Filosofia Sperimentale

Letture d'EsoterismoAntologia dell’«Encyclopédie» di Diderot e D’Alembert

Si chiama «sperimentale» quella filosofia che si serve degli esperimenti per scoprire le leggi della natura.
Gli antichi, ai quali ci crediamo tanto superiori nelle scienze, perché troviamo più comodo e gratificante disprezzarli invece di leggerli, non hanno trascurato la fisica sperimentale, a differenza di quanto solitamente si suppone. Compresero assai presto che l’osservazione e l’esperienza erano i soli mezzi per conoscere la natura.

Antologia dell’«Encyclopédie» di Diderot e D’Alembert

curato da Roberta Giammaria

Filosofia Sperimentale

Si chiama «sperimentale» quella filosofia che si serve degli esperimenti per scoprire le leggi della natura.

Gli antichi, ai quali ci crediamo tanto superiori nelle scienze, perché troviamo più comodo e gratificante disprezzarli invece di leggerli, non hanno trascurato la fisica sperimentale, a differenza di quanto solitamente si suppone. Compresero assai presto che l’osservazione e l’esperienza erano i soli mezzi per conoscere la natura.

Le opere del solo Ippocrate sarebbero sufficienti a illustrare lo spirito che animava allora i filosofi. In luogo dei sistemi funesti o almeno ridicoli che la medicina moderna ha generato per poi condannarli, vi si trovano fatti ben collegati in un sistema di osservazioni utili ancora oggi e apparentemente destinati a costituire per sempre una base all’arte di guarire. Ora, dalla situazione della medicina credo che si possa inferire anche la situazione della fisica degli antichi in generale, basandoci sulle due seguenti ragioni: innanzitutto, perché le opere di Ippocrate sono i documenti più considerevoli che ci restano di tutta la fisica degli antichi; e in secondo luogo, perché la medicina è la parte più essenziale e più interessante della fisica, e quindi si può giudicare con certezza dal suo grado di sviluppo il livello raggiunto dalla stessa fisica. Insomma, tale è la fisica e tale è la medicina; e viceversa, tale la medicina, tale la fisica. È una verità convalidata dall’esperienza, giacché, partendo anche soltanto dalla rinascenza della cultura e senza risalire più indietro come pure ben potremmo, risulta evidente che una di queste due scienze subisce sempre i mutamenti che alterano o snaturano l’altra.

Sappiamo d’altra parte che ai tempi di Ippocrate molti grandi uomini, alla testa dei quali si deve porre Democrito, si applicarono con successo all’osservazione della natura. La tradizione vuole che il medico fosse chiamato dagli abitanti di Abdera per guarire la pretesa follia del filosofo e lo trovasse intento a sezionare e osservare animali. E si può indovinare chi fu giudicato più pazzo da Ippocrate, fra quello che avrebbe dovuto visitare e coloro che lo avevano chiamato a quella visita. Democrito pazzo! Proprio lui che aveva trovato il modo certamente più filosofico di godere tanto della natura quanto degli uomini: studiare l’una e ridere degli altri.

Però quando parlo della pratica antica della fisica sperimentale non so se bisogna prendere questa espressione nel suo senso più pieno. La fisica sperimentale ruota intorno a due cardini che non vanno confusi: la sperimentazione propriamente detta e l’osservazione. Quest’ultima è meno ricercata e meno sottile e si limita ai fatti che ha sott’occhio: si limita a guardare attentamente e nei particolari i fenomeni di ogni genere che lo spettacolo della natura ci presenta. La sperimentazione cerca invece di penetrare più in profondità nella natura strappandole ciò che essa tiene nascosto: cerca di creare in qualche modo, con le differenti combinazioni dei corpi, nuovi fenomeni da studiare; non si limita insomma ad ascoltare la natura, ma l’interroga e l’incalza. Si potrebbe chiamare l’osservazione «fisica dei fatti» o piuttosto «fisica volgare e palpabile», e riservare alla sperimentazione il nome di «fisica occulta», purché si attribuisca all’espressione un’idea più filosofica e più vera di quella attribuita da certi fisici moderni, e la si impieghi a designare soltanto la conoscenza di fatti reconditi ma accertabili mediante la vista, e non già il romanzo di fatti supposti, bene o male indovinati senza cercarli né vederli.

Sembra che gli antichi non si siano dedicati molto a questo tipo di fisica. Si contentavano di leggere direttamente nella natura. Ma vi leggevano con grande assiduità e con occhi migliori di quanto riteniamo: parecchi fatti da essi rivelati, e che erano stati dapprima smentiti dai moderni, approfondendo l’osservazione sono risultati veri. Il metodo che seguivano gli antichi di coltivare l’osservazione più della sperimentazione era molto filosofico e il più adatto a far compiere alla fisica i maggiori progressi di cui fosse suscettibile in quella prima età dello spirito umano. Prima di usare tutta la nostra sagacia e di aguzzare il nostro ingegno per ricercare un fatto nelle combinazioni più sottili, occorre accertarsi bene che questo fatto non esista di già attorno a noi e non sia già fra le nostre mani, così come in geometria bisogna riservare gli sforzi alla ricerca di ciò che non è stato risolto da altri. La natura è così varia e ricca che una semplice raccolta ben completata di fatti farebbe avanzare prodigiosamente le nostre conoscenze: se fosse possibile spingere una tale raccolta fino al punto che non vi mancasse nessun elemento, questo sarebbe forse il solo lavoro cui dovrebbe limitarsi un fisico. Questo lavoro di raccolta resta comunque il necessario punto di partenza, e in questo lavoro gli antichi si sono impegnati. Hanno trattato la natura così come Ippocrate ha trattato il corpo umano; e questa è un’altra prova dell’analogia e della somiglianza fra la loro fisica e la loro medicina. I più avveduti fra gli antichi hanno composto una specie di tavola di ciò che vedevano, l’hanno composta bene e vi si sono attenuti. Della calamita conobbero solo la proprietà che salta più agli occhi: quella di attirare il ferro. Le meraviglie dell’elettricità, che pure li circondavano e di cui si trova tuttavia qualche traccia nelle loro opere, non li colpirono minimamente, perché per esserne colpiti avrebbero dovuto coglierne i rapporti entro fatti più nascosti che la sperimentazione è riuscita a scoprire solo in questi ultimi tempi. Perché la sperimentazione fra gli altri suoi vantaggi possiede soprattutto quello di estendere il campo dell’osservazione. Un fenomeno scoperto dalla sperimentazione ci apre gli occhi su una quantità di altri fenomeni che non domandano altro, per così dire, che di essere percepiti. L’osservazione, per la curiosità che ispira e per i vuoti che lascia, mena alla sperimentazione; la quale riconduce all’osservazione per la medesima curiosità, che cerca di colmare o almeno di restringere sempre di più tali vuoti. Così la sperimentazione e l’osservazione si possono considerare in certo modo come la conseguenza e il complemento l’una dell’altra.

Pare che gli antichi abbiano coltivato la sperimentazione solo in rapporto alle arti e non già per soddisfare come noi una curiosità puramente filosofica. Gli antichi scomponevano e ricombinavano i corpi solo per trarne utilità e diletto, senza troppo curarsi di conoscerne né la struttura né il meccanismo. Nella descrizione dei corpi poi gli antichi non si fermavano sui particolari. Ma per giustificarli in questa pratica basterà notare il poco profitto che i moderni hanno tratto dalla pratica opposta.

È forse nella storia degli animali di Aristotele che si deve cercare il vero gusto della fisica degli antichi piuttosto che nelle sue altre opere di fisica, che sono meno ricche di fatti e più di parole, più abbondanti di ragionamenti e meno di erudizione. Lo spirito umano è infatti così impastato insieme di saggezza e di follia che, fin tanto che la raccolta di materiali è facile e copiosa, si dà tutto ad ammassarli e a ordinarli, ma non appena i materiali gli vengono a mancare si mette subito a chiacchierare. Quindi, anche se dispone di un numero assai ridotto di materiali, è sempre tentato di formarne un corpo unico, diluendo poche conoscenze imperfette e slegate in un sistema teorico o almeno in un qualcosa che ne abbia l’aspetto. Ma se riconosciamo una certa impronta di questa inclinazione alla vuota sistematicità nelle opere fisiche di Aristotele, non gli addebitiamo tuttavia l’abuso che ne hanno fatto i moderni nei lunghi secoli dell’ignoranza né le sciocchezze che i suoi commentatori hanno fatto passare per opinioni di quel grand’uomo.

Parlo di quei tempi di tenebra solo per accennare rapidamente ad alcuni geni superiori che abbandonarono il modo vago e oscuro di filosofare e cercarono nella loro sagacia e nello studio della natura conoscenze più reali. Il monaco Bacone, oggi troppo poco noto e letto, deve essere annoverato fra questi spiriti di prim’ordine: in mezzo all’ignoranza più profonda seppe con la forza del suo genio sollevarsi al di sopra del suo secolo e lasciarselo addietro di molto. Perciò fu perseguitato dai suoi confratelli e considerato uno stregone dal popolo, press’a poco come Gerberto tre secoli prima per le sue invenzioni meccaniche, con la differenza che Gerberto diventò papa e Bacone restò monaco e sventurato.

Del resto, i pochi grandi geni che studiarono la natura in se stessa fino alla vera e propria rinascenza della filosofia non si dedicarono in realtà a quella che si chiama «fisica sperimentale». Chimici piuttosto che fisici, sembra che si dedicassero più alla scomposizione di certi corpi particolari e all’indagine analitica degli usi che se ne potevano trarre anziché allo studio generale della natura. Ricchi di un’infinità di conoscenze utili o curiose ma slegate fra loro, ignoravano le leggi del moto e quelle dell’idrostatica, il peso dell’aria di cui pure constatavano gli effetti e molte altre verità che costituiscono oggi la base elementare della fisica moderna.

Il cancelliere Bacone, inglese come il monaco (questo nome e questo popolo sembrano infatti così fortunati in filosofia), per primo abbracciò un campo più vasto. Intravide i princìpi generali che devono servire da fondamento allo studio della natura, propose di verificarne sperimentalmente la fecondità, annunciò una quantità di scoperte che poi si realizzarono effettivamente. Descartes, che lo seguì immediatamente e che fu accusato forse assai a torto di avere attinto i suoi lumi dalle opere di Bacone, aprì qualche strada importante nel territorio della fisica sperimentale, ma più che praticarla la raccomandò. Proprio forse per questa mancanza di pratica cadde in numerosi errori. Per esempio, ebbe sì il coraggio di enunciare per primo le leggi del moto, coraggio che merita la riconoscenza di tutti i filosofi, perché ha messo quelli che sono venuti dopo sulla via delle vere leggi; ma la sperimentazione, o piuttosto, come diremo poi, la semplice riflessione sulle osservazioni più comuni, gli avrebbe insegnato che le leggi che aveva enunciato erano insostenibili. Descartes e lo stesso Bacone, malgrado tutto ciò che la filosofia deve loro, le sarebbero stati ancora più utili se fossero stati fisici più pratici e meno teorici. Ma il piacere ozioso della meditazione e del congetturare conquista facilmente i grandi spiriti. Costoro intraprendono molto e concludono poco: propongono visioni generali delle cose, prescrivono ciò che bisogna fare per costatarne la giustezza e i vantaggi, e lasciano ad altri il lavoro meccanico. Ma questi, illuminati da una luce riflessa, non vanno così lontano come sarebbero andati da soli i maestri. Così gli uni pensano o sognano, gli altri agiscono o manipolano: e l’infanzia delle scienze è lunga o meglio addirittura eterna.

Tuttavia lo spirito della fisica sperimentale introdotto da Bacone e Descartes a poco a poco si estese: l’Accademia del Cimento di Firenze, Boyle, Mariotte, e in seguito molti altri fecero con successo numerosissimi esperimenti; le accademie si formarono e si impadronirono in fretta di questo nuovo modo di filosofare; mentre solo le università, più lente perché si erano tutte formate ben prima della nascita della fisica sperimentale, seguirono ancora a lungo il metodo antico. Ma a poco a poco la fisica cartesiana sostituì nelle scuole la fisica di Aristotele o piuttosto dei suoi commentatori. Se ancora non si toccava la verità, si era però sulla strada. Si fecero esperimenti e si tentò subito di interpretarli teoricamente. Sarebbe stato meglio che ci si fosse contentati di eseguire gli esperimenti con precisione limitandosi a registrarne la reciproca analogia invece di trarne un sistema. Ma si sa che non si può sperare che lo spirito umano si liberi così prontamente da tutti i suoi pregiudizi. Apparve Newton e per primo dispiegò ciò che i suoi predecessori avevano fatto appena intravedere: l’arte di immettere la geometria nella fisica, di riunire l’esperimento al calcolo e di formare così una scienza esatta, profonda, luminosa e nuova. Altrettanto grande per i suoi esperimenti di ottica che per il suo sistema del mondo, Newton aprì da ogni parte strade maestre immense e sicure. L’Inghilterra accolse i suoi metodi: la Royal Society li fece propri fin da quando nacquero. Le accademie francesi invece vi si piegarono più lentamente e con maggiore resistenza, per lo stesso motivo per cui le università avevano respinto per anni la fisica di Descartes. Ma la luce ha infine prevalso: la generazione che era nemica di quei grandi uomini si è spenta nelle accademie e nelle università, cui le accademie sembrano oggi imporre il loro stile; è sorta una nuova generazione; giacché, quando sono poste le basi di una rivoluzione, tocca quasi sempre alla generazione successiva compirla; raramente prima, perché quelli che l’ostacolano preferiscono morire piuttosto che cedere; raramente dopo, perché una volta rotte le barriere lo spirito umano va spesso più in fretta di quanto esso stesso vorrebbe finché incontra un nuovo ostacolo che lo costringe a fermarsi per lungo tempo.

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