non di sei, ha quindi suggellato il mistero. 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