Il Bambino nascosto /1

Psicologia

Queste favole non sono per bambini, ma per adulti. Tuttavia, poiché attingono ad alcuni nodi di sofferenza nel mondo interno di un bambino, possono far risuonare affetti, emozioni, sensazioni e sentimenti dell’antico bambino ferito che ognuno di noi adulti si può portare dentro. 

Il Bambino nascosto /1

di Alba Marcoli

Favole per capire la psicologia nostra e dei nostri figli 

Nota biografica. 

Alba Marcoli, psicologa clinica di formazione analitica, dopo una trentennale attività nel campo dell’insegnamento e della psicoterapia, ha raccolto in questo volume parte del materiale di un’esperienza di formazione psicologica per genitori ed educatori condotta attraverso l’uso di favole costruite su reali casi clinici. Negli Oscar Mondadori ha pubblicato “Il bambino arrabbiato” (1996). 

Capitolo primo. Un’esperienza di formazione 

SommarioAvvertenze per il lettore – La storia di queste storie – Il valore del sintomo

Ringraziamenti 

Ringrazio tutti i gruppi di genitori e insegnanti, gli amici e i colleghi che nel corso di nove anni hanno contribuito a questo lavoro con materiali, riflessioni, suggerimenti e critiche preziose. Sono ormai troppi perché li possa ricordare singolarmente. 

Un ringraziamento particolare, tuttavia, a: 

– Velia Bianchi Ranci, per aver rivisto e supervisionato ogni favola come psicoterapeuta infantile, integrando così la mia esperienza di psicoterapeuta di adulti; – Cesare Viviani, Sandra Massa, Ida Finzi, Francesca Corneli, Germana Gasbarri, Paola Rosselli, Marinella Marcoli, Giovanna De Petris, Antonio Scarlato, Mimma Rossotti e Gianni Cavazzin, per avermi aiutato nella scelta del materiale che è confluito in questo libro e nella sua impostazione teorica e pratica; – Mammola Bianchi Marcoli, per aver tradotto in francese la versione originale di queste favole. 

A tutti loro va la mia profonda riconoscenza. I limiti di questo lavoro, invece, sono miei.

Avvertenze per il lettore 

Queste favole non sono per bambini, ma per adulti. Tuttavia, poiché attingono ad alcuni nodi di sofferenza nel mondo interno di un bambino, possono far risuonare affetti, emozioni, sensazioni e sentimenti dell’antico bambino ferito che ognuno di noi adulti si può portare dentro. 

Se tale risonanza ci dà o troppo dolore o troppo fastidio è forse meglio, direi anzi che sia consigliabile, che chiudiamo il libro e lo mettiamo da parte, oppure che saltiamo la favola che ce li suscita. È probabile in tal caso che questo non sia né lo strumento né il momento della vita adatto per entrare in contatto con quel mondo, come è altrettanto legittimo che possiamo aver deciso tranquillamente che ciò non ci interessa né ora né mai. Oltretutto si tratta di materiale che non ha alcuna pretesa di assoluto o di dimostrabilità e che rappresenta semplicemente una possibile interpretazione di mie esperienze di vita personali e professionali. Se invece queste favole ci suscitano interesse, curiosità, il piacere e la tenerezza della scoperta del mondo interno di un bambino attraverso la riappropriazione delle nostre stesse emozioni infantili, anche di sofferenza, allora leggiamole pure, ma piano, una per volta, nel corso del tempo, così come ognuna di loro è il prodotto della storia di uno o più bambini. Nei gruppi sperimentali di genitori, ad esempio, ne abbiamo letta in genere una al mese, per lasciare a ognuna di loro il tempo di decantare dentro. Sarebbe meglio, inoltre, leggere prima la favola, che è indirizzata al mondo emotivo, e solo successivamente le riflessioni sul tema sottostante. 

Può essere allora che a poco a poco possiamo imparare a vedere e ad ascoltare in modo diverso i bambini che ci camminano accanto nella vita e a sfiorare con mano più leggera e rispettosa il mondo fragile e prezioso dei loro sentimenti e delle loro emozioni. 

La storia di queste storie 

“Ogni passo avanti nella crescita e nella maturazione comporta non solo nuove acquisizioni, ma anche nuovi problemi. Per lo psicoanalista ciò significa che un cambiamento in una parte qualunque della vita psichica sconvolge l’equilibrio raggiunto in precedenza e che devono essere escogitati nuovi compromessi.” Anna Freud [1].

Le prime persone della mia esperienza che mi sono venute in mente sono stati i bambini e i ragazzi, il fiume di giovani vite che mi sono vista scorrere davanti in tanti anni di lavoro, sia nella scuola che in campo psicologico. Mi aveva sempre colpito moltissimo la scarsa consapevolezza che spesso noi adulti abbiamo della loro sofferenza dal punto di vista psicologico. Mi sono chiesta perciò che contributo potessi dare anch’io verso la ricerca di strumenti collettivi che restituissero un senso alla sofferenza di bambini e adolescenti e le facessero così assumere un significato evolutivo e non involutivo. 

A quell’epoca tenevo un laboratorio cui partecipavano, fra gli altri, due bambini che presentavano dei sintomi piuttosto frequenti. Il primo aveva una difficoltà scolastica dovuta a problemi emotivi e il secondo un vissuto di rifiuto che lo portava a un comportamento di opposizione a tutto e a tutti che lo faceva a sua volta essere sempre rifiutato. 

È stato proprio sulle loro due storie che ho scritto le prime due favole pensando di leggergliele in un laboratorio di fiabe, ma le cose sono andate diversamente. 

Un giorno si è infatti presentata per una consulenza la madre del secondo bambino che era completamente esasperata dagli atteggiamenti oppositivi del figlio ed è stato allora che mi è venuta improvvisamente l’idea di leggere la favola a lei. Era una persona con cui non ero mai riuscita a comunicare veramente, sia perché aveva alle spalle una vita così sofferta e difficile che per poterla reggere aveva dovuto erigere delle barriere fra sé e il mondo, sia perché io stessa non ero mai riuscita a trovare le parole adatte per aiutarla a capire meglio suo figlio Così, presa dalla mia stessa frustrazione, quel giorno ho avuto l’idea di provare a leggere la favola a lei invece che al figlio. 

Ricordo ancora con sorpresa quello che ho visto accadere sotto i miei occhi Questa mamma, che era venuta così esasperata da voler allontanare il bambino, ha seguito la lettura con estrema attenzione e interesse e alla fine ha esclamato: «Adesso capisco finalmente perché sabato scorso ha fatto il bagno e poi è uscito nudo per la strada come se volesse prendersi una polmonite!». 

Senza che io stessa mi rendessi bene conto di come fosse avvenuto, il linguaggio della favola l’aveva portata a guardare le cose con gli occhi di suo figlio e a capirlo, il che era esattamente l’obiettivo che mi ero proposta in precedenza senza riuscirci. È stato così che ho provato a ripetere l’esperimento con altri genitori e in particolare con un gruppo di madri che incontravo già da un anno settimanalmente per discutere i loro problemi con i figli. 

Anche lì ho osservato che le favole le aiutavano a guardare le cose da un altro punto di vista e a capire dei comportamenti apparentemente incomprensibili. Una di loro una volta mi ha detto: «La prima volta che lei ha letto una favola non capivo perché l’avesse fatto, ma la seconda l’ho capito immediatamente e da allora non ho più avuto bisogno di spiegazioni!». Così, a poco a poco, mentre il gruppo continuava (è durato per tre anni) ho preparato delle favole destinate agli adulti e ispirate alla storia reale di uno o più bambini incontrati sul mio lavoro o nella mia vita personale. Il primo commento che ho quasi sempre sentito all’inizio di ogni discussione, dopo la lettura, è stato: «Adesso capisco perché…». 

Da allora per me questo è diventato uno strumento di lavoro in piccoli gruppi di formazione psicologica per genitori e insegnanti (soprattutto della fascia materna ed elementare) in cui leggiamo e discutiamo la versione originale delle favole di cui ho fatto una prima selezione sintetica in questo libro. Ho sperimentato questo materiale per nove anni, in situazioni varie, con l’obiettivo di creare uno dei tanti possibili strumenti di prevenzione del disagio psicologico nei bambini. Riporto nell’ultima parte del libro le osservazioni che ho fatto finora su questi gruppi e le riflessioni delle persone che vi hanno partecipato. 

A nove anni di distanza, mentre l’esperimento è ancora in corso, ho sentito l’esigenza di cominciare a raccogliere parte del lavoro fatto. 

Ho deciso allora di operare una scelta fra le favole scritte finora selezionandone alcune e sintetizzandole per una pubblicazione che spero possa essere utile collettivamente, soprattutto a genitori e insegnanti che non abbiano una formazione psicologica e che quindi non abbiano ancora avuto una possibilità di riflettere teoricamente su questi temi. Ho aggiunto a ogni favola alcune delle osservazioni che di solito introduco nei gruppi perché mi sembra che possano dare un primo contributo alla riflessione basato più su storie e casi di vita, che su raffinate costruzioni teoriche. 

La cosa che potrebbe sorprendere i lettori è l’uso di un linguaggio e di un mondo infantili in favole destinate agli adulti. In realtà è stato proprio questo un elemento determinante, anzi forse quello centrale, che ha permesso di trovare un canale di accesso al mondo infantile che l’adulto si porta dentro, come si vedrà nella parte conclusiva. 

Le favole hanno infatti inizialmente preso lo spunto dal mondo animale sull’esempio di un test psicologico, le “Blacky Pictures”, che racconta le avventure di un cagnolino su cui ognuno proietta i propri vissuti, permettendone così il riconoscimento. Il fatto di spostare su un cagnolino le tematiche affettive facilita in genere il racconto sulla propria affettività, evitando l’intervento della censura che impedirebbe spesso il riconoscimento di questi temi. Lo stesso credo che sia successo per i genitori, nel caso di queste favole. Poiché l’adulto ha costruito delle difese più raffinate e più vecchie di quelle di un bambino, è infatti spesso molto più difficile che riesca a entrare in contatto con le emozioni sepolte chissà dove dentro di lui. Il duplice fatto di aver spostato sul mondo animale questi temi dello sviluppo dell’affettività e di aver usato un linguaggio infantile, che è quello usato in genere con i bambini, credo sia stato l’elemento determinante che ha permesso ai genitori di evitare l’interferenza delle proprie resistenze a entrare in contatto con i temi della loro stessa affettività. È come se diventasse un po’ un gioco quello di ascoltare e discutere fra adulti di favole che parlano di animali con un linguaggio infantile, ma il gioco può far calare le resistenze e lasciarci quindi più liberi di riprovare emozioni e sentimenti lontani nel tempo. 

Per quanto riguarda invece la parte esplicativa ho cercato di utilizzare un linguaggio di tipo colloquiale e familiare perché ho sperimentato che i tagli specialistici scoraggiano spesso il profano anche rispetto a problemi che riguardano tutti. Sono consapevole che il rischio che si corre è quello di semplificare troppo delle cose che nella realtà non sono mai così semplici, come riprenderò nelle osservazioni finali, ma l’aver sperimentato queste favole per nove anni mi fa sperare che possano avere una loro utilità per un primo contatto con i problemi. 

Il tema intorno a cui ruota questo lavoro è generale e accomuna tutti, grandi e piccoli. Si tratta dello scorrere del tempo, della crescita e dei passaggi della vita che riguardano tutte le età e non la sola infanzia. Non a caso ho raccontato come l’inizio di queste favole abbia coinciso con un momento di passaggio anche per me. Sono state proprio le emozioni suscitatemi dal riconoscimento e dall’appropriazione di questa esperienza che mi hanno portato a sentirla con maggiore intensità e a ricavarne un ulteriore momento di riflessione e conoscenza. E nessun’altra epoca della vita ne è così quotidianamente e costantemente toccata come lo sono l’infanzia e l’adolescenza. 

È sempre stato sull’onda di quell’emozione che mi sono allora tornate alla memoria le storie di tanti bambini e ragazzi che ho conosciuto attraverso gli anni e che esprimevano con un sintomo la difficoltà di crescita e di passaggio. 

Queste favole, arricchite dal prezioso contributo datomi dai genitori e dagli insegnanti con cui ho lavorato e filtrate attraverso le emozioni e le sensazioni che hanno suscitato in me, tentano di esserne una testimonianza, per dare la parola a ciò che in genere è stato e viene vissuto come «indicibile» e per restituire così alla crisi la sua potenzialità profonda di trasformazione e cambiamento.

Il valore del sintomo 

“Sappiamo bene quanta poca luce la scienza abbia saputo proiettare sin qui sull’enigma di questo mondo e non c’è chiacchiera di filosofo che possa cambiare questa realtà; solo proseguendo pazientemente il lavoro indefesso che tutto subordina alla ricerca della certezza si può produrre a poco a poco un mutamento. “Quando il viandante canta nell’oscurità, rinnega la propria apprensione, ma non per questo vede più chiaro.” Sigmund Freud [2].

Scopo di queste favole è il tentativo di mostrare, a chi non è abituato a una lettura psicologica dei fatti, che dietro ogni sintomo è possibile trovare una strada che porti al senso e al significato del sintomo stesso, sia per chi ne è il portatore, sia per chi gli sta vicino. È più o meno ciò che avviene in una psicoterapia che, lungi dal negare il sintomo, lo valorizza e lo lascia parlare affinché possa indicare la strada per riscoprirne il senso e coglierne la potenzialità eversiva di cambiamento Ogni sintomo è un messaggio, codificato in un linguaggio di cui oggi solo il clinico può ricostruire il codice che, nonostante i vari psicologismi imperanti, o forse spesso proprio a causa della loro superficialità, sfugge in genere al portatore e all’osservatore nella sua essenza profonda di manifestazione di sofferenza e di bisogno di cambiamento. 

Il sintomo è quindi una forma di linguaggio apparentemente anomala rispetto alle usuali leggi della comunicazione perché esiste una codificazione e una trasmissione di messaggio in un codice la cui decodificazione è resa difficile dal fatto che le chiavi interpretative non sono socializzate, ma nelle mani di pochi, gli addetti ai lavori, coloro «che hanno orecchie per intendere». 

Sarà proprio la chiave interpretativa quella che restituirà il senso del sintomo e ci aiuterà a capire un comportamento non fermandoci a scoprirne semplicemente e riduttivamente le cause, ma la finalità che esso persegue, che è a sua volta inserita in un processo dialettico di cambiamento, cioè di vita. 

Si tratta quindi di un linguaggio nato per comunicare un messaggio che resta spesso inascoltato, tranne in poche situazioni ancora privilegiate di ascolto attento e di possibilità concrete di intervento. 

Il non ascolto del sintomo e la mancata raccolta della enorme potenzialità creativa ed eversiva della sofferenza umana, ogni volta che essa si manifesta, contribuiscono a impoverire il nostro potenziale di conoscenza perché ci privano della possibilità di decodificazione di un codice che ognuno di noi può, più o meno inconsapevolmente, utilizzare nella propria vita quotidiana frapponendolo fra sé e la realtà esterna. 

Dietro un comportamento «sintomatico» c’è in genere un messaggio in codice, ma la chiave interpretativa per la sua decodificazione non può essere meccanicamente stabilita a priori e deve essere ricostruita su ogni singolo caso. Se dietro ogni bambino e ogni ragazzo esistono contemporaneamente almeno tre storie, la sua, quella di sua madre e quella di suo padre (ereditate a loro volta da altri), come è oggi comunemente accettato nella pratica clinica, è solo a partire dalla loro ricostruzione che ci si può interrogare per arrivare a una chiave interpretativa del sintomo che ci permetta di capirne il senso, o almeno una parte importante (accettando anche il fatto che non tutto sia spiegabile e riducibile in termini di «senso»). 

Nel caso della prima favola, ad esempio, la difficoltà a imparare deriva da un problema di separazione da un materno depressivo interiorizzato, ma in altri casi lo stesso sintomo può portare a percorsi completamente diversi. Se queste storie dovessero fornire al lettore cui sono destinate una benché minima chiave interpretativa meccanicistica di un sintomo analogo, allora esse avrebbero fallito il loro scopo che non è quello di dare una chiave decodificatrice, ma di mostrare che essa esiste già potenzialmente, nel sintomo. Sarà solo l’attento e rispettoso ascolto di quest’ultimo che ci potrà condurre a una possibile interpretazione, che dovrà essere attentamente e scrupolosamente verificata. Questo non significa che si debba escludere altrettanto rigidamente la possibilità di riconoscerci in qualche tema come si presenta in queste favole, in quanto dietro a ogni storia c’è del reale materiale clinico. 

Destinatari di queste storie sono genitori e insegnanti, coloro che si trovano nella loro vita privata o professionale al fianco di un bambino lungo il suo percorso di crescita, ma destinataria può anche essere semplicemente la parte bambina che spesso ci portiamo dentro, consapevolmente o inconsapevolmente. 

Le nostre prime esperienze infantili sono quelle che plasmano il nostro mondo interno e ci forniscono l’”imprinting” più duraturo e difficile da modificare con cui entriamo poi in relazione con il mondo esterno e con noi stessi. Ogni bambino che nasce ha una sua progettualità specifica che può essere potenzialmente diversa da quella dell’ambiente che lo riceve e lo circonda, a cui si deve tuttavia adattare perché altrimenti morrebbe, privo del suo calore e del suo sostegno. 

Il bambino si trova così spesso a dover fare del tutto inconsciamente una scelta fra le esigenze dell’ambiente e quelle del proprio sé potenziale [3]. Ed è in genere quest’ultimo che si deve adattare perché l’ambiente è innanzitutto rappresentato dal calore e dall’amore dei genitori che il bambino non può tradire perché li ama e perché ha bisogno del loro amore per vivere, tanto da arrivare a morire, se neonato, nei casi estremi di totale mancanza d’amore per abbandono. I genitori, a loro volta, sono il prodotto di una storia simile in epoca diversa, per cui indipendentemente dalla loro volontà non possono che rispecchiarla più o meno inconsapevolmente. 

L’ambiente che riceve un bambino che nasce tende quindi a riprodursi staticamente nei ruoli e nell’”hic et nunc” della situazione, determinando spesso una conflittualità fra il divenire della progettualità potenziale del bambino e la rigidità dei ruoli in cui l’ambiente che lo circonda è cristallizzato. Questo significa che se il mondo che ci ha ricevuti da bambini ci ha offerto come modello di relazione privilegiata un rapporto di totale dipendenza (importantissima peraltro nei primi mesi di vita) che invece di evolvere verso l’autonomia si è cristallizzato nel tempo, sarà questa modalità di porre noi stessi che segnerà le altre relazioni della nostra vita. 

Ci diventerà allora probabilmente insopportabile l’idea della separazione (che implica inevitabilmente il distacco da qualcosa o qualcuno o qualche periodo che ci si lascia alle spalle), a meno che non intervenga una vera e propria rivoluzione che modifichi il nostro mondo interno. Questa rivoluzione si ottiene in genere attraverso una psicoterapia, in cui si impara non il taglio definitivo che sancisca la separazione, perché questo problema si riproporrà ogni volta che la vita stessa ci porrà davanti all’angoscia di morte (sia essa reale, come nella morte fisica, che simbolica, come in tutte le occasioni di separazione da qualche persona o cosa o idea che è entrata a far parte di noi formando un tutt’uno psichico), ma il metodo del taglio. Si tratta cioè di prendere la distanza riflessiva entro di noi, riconoscendo e separando ciò che appartiene al vecchio rapporto da ciò che si riferisce al nuovo, per evitare che la sovrapposizione dei due li confonda e li renda di un’angoscia non gestibile. 

D’altra parte, se io sul piano psichico mi concepisco come tutt’uno con persone, cose o idee che fanno totalmente parte di me come se fossero una mia estensione, non posso accettarne la perdita perché, come dice Racamier, è come se venissero a mancare i «garanti» della mia esistenza, producendo una sensazione di morte, reale o simbolica. 

Il problema è quindi ancora una volta l’uscita da questi rapporti intricati e la modificazione profonda del nostro modo di porci e di concepirci sul piano psichico. Quest’ultima non ha niente a che fare con le nostre opinioni consapevoli al riguardo; anzi, capita spesso di sentir dire a qualche genitore «Io faccio di tutto per renderlo autonomo, lo mando di qua, di là, eccetera ma lui è sempre attaccato a noi», quando in realtà l’essere attaccato del bambino corrisponde esattamente al modello psichico inconsapevolmente proposto dai genitori sul piano profondo in quanto loro stessi fanno fatica ad affrontare le separazioni. 

Ma non è solo la psicoterapia la strada per curare le ferite del mondo interno di un bambino e per prevenirgli un futuro disagio, sebbene sia questa l’unica soluzione nei casi in cui il disagio sia già così rigidamente strutturato da non permettere altre uscite. 

Scopo di queste storie è anche quello di tentare di mostrare che un attento ascolto del sintomo da parte dell’ambiente che circonda il bambino può agire d’aiuto nella modificazione del suo mondo interno, funzionando da sostegno terapeutico là dove un intervento specifico sia o non necessario o non possibile e rinforzandolo là dove esso invece lo sia. 

Il tema qui privilegiato è il problema della separazione e del distacco, la cui negazione, secondo la psicoanalisi, gioca un ruolo fondamentale nella depressione e nell’angoscia di morte che la sottende. Ora, negare la separazione corrisponde a negare la vita che, essendo in continuo divenire, è fatta di costanti separazioni da momenti precedenti per quelli successivi, cioè di continui distacchi, a partire da quello dal corpo della madre nella nascita. Anche i grandi periodi di crisi esistenziale si articolano intorno a questo nodo, come l’adolescenza o la mezza età, la prima perché è il distacco dal mondo protetto e ovattato dell’infanzia, e la seconda perché porta con sé la consapevolezza definitiva della perdita della gioventù. 

Ma se un comportamento depresso è facilmente osservabile esternamente (a meno che non si tratti di una depressione mascherata) nell’adulto e a volte anche nell’adolescente, nel bambino lo è molto di meno perché è spesso veicolato da un atteggiamento che apparentemente non ha niente a che fare con la depressione. 

Oltretutto noi adulti abbiamo spesso il mito della felicità dell’infanzia, come se ci fosse insopportabile ammettere che anche un bambino possa soffrire e ci precludiamo così spesso la possibilità di vederlo nella sua complessità. Ora, se è indubbiamente vero che ogni bambino ha infinite più risorse di quante gli adulti spesso immaginino (proprio come l’erba di primavera a cui nessuno può impedire di crescere), è anche vero che il problema della separazione e della perdita è un tema che tocca tutti gli esseri umani, bambini compresi, ed è altrettanto vero che ognuno ha il proprio modo di viverla. 

Allora, davanti a un bambino che fa fatica a crescere, come se volesse restare piccolo per sempre, gli adulti che l’accompagnano potrebbero cercare di capire quale vissuto della separazione il bambino si porta dentro, e quale sia il tabù che non vuole infrangere crescendo. 

«Quanti anni avrai quando io ne avrò venti ?» chiedeva un bambino alla madre da cui faticava a staccarsi. «E quando ne avrò trenta? E quaranta? E poi? Allora io non voglio crescere perché dopo tu muori!» Ciò che il bambino aveva colto, anche se inconsciamente, era che il problema fondamentale della madre era il mito di un’infanzia felice cui era rimasta tenacemente legata, quasi come se il tempo fosse trascorso solo nel mondo di fuori e non in quello di dentro. 

A questo punto lei stessa era portata a desiderare inconsapevolmente che il bambino restasse in un mondo magico così affascinante, anche se consapevolmente faceva di tutto per renderlo autonomo e farlo crescere L’elaborazione del lutto, della separazione, della perdita è quindi il nodo intorno a cui ruotano queste storie, nate dal materiale emerso sull’onda di quell’emozione. Bisogna accettare di perdere qualcosa per poter accedere a qualcosa d’altro: ciò che il bambino, o l’adolescente, o anche semplicemente la parte non cresciuta che ognuno di noi si può portare dentro deve accettare di perdere è innanzi tutto la dipendenza, anche espressa dalla controdipendenza reattiva, dal mitico e magico mondo infantile interiorizzato, a partire dalla fusione intrauterina. 

Perdere la controdipendenza reattiva vuol dire accedere alla libertà interiore di non fare più delle scelte di opposizione all’ambiente nell’illusione di affermare la nostra autonomia e perpetuando in realtà un rapporto di dipendenza che continua a condizionarci. Infatti è sempre presente dentro di noi ciò a cui dobbiamo disobbedire, costringendoci a un comportamento di infrazione che non abbiamo liberamente scelto e che riproduce quindi un modello di mancata libertà interiore. 

«Perché devo essere sempre condizionata dagli altri? Perché devo andare a un appuntamento alle cinque se fuori c’è il sole e mi viene voglia di fare una passeggiata? Non è lo stesso se arrivo mezz’ora dopo? Perché questa società deve condizionare tutta la mia vita?» Questo per anni era stato il ritornello quotidiano di Speranza, che arrivava costantemente in ritardo a tutti gli appuntamenti, di qualsiasi genere fossero. C’era qualcosa dentro di lei che, per quanto consapevolmente credesse di sforzarsi di fare il contrario, la riportava sulla strada coatta del ritardo sistematico, da lei subito razionalizzato brillantemente con disquisizioni filosofico esistenziali. Finché un giorno, all’improvviso, le si è spalancata una finestrella che, per quanto ovvia, era stata fino ad allora ermeticamente chiusa: «Ma era mia madre che mi ossessionava con la puntualità! » 

«Era con lei che non si poteva mai arrivare in ritardo!». E così tutte le sue disquisizioni filosofiche sulla libertà sono cadute all’improvviso davanti all’evidenza di un vero e proprio meccanismo di schiavitù interiore, questa madre che lei nel suo mondo interno si portava a spasso da una vita, dovunque andasse, per poterle disobbedire arrivando in ritardo, in un contesto culturale in cui il ritardo stesso era una trasgressione e non un comune codice di comportamento. 

Ed è stato allora che la sua esigenza di libertà, che era del tutto genuina, ha potuto farsi finalmente strada dentro di lei, perché Speranza si è resa conto che sul piano psichico riguardava anche questo stesso meccanismo di schiavitù da lei inconsapevolmente alimentato per anni, proiettandolo sul mondo di fuori. 

La strada da percorrere in questo vero e proprio processo di liberazione è però lunga e difficile perché l’interdipendenza (a differenza dall’intersoggettività) è una catena a tanti anelli in cui ognuno dipende da un altro che a sua volta ha ricevuto questo modello relazionale, sigillando così un rapporto di non libertà sul piano psichico [4]. L’elaborare la separazione aiuta quindi entrambi, chi dipende e colui da cui egli dipende, perché quest’ultimo non cada nella trappola di riconoscersi e gratificarsi nella schiavitù dorata di una relazione che imprigiona anche lui (in cui io mi identifico nell’aver bisogno di un altro che diventa garante della mia esistenza e che a sua volta si identifica nel fatto che io abbia bisogno di lui, perpetuando la bisognosità come modello di relazione). Un più libero rapporto d’amore supera invece questa interdipendenza che è necessaria e inevitabile nei primi anni di vita perché risponde al bisogno assoluto del bambino. 

Una tale scelta, nel caso del rapporto con un bambino, implica però che anche l’adulto faccia i conti con se stesso e il suo grado di autonomia sul piano dell’esistere. Ecco perché queste favole sono non solo destinate a coloro che hanno a che fare con i bambini, ma anche a noi adulti in generale, alla parte fatta di sogni non avverati che spesso ci portiamo dentro come retaggio storico del pensiero magico onnipotente infantile. Se non facciamo i conti con lei corriamo infatti il rischio di sovrapporla arbitrariamente al bambino o all’adolescente reale che ci stanno di fronte, identificandoci o controidentificandoci in lui nella nostra parte infantile senza riuscire a capire dove finisca l’uno e dove inizi l’altro e non riuscendo quindi a riconoscerli nella realtà specifica e irripetibile della loro singola storia. 

« È per la paura di morire di sete!» dice Silvana in un laboratorio per bambini, mettendo un guardiano al suo disegno, una tazza rossa destinata a dissetare una sete inestinguibile. 

Silvana è stata desiderata e voluta dalla madre, la quale sperava che con la sua nascita il marito, ormai avviato sulla strada dell’alcolismo, si sentisse legato a una maggiore responsabilità nei confronti della famiglia e che lei stessa potesse uscire da una situazione deprimente avendo una nuova vita in casa, un bambino piccolo di cui occuparsi in tutto e per tutto. Poche altre cose come il nascere di una nuova vita hanno la simbologia profonda della rinascita, della primavera, della speranza che risorge. Invece il padre di Silvana non ce l’ha fatta a emergere dall’alcolismo in cui è gradualmente precipitato fino a perdere il lavoro e la famiglia e la madre si è ritrovata sola, ad andare avanti fra mille difficoltà, in un alternarsi di depressioni che la isolano dai figli, che pure ama teneramente. 

Anche Silvana ama sua madre e l’aiuta come può, ma portando dentro di sé un po’ della sua malinconia depressiva. E così è nel sintomo che compare il dramma nascosto che la bambina vive dentro di sé e che solo i suoi attacchi d’asma riescono a far parlare, insieme al suo irrigidimento emotivo, alle difficoltà scolastiche e all’incapacità di piangere. E quando finalmente il sintomo comincia a guidarla e la bambina impara di nuovo a piangere, non è solo lei che ne viene aiutata ma anche la madre, che comincia a capire almeno parte di ciò che le era oscuro prima, il che non le toglie la depressione ma gliela rende più tollerabile. La madre di Silvana, che ama sua figlia, è stata toccata emotivamente dal sacrificio della bambina che si è assunta un carico non suo e ha capito che il modo migliore per aiutare sua figlia è quello di aiutare se stessa, affinché la bambina senta che la madre è abbastanza forte da farcela da sola. È stato però solo l’ascolto attento del sintomo che ha permesso di capire ciò che succedeva, il legame nascosto esistente tra madre e bambina, che imprigionava entrambe in un rapporto di sofferenza psicologica. 

Il sintomo è quindi l’emergere delle parti sane, dell’istinto vitale, ciò che viene a segnalare che c’è in atto un processo di interazione latente che sfugge alla nostra comprensione e che dobbiamo imparare a leggere. «Non siamo noi che curiamo la nostra nevrosi,» diceva Jung «è lei che cura noi.» L’idea di preparare delle storie ruotanti intorno al tema della separazione è proprio scaturita dall’osservazione di quanto questa problematica incida in questo momento storico nel processo di crescita di un bambino. Il progressivo ridursi del nucleo familiare da una dimensione allargata a una ridottissima quale è quella esistente oggi nel nostro modello culturale, soprattutto nelle grandi aree urbane, ha infatti portato anche al restringimento degli spazi di relazione affettiva, per cui diventano probabilmente tanto più vincolanti e condizionanti i rapporti familiari ristretti. 

Tuttavia i temi accennati dal materiale delle storie non interessano solo il rapporto genitore-figlio, che è necessariamente più stretto, coinvolgente, condizionante di altri, ma più in generale il rapporto adulto-bambino, che riguarda quindi campi quali scuola, assistenza, sanità, dove un’ottica di lettura più problematica dei comportamenti può servire a volte, se non a sbloccare, almeno a non fissare e cristallizzare la sofferenza di un bambino, o un adolescente, che può un domani sfociare in una patologia psichiatrica vera e propria, o in una grossa sofferenza psicologica, o anche in forme di emarginazione, devianza sociale, disagio. 

Elaborare la propria dipendenza affettiva significa compiere ogni volta la separazione non tanto dall’altro reale (genitore, figlio, partner) quanto dall’altro immaginario che ci portiamo dentro. È un taglio che non ha niente a che fare con la distanza geografica, come dimostrano tante storie di scelte di controdipendenza da parte di adolescenti e anche adulti che riescono a staccarsi dal genitore reale, ma non da quello interiorizzato, che continuano ostinatamente a portarsi dentro ogni volta che fanno una scelta reattiva. Spazio e tempo quali li concepiamo nella nostra realtà esterna sono categorie che non albergano nell’inconscio o cui esso è indifferente, perpetuando la presenza di rapporti che nella vita quotidiana possono essere interrotti da migliaia di chilometri di distanza, o da anni di tempo o dalla stessa morte. 

«Voglio papà per dirgli tutte queste cose» urlava durante una crisi un giovane uomo, ad anni di distanza dalla morte del padre reale. Tutte le scelte della sua vita, anche adulta, erano state condizionate dalla presenza di questo paterno persecutorio che si portava appresso da anni, in un regime di vera e propria schiavitù interiore. La coazione dei suoi comportamenti è stata poi perpetuata nel rapporto con il figlio, desiderato, accolto e destinato nella sua mente a essere la sua arma di riscatto, senza la consapevolezza che nel momento in cui si perpetua inconsciamente questo bisogno di rivincita come meccanismo coatto, si perpetua inevitabilmente anche ciò da cui ci si vuole riscattare. Lo si introduce infatti fantasmaticamente nei nuovi rapporti, come poteva essere quello con questo figlio, un bambino non ancora nato e già così carico di aspettative. 

È la paura della morte, della catastrofe, ciò che impedisce di elaborare la separazione e ci tiene così saldamente ancorati alla nostra vecchia modalità d’esistere. Il separarsi dall’altro implica tristezza, come ogni volta che si abbandona qualcosa, ma la tristezza ha un contenuto e una funzione preparatoria vitale e portatrice di vita. Il non separarsi, il fondersi e il confondersi con l’altro (sia esso pure una semplice nostra struttura psichica), implicano invece la depressione, che è il trionfo dell’angoscia di morte, dell’indifferenziato, della negazione del fluire del tempo. 

I ritmi del tempo scandiscono da millenni la vita dell’uomo sul nostro pianeta, quelli esterni con il susseguirsi del giorno e della notte, delle stagioni, dei prodotti della terra e così via, quelli interni nel suo stesso corpo, con i ritmi circadiani essenziali alla vita, quali il ritmo cardiaco, quello sonno-veglia, quelli ormonali, eccetera e tutti confluiscono nel passare del tempo, segnato costantemente da un inizio e da una fine di qualcosa, cui succedono un altro inizio e un’altra fine, incessantemente. Per questo il protagonista principale di queste storie è il Bosco delle Sette Querce, coi suoi ritmi che si susseguono ciclicamente e che danno un senso anche al vivere, al nascere e al morire, che si alternano incessantemente, nei fiori, nelle piante e negli animali e questo è il contenuto delle storie che i cuccioli imparano dagli anziani della Scuola dello Spiazzo. Gli animali del bosco appartengono a un ordine che trascende, complessivamente, le loro singole esistenze, brevi spazi intercorrenti fra alba e tramonto, inseriti nei più lunghi cicli delle stagioni e degli anni. 

«Non è la terra che appartiene agli uomini» dicevano gli Indiani d’America «sono gli uomini che appartengono alla terra.» Ora, se è vero che la tematica depressiva della separazione tocca tutti gli esseri umani, è altrettanto innegabile che in determinati momenti della vita e in determinate persone essa raggiunge una intensità di sofferenza tale da assumere una vera rilevanza clinica. Che essa non abbia in genere a che fare con la cosiddetta follia, se non nei casi di forme particolarmente gravi, è altrettanto riconosciuto, in quanto di solito non altera il giudizio e il pensiero del portatore, ma lo colora di un pessimismo così nero da influenzare tutta la realtà circostante. Molti sintomi somatici spesso l’accompagnano e ne esprimono la sofferenza, come i disturbi del sonno, del ritmo cardiaco, dolori e disfunzioni gastrointestinali, vertigini, calo di pressione, stipsi intestinale, disturbi digestivi, dolori localizzati in determinate parti, eccetera. La disperazione è in genere il sentimento che la definisce meglio e che sintetizza lo stato d’animo di chi in quel momento ne è portatore, producendogli una sofferenza che nessun dolore fisico può eguagliare. 

Indagini sicuramente sottostimate parlano oggi di un tasso dal 10% al 20%, di depressione nella popolazione mondiale, con una apparente prevalenza di donne sugli uomini e un’alta incidenza negli adulti giovani, dai diciotto ai quarantaquattro anni [5]. Ora, è proprio in tale fascia di età che nella vita una donna sperimenta in genere la maternità e il rapporto con dei bambini che nascono e crescono (sempre nello stesso genere di indagini, seppure prese con molta prudenza, sembrano proprio le casalinghe non occupate fuori casa la categoria che ne appare più colpita). 

Qualunque possa essere la strada che si segue per cercare di capire il perché dell’apparente maggiore incidenza di depressione nelle donne rispetto agli uomini, è indubbio che nascere e crescere, avendo un rapporto privilegiato e irripetibile nel corso della vita di un individuo come è quello con la madre, diventa particolarmente faticoso nel caso di una depressione materna. Il bambino, infatti, con quello che si potrebbe definire anche un commovente atto di generosità, se ne sobbarcherà un po’ il peso, per sgravare la madre di cui sul piano profondo avverte tutta la sofferenza, vivendosi come parte sua e non separato da lei. 

L’idea di queste favole è proprio partita dal riflettere sugli infiniti colloqui di consulenza psicologica che vengono fatti per bambini che presentano dei sintomi (spesso anche di tipo scolastico) e che hanno in realtà alle spalle un problema di depressione materna. 

Poiché non tutti, evidentemente, sono casi da psicoterapia, ma tutti indistintamente esprimono disagio e malessere a livello psicologico, ci troviamo sempre come insegnanti e come operatori psicologici a chiederci che cosa si possa fare collettivamente e per gli uni e per le altre, possibilmente prima che la cosa si cristallizzi e cronicizzi o anche semplicemente, come per fortuna spesso avviene, per accelerare e favorire il processo naturale di risoluzione. 

La prefazione delle favole è nata proprio in un laboratorio per bambini che, sul modello di quelli utilizzati a Bonneuil da Maud Mannoni [6], lavora sull’angoscia di morte e sulla separazione che sancisce l’inizio e la fine degli eventi, per aiutare il bambino a elaborarli dentro di sé. Il messaggio di fondo è che è importante accettare di perdere qualcosa perché qualcosa d’altro possa aver luogo e la strada per l’accettazione di questa perdita è in genere indicata dal sintomo. 

Solo se ha alle spalle un adulto che non ha bisogno della sua dipendenza un bambino si sente pienamente libero di crescere, altrimenti il suo percorso sarà segnato dalla lacerazione fra la scelta di tradire il genitore (o l’adulto di riferimento) oppure il proprio sé, ed è quest’ultimo che in genere è perdente, finché non troverà il modo di uscire alla luce sotto l’aspetto del sintomo. 

Cogliere quest’ultimo, interrogarsi sul modo di passare dal suo messaggio manifesto a quello latente, cioè di rovesciarlo nel suo significato, è quindi la strada che può percorrere l’adulto che accompagna dei bambini che compiono la conquista, ma anche la fatica di crescere. Una volta trovato il senso del sintomo (o per lo meno di quello dominante, in quanto ognuno è a sua volta fatto di una pluralità) ciascuno ha già in mano la chiave per andare avanti: è solo il non capire o il negare i messaggi ciò che non permette di procedere. Questo significa che l’inevitabile domanda: «Allora io che cosa posso fare?», invece di porla al tecnico (il quale ha il compito di aiutare a capire, non di dare ricette), ognuno la porrà a se stesso perché è solo lui che sta dentro alla sua storia, alla situazione, alla rete di relazioni, quotidiane o meno, che l’accompagnano nella sua interazione con il bambino. Il problema non è quindi quello di dare delle ricette asettiche di comportamento ideale, verso le quali tutti ci sentiremmo inevitabilmente inadeguati, con l’aggravio dell’insorgere del senso di colpa che questo determina, ma esattamente l’opposto: quello di capire ciò che succede. Al contrario, il sentirsi in colpa non fa che aumentare l’ansia che genera la confusione, impedendo, a quel punto, la vera comprensione delle cose. 

Il nodo del problema è capire che cosa succede e perché, non trovare il capro espiatorio a destra o a manca. 

La psicoanalisi ci ha insegnato che la logica del capro espiatorio è solo il meccanismo con cui ci difendiamo dalle cose che ci disturbano dentro di noi, proiettandole sugli altri. 

Rendersi conto di questo vuol dire allora viaggiare sulla strada della comprensione delle nostre interazioni con gli altri e dei nostri comportamenti. La struttura di queste storie parte da un sintomo per arrivare a tracciare la strada per la sua lettura e comprensione; la soluzione c’è, per tutti, visto che sono favole per individuare la propria strada, ma non è così importante, è solo accennata e potrebbe essere anche diversa. 

Ciò che importa non è il valore magico della soluzione (la cui spasmodica attesa riprodurrebbe invece ancora una volta una dipendenza e la negazione del conflitto che è sempre un elemento vitale), ma il cogliere e il capire il senso del sintomo, perché la strada da percorrere è già scritta lì, implicitamente, e ognuno la individuerà all’interno della propria storia. 

«Mi sento più caldo dentro» ha esclamato Giovanni, un bambino la cui storia aveva molti spunti in comune con quella dello scoiattolo che non imparava a scuola, di cui aveva sentito una versione ridotta. 

«Allora questo vuol dire che uno ce la può fare anche da solo!» ha continuato, a metà strada fra il parlare a sé e il parlare all’altro, con l’emozione di una cosa scoperta all’improvviso e inaspettatamente. 

La storia ha rappresentato per lui una finestrella aperta, una delle stesse che a poco a poco si spalancano, improvvise e inaspettate, nel corso di una psicoterapia riuscita e che ci permettono di vedere e sentire emotivamente delle cose che prima non riuscivamo né a vedere né a sentire, potenzialità sepolte chissà dove dentro di noi. E non importa se quella finestrella si può chiudere di nuovo per un po’, altrettanto improvvisamente; l’importante è che essa abbia dimostrato di funzionare e che si sia aperta anche una sola volta. A poco a poco lo potrà fare sempre più spesso e a lei se ne aggiungeranno altre, se facciamo nostro il metodo che non è quello di volere la soluzione a tutti i costi, ma di imparare a problematizzare la ricerca, partendo dalla certezza di non sapere e lasciandoci guidare lungo questa strada dalla potenzialità trasformatrice del sintomo. 

Solo se riusciremo ad abbandonare il terreno delle false certezze che ci fanno arroccare su posizioni difensive che ci impediscono di capire veramente forse anche noi adulti potremo a nostra volta porci davanti a quell’avventura così affascinante ma così misteriosa e difficile che è la vita, con lo stupore e la meraviglia del bambino che scopre il mondo per la prima volta. Come dire che, se c’è un ambito in cui noi adulti possiamo aiutare un bambino a crescere, ce n’è un altro in cui è lui che ci può insegnare qualcosa: guardare il mondo come se ogni volta fosse una scoperta nuova. 

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Note 

1. A. Freud, “L’adolescenza come disturbo evolutivo” (“Opere”), Bollati-Boringhieri, Torino 1978. (torna al testo

2. S. Freud, “Inibizione, sintomo e angoscia” (“Opere”) Bollati Boringhieri, Torino 1971. (torna al testo)

3. Fra le tante definizioni possibili del sé mi sembra utile citare quella di Racamier: «Il sé è la funzione per mezzo della quale l’essere umano è in grado di provarsi come un’entità individuale, differenziata, unificata, reale e permanente». (P.C. Racamier, “De Psychanalyse en Psichiatrie”, Payot, Parigi 1979). (torna al testo)

4. S. Montefoschi, «L’uno e l’altro», Feltrinelli, Milano 1977. (torna al testo)

5. D. Widlocher, “La depressione”, Mondadori, Milano 1992. (torna al testo)

6. M.Mannoni, “Un lieu pour vivre”, Seuil, Parigi 1976. (torna al testo)

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