La verità assoluta, può raggiungere l’uomo?

Domande e RisposteEpistolari d’Esoterismo

Vorrei continuare sul mito delle «verità assolute». Da cui ripartire per poi raggiungere quello dei «Portatori di verità assolute» che nell’umanità, da un lato incapace e dall’altro indifesa, sono i tragici portatori dei cancri ideologici.
La domanda «se l’uomo non può raggiungere una verità assoluta, può quella verità raggiungere l’uomo?», ha preso corpo dalla tua idea che «la parte esoterica dell’esoterismo, è il misticismo». Se non baglio, il misticismo, che molti confondono con i culti carnali del devozionalismo, è l’unica dimensione dove, in rari casi, attraverso il cuore la verità ha raggiunto la coscienza dell’uomo.

La verità assoluta, può raggiungere l’uomo?

degli Autori di Esonet

Se l’uomo non può raggiungere la verità assoluta,
può la stessa verità raggiungere l’uomo?

16 settembre 2007

Athos A. Altomonte scrive:

Caro Antonio, vorrei continuare sul mito delle «verità assolute». Da cui ripartire per poi raggiungere quello dei «Portatori di verità assolute» che nell’umanità, da un lato incapace e dall’altro indifesa, sono i tragici portatori dei cancri ideologici.

La domanda «se l’uomo non può raggiungere una verità assoluta, può quella verità raggiungere l’uomo?», ha preso corpo dalla tua idea che «la parte esoterica dell’esoterismo, è il misticismo». Se non baglio, il misticismo, che molti confondono con i culti carnali del devozionalismo, è l’unica dimensione dove, in rari casi, attraverso il cuore la verità ha raggiunto la coscienza dell’uomo.

Nell’epistolario precedente (vedi) si era detto che la prima causa che impedisce all’uomo il raggiungimento di una verità totalizzante, sta nell’incapacità di mente e coscienza di assimilare visioni troppo superiori alle proprie caratteristiche. A questo si aggiunga che sono “figlie” di una dimensione fisica dominata dal movimento, dove il pensiero è soggetto a mutazioni continue. E ciò vale per ogni pensiero. Anche quello filosofico e scientifico, la cui metabolizzazione spinge il pensatore ad un continuo oltrepassare se stesso.

Sappiamo che molti limiti mentali possono essere superati, e che la coscienza può essere espansa, fino a raggiungere confini assai distanti dall’epicentro originale. Ma ciò avviene pur sempre nella stessa dimensione. Ed è questa a determinare il limite invalicabile, che pure alcuni hanno trasceso: come? ci si domanda. Le risposte sono molteplici, e bisognerebbe cominciare con l’interrogarsi su quelle iniziaticamente più attenibili. Cercando prima di capire cos’è, e come è fatta una verità assoluta.

Ma prima, due aspetti comuni tra chi è meno preparato sulle regole della vita: confondere tra realtà e verità, dimenticando che la (propria) realtà è sempre relativa a sé stessi. Inoltre, aspetto particolarmente eclatante, molti cercano la verità assoluta solo perché vorrebbero sostituirla alla propria realtà che non amano, dimenticando che rifiutando la propria realtà essi rifiutano sé stessi. Ed è a questo punto che sono pronti per diventare la vittima sacrificale: drogati e dipendenti del “Portatore di verità assoluta”, pronto a fornirgli l’illusione a cui aspirano.

Una aspetto ineludibile delle “verità assolute” è che sono indimostrabili. Inoltre, la loro caratteristica è di essere indeformabili, immutabili e perenni. E questo significherebbe che, nella dimensione, non sono soggette alle modificazioni del tempo, e men che meno a quelle del pensiero umano. Quindi, se non incorro in errore, la seconda caratteristica è la loro assoluta staticità. Di qui, la seconda domanda: mai vista una verità immutata attraversando le ere, le culture e i poteri?

Sono verità assolute quelle postulate dalle dottrine religiose, potrebbero rispondere alcuni. Confondendo, però, la verità coi dogmi.

Anche di questo abbiamo già parlato, licenziando subito la supposizione che le dottrine di Dio, scritte dagli uomini, perciò tutte in contrasto tra loro, siano veicoli di verità trascendente. Questo porta ad eliminare la mente come possibile medio tra la coscienza dell’uomo e le verità per lui incontenibili. E questo non ci ferma affatto. Capovolgendo la proposizione, torno alla domanda: ma se l’uomo non può raggiungere la verità, può essa raggiungere l’uomo?

Potrebbe essere forse il cuore il bandolo della matassa?

Fraternamente 000 Athos

17 settembre 2007

Antonio D’Alonzo scrive:

Athos – Parto dalla domanda «se l’uomo non può raggiungere una verità assoluta, può quella verità raggiungere l’uomo?» ; che ha preso corpo dalla tua idea che «la parte esoterica dell’esoterismo, è il misticismo». Se non baglio, il misticismo, che molti confondono con i culti carnali del devozionalismo, è l’unica dimensione dove, in rari casi, attraverso il cuore la verità ha raggiunto la coscienza dell’uomo […]

Antonio D’Alonzo – Per prima cosa intendo spiegare il senso della mia frase sulla mistica considerata come «esoterismo dell’esoterismo».

Esistono due tipi di mistica, la mistica dell’«essenza» e la mistica dell’«amore coniugale». La prima – rappresentata storicamente in Occidente dall’assimilazione cristiana del neoplatonismo e che si concreta nel pensiero di Margherita Porete, Meister Eckhart, Suso, Taulero ed, infine, Cusano – fonda le proprie asserzioni sulla capacità di distacco dall’io in vista di uno stato di unione spirituale tra l’intelletto umano e quello divino. In questi autori a volte compare la parola «cuore» ma, come per molte altre tradizioni spirituali, con questo termine si deve intendere il «centro» della spiritualità, l’intelletto noetico, più che la sede delle passioni e dei sentimenti.

Si tratta di un sentimento «spirituale» che trascende la brama del possesso, l’ansia dell’«oggetto» anelato, tipico invece della via amoris, del secondo tipo di mistica che trova la massima espressione nel monachesimo femminile. In alcune religioni come l’induismo – ma anche in alcune forme della gnosi islamica – le due mistiche s’integrano perfettamente in un sistema in cui la forma «devozionale-coniugale» costituisce lo stadio preliminare alla «mistica dell’essenza», che rappresenta il culmine dell’ascesa. In Occidente, Platone nel Simposio e nel Fedro ha per primo introdotto la possibilità di arrivare alla contemplazione spirituale partendo dal desiderio sensuale. Ma l’ortodossia cattolica ha visto un pericolo nella «mistica dell’essenza» e ha tollerato soltanto la «mistica dell’amore coniugale», più facilmente controllabile della prima.

Molte volte questo secondo tipo di mistica si presenta come una cattiva sublimazione della sessualità e dell’affettività rimossa nel monachesimo femminile. L’esempio più eclatante si ha con Teresa d’Avila, con le sue opere e le sue «estasi» sensuali immortalate da Bernini.

Le pagine dell’Autobiografia e del Castello Interiore trasudano erotismo dissimulato sotto una parvenza di spiritualità. Al contrario, la «mistica dell’essenza» parte da un concetto semplice: se non c’è più l’io, si supera il dualismo Creatore-creatura, e ci s’identifica con Dio. L’unitas spiritus tra il mondo e Dio, tra l’uomo e Dio, può essere raggiunta solo con il distacco. In questa prospettiva non c’è bisogno di grandi tecniche per raggiungere l’unitas spiritus, di riti, preghiere o tecniche particolari, che al contrario tendono a riprodurre la divisione dicotomica tra l’Oggetto ed il soggetto, il Creatore e la creatura, il Signore ed il servo, ecc.

È sufficiente distaccarsi progressivamente dall’io, tutto il resto è un armamentario che se non serve diventa pericoloso perché produce nuove idolatrie. La «via» è semplice e complessa allo stesso tempo: per Hegel la «proposizione speculativa» è quella proposizione che riesce ad inglobare gli opposti. La differenza tra l’esoterismo e la mistica, una volta assodato che entrambi mirano allo stesso scopo, è che il primo fa un notevole uso di simboli e mitologemi per produrre l’anabasi, la seconda si «spoglia» di tutto e punta dritto al traguardo. In questo senso se lo scopo è l’unitas spiritus micro-macrocosmica, possiamo considerare la mistica come una forma di gnosi priva degli «orpelli» dell’esoterismo.

Quindi come il «nucleo», il «nocciolo», la «polpa» della gnosi, laddove l’esoterismo, con i suoi riti ed il suo simbolismo, rappresenta la «buccia», la «scorza» o il «guscio». L’interiore e l’esteriore che molte volte serviva, con il suo linguaggio velato e segreto, a proteggere dai roghi dell’ortodossia. Non si deve dimenticare che il linguaggio di «chi ha occhi per vedere ed orecchie per sentire» aveva proprio una funzione difensiva nei riguardi dei guardiani del potere sacerdotale.

Lo stesso rapporto tra il «vuoto», o la «non-dualità», che illumina e la forma rituale che trasmette e «contiene» l’essenza si trova anche nell’induismo e nel buddhismo mahayana. Naturalmente, un seguace dell’esoterismo ha tutto il diritto di pensare che i simboli e i riti siano qualcosa di più che semplici orpelli. Ognuno deve trovare la sua strada, consona alle proprie capacità. Con un’immagine un po’banale possiamo dire che la via mistica assomiglia ad una discesa libera con cui lo sciatore giunge dritto alla meta. L’esoterista è più simile ad uno slalomista che gira intorno ai paletti, ai simboli. Entrambi giungono al traguardo. Ma se il «centro» di una dottrina per definizione contiene un maggiore grado di universalità non può che essere spoglio e ridotto all’essenziale, all’assenza di tutto quello che non riguarda l’immediata unione spirituale con il Principio. In questo senso ho scritto che la «mistica è l’esoterismo (il centro) dell’esoterismo».

Queste considerazioni, però, servono unicamente sotto un profilo criteriologico e non risolvono interamente il problema della possibilità della conoscenza. La conoscenza che ricerchiamo non può risolversi unicamente nella via del «distacco». Altrimenti, basterebbe propendere in modo definitivo per la vita contemplativa e la fuga mundi. Se pensiamo che il solo fine dell’esistenza umana è la gnosi spirituale, basta chiudere i conti con la vita mondana e rifugiarsi in qualche monastero, orientale od occidentale. Esiste un’altra forma di conoscenza che concerne la visione del mondo, in tedesco weltanschauung, con cui si apre un’epoca.

Questa visione o «reality tunnel» concerne l’insieme di credenze che ci permettono di interagire con il prossimo e con noi stessi. In altre parole, definisce la nostra idea di «verità». In questa prospettiva anche la «via del distacco», qualora si voglia coltivare nel mondo e non nella vita ascetica – non può essere perseguita nelle forme che sono state elaborate da Eckhart o da Angelus Silesius. Del resto, anche la mistica dell’unitas spiritus a sua volta si presenta come una forma contingente, un tentativo di «spiritualizzare» la cruda percezione del cammino circolare dalla vita alla morte. Dalla morte provengo ed alla morte faccio ritorno: questa è la forma «atea» e materialistica dell’unitas spiritus, che posso poi «addolcire» con la teoria di un microcosmo che si fonde nel macrocosmo, di una goccia d’acqua che ritorna e si dissolve nel mare, di una scintilla di fuoco nell’incendio, ecc.

In altre parole, il senso dell’esistenza è già in nostro possesso con la formula «provengo dalla morte e alla morte faccio ritorno»: la mistica spiritualizza questa proposizione sostituendo alla «morte» il Principio Primo, l’Uno o il Non-Essere. L’idea dell’Uno – o nella tradizione indiana, la dottrina del karma e del samsara – sono già delle interpretazioni «ottimistiche» del senso dell’essere. Ma questo fa parte del modo in cui la «verità» si declina nelle varie epoche storiche.

Athos- Un aspetto ineludibile delle “verità assolute” è che sono indimostrabili. Inoltre, la loro caratteristica è di essere indeformabili, immutabili e perenni. E questo significherebbe che, nella dimensione, non sono soggette alle modificazioni del tempo, e men che meno a quelle del pensiero umano. Quindi, se non incorro in errore, la seconda caratteristica è la loro assoluta staticità. Di qui, la seconda domanda: mai vista una verità immutata attraversando le ere, le culture ed i poteri?

Antonio – Gli archetipi possono attraversare le epoche, il «religioso» può ritornare: ma non sono più gli stessi archetipi e non è più la stessa religiosità. Per spiegarmi meglio, introduco due esempi desunti dalla sociologia e dalla geografia delle religioni.

È innegabile che oggi si manifestino, specialmente tra i giovanissimi, delle pulsioni di tipo «dionisiaco» nelle ebbrezze del «sabato sera». «Sballo», droga, alcool, velocità e violenza, popolano le notti dei ventenni. Se è corretto dire che «Dioniso» ritorna, non si può fare a meno di osservare che non si tratta dello stesso Dioniso venerato negli antichi misteri. Si s-vela in un altro modo, ac-cade con altre caratteristiche. Si manifesta nell’elemento ludico e non in quello religioso-misterico; presenta fattori inediti come il culto cripto-futurista della velocità, ma non si manifesta in un contesto rigidamente ritualizzato, ecc.

Un altro esempio, legato questa volta all’islam radicale. Il salafismo seguito dai born again, dai giovani musulmani del Regno Unito o dei Paesi Bassi, si oppone nettamente alle culture islamiche originarie, ma opera una «deculturazione» avanzando la proposta di una religiosità forte e rigorista, depurata dai particolarismi locali. Il salafismo taglia le radici con le culture nazionali musulmane, proponendo un nuovo tipo di islam per gli immigrati di prima o seconda generazione, pur nel rispetto della tradizione. L’islam che abbiamo conosciuto finora radicava l’elemento religioso all’interno di quello culturale-nazionale: il salafismo teorizza l’emancipazione del primo fattore dal secondo. Eppure, un osservatore poco attento potrebbe essere tentato di pensare che oggi si assista ad un clash tra culture diverse.

Ecco perché se non si vuole correre il rischio di vivere nel passato si deve interrogare l’orizzonte ermeneutico della propria epoca, il modo in cui il senso dell’essere accade in noi e nel nostro tempo. La metafisica si basa sulla contrapposizione di un soggetto conoscente ad un oggetto conosciuto, per poi postulare il superamento mistico del dualismo. L’errore della metafisica è di pensare ad un oggetto-ente ipostatico nella sola dimensione del tempo presente. Ora, la coscienza (il soggetto che osserva) è una costruzione storica, filogenetica, in divenire. Se muta il soggetto-che-osserva necessariamente muta anche l’oggetto osservato.

La «verità», l’oggetto contemplato, l’essente – proprio per l’evoluzione interiore della coscienza – non sussiste come ipostasi ma muta articolandosi nel divenire. La storicizzazione della coscienza storicizza anche la presunta meta-temporalità dell’oggetto conosciuto. L’oggetto si s-vela per il soggetto conoscente: l’evoluzione di quest’ultimo comporta lo s-velamento dell’ente che si apre allo sguardo contemplante. Il divenire e la storicità del concetto di «verità» conducono al superamento della vecchia metafisica dualistica dell’oggetto-di-fronte-al-soggetto.

Il compito del pensatore è di pensare il modo in cui si declina l’idea di «verità» nell’era della tecnica. Un’epoca in cui assistiamo al ritorno del «religioso» e del «sacro» in forme diverse da quelle finora conosciute, ma che sono comunque produzioni post-moderne o surmoderne.

Il «sacer» è una categoria antropologica che non ha bisogno di dei o di credenze soprannaturali, ma oltrepassa qualunque contenuto determinato ereditato dal passato. Naturalmente è una scelta lecita quella di rifiutare la contemporaneità e ritornare al «brodino caldo» delle vecchie dottrine cosmologiche.

Rifiutare il proprio tempo è una scelta romantica e suggestiva, almeno per il singolo. Non vedo però un grande futuro in questa opzione quando si esercita collettivamente, perché c’è il rischio concreto di essere scavalcati dal tempo, di vivere nel passato. La sfida del pensiero, che non trema di fronte al nuovo, è di pensare il modo in cui si declina il «sacro» o l’idea di «verità» nell’era della tecnica.

17 settembre 2007

Giuseppe Barbone scrive:

La Verità raggiunge e com-penetra sempre l’uomo, il problema è essere sintonizzati sulla giusta lunghezza d’onda, detto semplicemente, ci vogliono orecchie per intendere.

Il discorso mi pare estremamente complicato in quanto andrebbe sviluppato fra soggetti che abbiano in qualche modo “toccato” questa verità (la stessa differenza che c’è fra due non vedenti nel parlare di un colore) mi piace comunque proseguire facendo finta che…? Verità che non può che essere trascendente, (la verità nella sua perfezione continua a perfezionarsi, Dio,essere perfetto cresce in perfezione) in quanto è al di là del visibile e dell’invisibile, dello spazio e del tempo del “micro e del macro”.

A causa di queste sue peculiarità non può essere com-presa e con-tenuta se non in parte o per visione sintetica (intuito, in caso di vera iniziazione) non possono mente o coscienza com-prenderla se non nella forma detta prima. Personalmente credo che la via iniziatica porti o debba portare ad un’unione di mente, cuore e coscienza, anche se la mente la potremmo configurare con il sale alkemico , quindi non indispensabile ma certamente utile. (Dicono i Filosofi che per fare l’Opera basta il solo Mercurio .)

Alla domanda che pone Athos: Potrebbe forse essere il cuore il bandolo della matassa?

Non posso far altro che rispondere affermativamente. È solo con l’aiuto del “cuore” che si arriva a “toccare e com-prendere certe cose”, che non sono il risultato di lunghi studi, anzi essi potrebbero inficiarne il risultato finale. Ma torniamo al cuore con un pensiero a voce alta: perché chiamiamo cuore questa cosa che non è certo l’organo fisico? Per la funzione e la posizione (come il cuore fisico centrale) che questo tipo di “essenza” possiede o solo per le sue qualità? È il Fuoco segreto che ne permette l’attivazione? Se sì cos’è esattamente questo Fuoco? Di una cosa sono certo: La Verità vibra perennemente fuori e dentro di noi, bisogna saperla leggere. Non è possibile leggere uno spartito musicale se non si conosce la musica.

000 Giuseppe

18 settembre 2007

Antonio scrive:

Athos – Questo porta ad eliminare la mente come possibile medio tra la coscienza dell’uomo e verità per lui incontenibili. Ma questo non ci ferma affatto. E capovolgendo la proposizione, torno alla domanda: ma se l’uomo non può raggiungere la verità, può essa raggiungere l’uomo? Potrebbe forse essere il cuore il bandolo della matassa?

Riprendo l’idea di Athos, per riflettere sulla possibilità che la «verità» possa raggiungere l’uomo malgrado l’uomo: vale a dire, nonostante i limiti ontologici della dimensione antropologica. Limiti che riguardano l’impossibilità di trascendere il fenomenico, essendo la soggettività umana «immersa» nel mondo, «gettata» in una visione collettiva di cui è parte integrante. Se l’uomo è parte integrante del mondo, del «tunnel» che definisce la nostra percezione della realtà, come può realizzare la visione solitaria in grado di percepire dall’esterno il Tutto? Può la parte liberarsi dall’insieme?

È il problema del metalinguaggio (linguaggio in grado di descrivere il funzionamento e le dinamiche del linguaggio) ed anche dello scacco esistenziale della morte. Per svelare l’arcano mistero della morte si deve morire, non si può sapere nulla con certezza della morte finché si è vivi (anche se vi è una vasta letteratura sulla «quasi morte» che reca conforto all’anima, non è possibile scartare l’idea che al momento del trapasso il cervello produca delle visioni programmate per lenire il pathos del trapasso).

La mistica offre piuttosto la possibilità della reintegrazione della monade individuale nell’oceano cosmico e la conseguente liberazione dalle catene del samsara. Tuttavia, la liberazione sembra impegnare diversi cicli di rinascite e forse è al di fuori della portata dell’uomo contemporaneo, occidentale ed orientale. La dottrina della «Terra Pura» del buddhismo mahayana, ad esempio, è scettica sulla possibilità di diventare un bodhisattva o un arhat per gli uomini dell’età oscura (il «bodhisattva» è colui che, pur avendo ottenuto la liberazione, rinuncia al nirvana per aiutare tutti gli esseri ad ottenerla a loro volta. L’«arhat», invece, una volta realizzata la moksha, si libera dal karma e non ritorna più nel samsara). La dottrina della «Terra Pura» (o «amidismo») postula che la massima possibilità (pongo l’accento sulla parola «massima») sia di ottenere una rinascita favorevole al tempo di Maitreya, il futuro bodhisattva.

Se la difficoltà è proibitiva per un buddhista cinese o vietnamita, come può l’uomo occidentale contemporaneo con i suoi Suv e le sue villette a schiera, ambire a questi traguardi?

Credo che sia preferibile assumere l’atteggiamento prudente del «viandante», in cammino verso un traguardo che non riesce a intravedere. Tuttavia se la mistica non è per tutti e non è possibile elaborare una sorta di «metalinguaggio» finché si «vive» dentro la langue ordinaria, la possibilità di elaborare una metateoria, o metafisica, adatta all’era contemporanea passa attraverso un nuovo tipo di linguaggio e, di conseguenza, di pensiero.

In questa prospettiva, negli ultimi due secoli si è creduto, contro Platone, che la parola poetica recasse in sé poteri demiurgici e divinatori. Da Novalis a Rimbaud, da Paul Valéry a Heidegger, che non era un poeta, ma un pensatore, il linguaggio «poetante» ha tentato di pronunciare la parola «segreta», il «sacro», l’«essere». Tentativo che non è stato perseguito soltanto dalla poesia, ma anche dalle avanguardie artistiche e letterarie del Novecento: si pensi ad esempio all’esperienza surrealista o ai «flussi di coscienza» dell’Ulisse di Joyce. O alla psicoanalisi di Lacan.

Il tentativo di elaborare un linguaggio ed una ragione «altra» è ancora aperto e trova nuova linfa dagli studi sull’immaginario, introdotti in Francia da G. Durand. Di «immaginale» aveva già parlato Corbin che presentando le dottrine dei «platonici di Persia», gli ishrāqīyūn, la gnosi di Sohravardī e la mistica d’Ibn ‘Arabī, aveva introdotto una dimensione mediana e mediatrice tra il mondo intelligibile ed il mondo sensibile: il mundus imaginalis.

Da qualche anno, Durand si dedica ad elaborare un’antropologia dell’immaginario che contempla survivals delle dottrine esoteriche. Un tentativo interessante di armonizzare l’immaginario «mitico-magico» con le possibilità che la tecnica contemporanea dischiude è presente anche nel neopaganesimo. Lo sciamanismo metropolitano, il tecnopaganesimo, la «mediomanzia», ecc.

Sono proposte interessanti che devono essere vagliate attentamente, in quanto aiutano a superare il vecchio dualismo novecentesco tra la tecnica e la spiritualità. Il difetto del tecnopaganesimo, a mio avviso, è di non riuscire ancora a riflettere attentamente sui propri fondamenti. Ma questa considerazione non m’impedisce di seguirne attentamente i possibili sviluppi. Così come altre possibilità sono offerte dal cyberspazio, dai mondi virtuali, dall’interazione degli avatar in Second Life.

Se poi quest’ultima continuerà sulla falsariga commerciale che ne sta contraddistinguendo i primi passi, questa possibilità scemerà. Ma in definitiva, credo che il futuro della spiritualità sia nell’intreccio tra cyberspazio, multidimensionalità e survivals «magico-esoterici». È qualcosa che è già in corso e non può essere fermato. Anche noi, non a caso, stiamo discutendo di esoterismo e mistica attraverso la Rete.

Nel Web ci sono decine di gruppi neopagani che indirizzano l’energia nel cyberspazio. Questa spiritualità «open source» si dovrà confrontare con il fondamentalismo religioso.

Non vedo un grande futuro, invece, per le aggregazioni religiose tradizionali. La sfida della filosofia è di pensare l’intreccio tra visione e pensiero, il modo in cui una nuova forma di pensiero intrecciata all’immagine può avvenire. Questo perché l’«animismo» tecnopagano va benissimo: ma il pensiero non può rinunciare all’interrogare. Comunque, l’interrogare si dovrà muovere all’interno dello scenario della realtà multidimensionale, dischiusa dalla scienza e dalla tecnica.

000 Antonio

torna su