Osservazioni sul nuovo ateismo

Dialoghi FilosoficiM’interesserò in questo articolo ad una «nuova» corrente filosofica caratterizzata dal rifiuto totale dell’idea dell’esistenza di Dio e dalla fondazione epistemologica delle proprie asserzioni. Questo nuovo ateismo professa una rinnovata fiducia nelle conclusioni della scienza e si colloca senza soluzioni di continuità come epigono della tradizione illuministica.

Osservazioni sul nuovo ateismo

di Antonio D’Alonzo

Nel presente articolo non prenderò in considerazione le forme storiche che concretano il processo di secolarizzazione contemporanea o le dinamiche sociologiche di fenomeni, in apparenza, ambivalenti, quali le chiese vuote (fenomeno la cui effettiva consistenza è spesso messa in discussione), la crisi delle vocazioni e dall’altro lato la diffusione delle chiese evangeliche protestanti o la formazione di una generazione di giovani, eterogenei (almeno a parole) ai valori consumistici, ma sensibili al messaggio cattolico, i c.d. «papa-boys».

Tutte questioni molto importanti – si pensi ad esempio, alla progressiva penetrazione dei «papa-boys» nelle fila del movimento no global, tradizionalmente formato da simpatizzanti della sinistra terzomondista, ecologista, radicale e anticlericale – ma che richiedono una disamina diversa da quella che ho intenzione di fare in questa sede.

M’interesserò invece ad una «nuova» corrente filosofica caratterizzata dal rifiuto totale dell’idea dell’esistenza di Dio e dalla fondazione epistemologica delle proprie asserzioni. Questo nuovo ateismo professa una rinnovata fiducia nelle conclusioni della scienza e si colloca senza soluzioni di continuità come epigono della tradizione illuministica.

Per quanto riguarda il primo punto, non trovo particolari obiezioni da fare a chi predilige costruire le proprie argomentazioni deducendole da teorie scientifiche verosimili. L’obiettività riguarda soltanto i dati scientifici; le teorie che utilizzano questi dati sono costruzioni intellettuali ed, in quanto tali, suscettibili di un perfezionamento infinito. Su questa concezione si basa l’immagine del sapere scientifico come di un edificio in fieri: allegoria, peraltro, ampiamente criticata dalla stessa epistemologia novecentesca. Nessuno, oggi, allo stato attuale, può permettersi di rigettare in toto le nuove teorie evoluzionistiche, poiché, pur concedendo che il darwinismo sia comunque una teoria verosimile alla pari di tutti gli altri costrutti scientifici, è pur sempre vero che è quella che più si avvicina ad una spiegazione attendibile della genesi del genere umano.

Non esiste nulla che non può essere messo in discussione da obiezioni argomentate. Ma nel caso queste non siano correttamente formulate, si deve respingere con forza qualunque tentativo di sopraffazione attraverso paralogismi, sofismi, appelli all’autorità o all’ignoranza. Gli ultimi risultati della biologia molecolare moderna e la teoria del sequenziamento del genoma non possono essere facilmente sconfessati. Niente vieta di pensare che tra dieci o più anni, il darwinismo possa essere confutato da altre teorie più plausibili ed accattivanti. Ma allo stato attuale, la teoria evoluzionistica vince a mani basse la partita sul creazionismo e la sua versione moderata dell’ intelligent design. Dopo aver dato a Cesare quello che è di Cesare, mi soffermerò sulla nuova corrente di pensiero ateistica, che proprio sulle fortune dell’evoluzionismo ha costruito buona dose della propria attendibilità.

L’ateologia contemporanea non fa mistero di abbeverarsi a piene mani alla fonte della scienza, ed in particolare al darwinismo. Richard Dawkins, Daniel Dennett – ed in una certa misura, l’italiano Piergiorgio Odifreddi – sono tutti pensatori che devono la loro formazione alla scienza contemporanea. Al gruppo si deve aggiungere, naturalmente, il francese Michel Onfray che, tuttavia, è arrivato alla nuova ateologia positivista, dopo essersi dedicato all’edonismo. Il pensiero di questi nuovi atei mi sembra interessante, specialmente nella prospettiva di una contrapposizione dialettica al neo-oscurantismo d’Oltretevere. Per onestà intellettuale premetto che l’ormai imminente uscita della versione italiana di The God delusion – l’ultima fatica di Dawkins – mi ha trattenuto dal reperire l’edizione originale. Inoltre, nel momento in cui sto scrivendo, ho appena acquistato l’edizione italiana di Breaking the spell di Dennett. Dunque, per svolgere la mia disamina non mi servirò delle tesi contenute nei due volumi citati, ma di articoli scritti dagli stessi studiosi ed apparsi su giornali e riviste italiane, in particolare su Micromega. Naturalmente, ritornerò sull’argomento dopo aver letto i due volumi, nel caso questi suggeriscano ulteriori considerazioni da formulare.

Su Micromega (nr. 2/2007 a p. 7), Dawkins scrive di non avere problemi a postulare un Dio impersonale, da identificare con la natura, l’universo o le leggi della fisica. In questo caso, ammette, potrebbe, egli stesso, essere considerato un uomo religioso. I problemi per Dawkins sorgono quando si pensa Dio come un’intelligenza personale, che si decida di chiamarlo Jhawèh (sic), Allah, Baal, Wotan, Zeus, Krishna. Evidentemente per Dawkins le religioni sono come quelle famose notti scure in cui tutte le vacche sono nere.

Lo studioso di Oxford equipara Krishna al Creatore dell’AT, mentre in realtà il primo è un Avatar, una manifestazione dello Spirito Universale che non possiede le caratteristiche di onniscienza ed onnipotenza tipiche del dio unico. Se gli stessi Zeus e Wotan, in quanto sovrani dei rispettivi pantheon, sono in relazione strutturale tra loro, sono eterogenei riguardo a Jhawèh (sic) o Allah. Gli dei politeisti non sono né onnipotenti, né immortali: in quanto proiezioni archetipiche riflettono la diversificazione dell’ordinamento sociale e la complessità della psiche umana. Sono funzioni, non principi assoluti come nel caso del dio unico. A parte, questa distinzione storico-religiosa, Dawkins soffre, a mio avviso, di miopia intellettuale. Egli rimane, imprigionato nella contrapposizione Evoluzione versus Creazionismo. Ma la religiosità non può essere ridotta ad un insieme di dottrine, di dogmi, di articoli di fede.

La religiosità, come ricorda Schleiermacher, è un sentimento che l’uomo prova verso un mistero che lo trascende. Quindi, nulla vieta di nutrire sentimenti religiosi verso la scienza, la natura, l’universo. La grande tradizione mistico-renana ha sempre pensato a un dio dis-antropomorfico, impersonale, universale. Meister Eckhart non chiama questo spirito universale, che coincide con lo stesso spirito umano, Got («dio»), ma Gotheit («divinità»). In certi passi dei Sermoni Tedeschi, Eckhart arriva a mettere in discussione, in maniera velata, la stessa dottrina della creazione: la prudenza, dati i tempi in cui viveva, gli suggerisce di non andare oltre. La religiosità – o meglio ancora, la spiritualità – costituisce una dimensione antropologica che non può facilmente essere esautorata, specialmente se l’argomento principale contro di essa si riduce a postulare Dio come ente dotato di tutte le caratteristiche ipostatiche dell’ontologia classica: intelligenza superiore, bontà e giustizia infinita, ecc.

Dawkins, probabilmente, a questo punto obietterebbe che la superstizione di Dio come ente è proprio il costrutto principale sul quale si fondano i teologemi della religiosità devozionale occidentale. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere questo punto. Ma la posta che Dawkins vuole mettere in gioco è più alta: la totale sconfessione dell’idea di un ordine cosmico, non una “semplice” contraffazione del creazionismo.

Proseguendo nella sua disamina, Dawkins rivolge una particolare attenzione all’argomento della causa prima di Tommaso d’Aquino. Secondo il pensatore britannico, l’argomento è fallace perché non è possibile postulare all’inizio l’esistenza di un’intelligenza creativa e complessa, poiché queste «giungono tardi nell’universo e perciò non possono essere responsabili del suo disegno». Se un teologo medievale leggesse queste pagine non potrebbe fare a meno di evidenziare una confusione tra il piano metafisico e quello fisico: ma non è questo il discorso che m’interessa portare avanti adesso. Dawkins, a mio avviso, non riesce a superare la concezione antropomorfica del dio unico e rimane ancorato all’idea dell’esistenza di un essere supremo dotato di volontà ed intelligenza personali. All’autore britannico sembra del tutto sconosciuto non soltanto il pensiero di Spinoza, ma anche quello indiano ed orientale. Nel buddhismo mahayana l’intima essenza delle cose è identificata con la «vacuità» (shunyata in sanscrito, sunnata in pali, ku in giapponese). L’advaita vedanta esprime lo stesso concetto come «non dualità». Volendo rimanere in ambito greco, una concezione mistica – immanente – dello spirito universale è rintracciabile nel neoplatonismo: al contrario di quello che pensa Dawkins, l’homo religiosus può fare a meno di pensare Dio come un’intelligenza personale.

Dennett, sempre su Micromega 2/2007, si propone di elaborare un’ingegneria “inversa” delle religioni. Come per Dawkins, nell’articolo di Dennett ho trovato un’alternanza di argomenti interessanti (cfr. il paragrafo “Idee per le quali morire”) ad altri abbastanza banali. Ad esempio, il filosofo americano così scrive a p. 18:

«le religioni organizzate discendono da religioni folkloristiche popolari che erano una volta selvagge. È la logica che fluisce liberamente nell’evoluzione» .

È la logica del vecchio argomento evoluzionistico applicato alla storia delle religioni, dura a morire. La scuola antropologica di Tylor è incorsa in gravi errori metodologici, per fortuna, oggi, ampiamente sconfessati. In particolare:

a) la pretesa che esistesse una scala di valori unica, con cui poter giudicare e raffrontare;

b) la diffusione del pregiudizio evoluzionistico con cui si credeva che il cammino storico della civiltà umana fosse unico e che le diverse civiltà corrispondessero alle diverse stazioni, raggiunte da un medesimo binario storico.

Con la definitiva confutazione dell’evoluzionismo storico-religioso, si è giunti quindi a capire che:

a) non esistono civiltà superiori o inferiori, ma semplicemente diverse, perché nate da sviluppi storici differenti da quelli che hanno portato alla formazione della nostra;

b) non esiste un paradigma culturale per giudicare il grado di evoluzione delle altre civiltà.

Così Dennett a p. 19:

«nelle religioni organizzate il padre Eterno si prende il merito di tutte le cose buone, ma mai la colpa per quelle cattive. Questo non vale nelle religioni popolari dove Dio è visto come la causa di tutto quello che succede, anche delle cose negative, e a lui si attribuisce la responsabilità».

Da questo passo, deduco che Dennett o non considera l’induismo ed il buddhismo come religioni organizzate, oppure è del tutto a digiuno di storia delle religioni. In ogni caso, mostra di non conoscere a sufficienza la letteratura religiosa extraeuropea. Ma allora, perché ostinarsi a scrivere di religioni e non dedicarsi ad argomenti su cui si è più ferrati?

In un altro passo dell’articolo, Dennett riporta questo brano estratto da The God Delusion di Dawkins:

«Ah, ma naturalmente la storia di Adamo ed Eva è sempre stata solo simbolica, non è vero? Simbolica? Dunque per essere efficace, Gesù si sarebbe lasciato torturare e mettere a morte, come vittima delegata a ricevere la punizione di un peccato simbolico commesso da un individuo non esistente. Come ho già detto: completamente fuori di testa, oltre che disgustosa».

Se può consolare Dawkins, ricordo che l’archetipo del dio «morente-e-risorgente» (dying and rising gods ) interessa diverse divinità maschili delle antiche società agricole del Mediterraneo: in ogni caso, non è un esclusivo mitologema della dottrina cristiana. Verosimilmente, può avere a che fare con la ciclicità dell’agricoltura e la questione speculare del viaggio nell’oltretomba, ma vi sono molte altre chiavi di lettura sull’argomento. Tuttavia, proprio perché nel dying and rising gods, diffuso nel Vicino Oriente antico, è possibile intravedere una suggestione condivisa in una certa area geografica, l’argomentazione di Dawkins può mettere in imbarazzo i cristiani, ma non certamente chi si limita a vedere nella con-divisione degli archetipi la presenza di un moto spirituale universale. Per chi crede che l’essere umano sia essenzialmente homo religiosus, poco importa sapere se la vicenda della resurrezione di Cristo sia avvenuta realmente o meno. Personalmente, vedo nel dying and rising gods proprio un anelito universale al sacro, un bisogno antropologico di simbologia religiosa, che non si esaurirà certamente qualora il cristianesimo, per ipotesi, dovesse estinguersi. Non dimentichiamo che Dawkins e Dennett non stanno argomentando contro il cristianesimo, ma contro l’idea dell’esistenza di Dio o comunque di un ordine cosmico di tipo spirituale. Se questi sono i loro argomenti, il loro obiettivo è fallito.

Per il momento, non è possibile ipotizzare la possibilità di molecole o particelle elementari capaci di auto-rigenerarsi o di auto-riprodursi. Se questo avverrà tra qualche anno, allora, potremmo dichiarare superato l’argomento della causa prima o del motore immoto. Nonostante gli sforzi di Dawkins, l’istanza antropologica alla dimensione del sacro potrebbe benissimo sopravvivere e non certamente come survivals:

«Non posso disfarmi dell’idea che ero morto prima di nascere e che con la morte tornerò in quello stato […] quanto desidero l’istante in cui il tempo, per me, cesserà di essere, quando sarò accolto nel seno materno del Tutto e del Nulla, dove dormivo quando… Epicuro, Lucrezio, Cesare vivevano e scrivevano, quando Spinoza pensava il più gran pensiero che sia mai entrato in un cervello umano».

Sono parole scritte nel 1790 da Georg Christoph Lichtenberg, fisico, professore a Gottinga. Credo che esprimano alla perfezione l’idea di una spiritualità alta, mistica, lontana dal materialismo antropomorfico di chi continua ancora a pensare a Dio come ad un ente.

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