Il deserto-nichilismo, dal filosofo tedesco identificato con la svalutazione di tutti i valori vigenti del mondo borghese-cristiano, è un evento in fieri: non si può semplicemente negarlo o combatterlo. Tentare di restaurare la vecchia scala di valori è altrettanto superfluo, perché questi si disgregano dall’interno, si decompongono in sabbia: il mondo «vero» è diventato una favola. Non soltanto il mondo «vero» – il dominio della metafisica – è diventato una favola, ma anche il mondo «apparente» è altrettanto fallace.
Al contrario, il passo di Nietzsche ci dice un’altra cosa. Il deserto sta per sommergerci, eppure non possiamo fatalmente abbandonarci alla furia della sabbia, o rifugiarci su un’altura per organizzare la nostra nuova vita come nomadi del deserto. Il suggerimento di Nietzsche ci sprona ad attraversare il deserto, non semplicemente a cercare rifugio. La distinzione tra chi con un atto di coraggio decide l’attraversamento dello spazio e del vuoto – nichilismo «attivo» – e chi rimane dove si trova, nichilismo «passivo». Il deserto-nichilismo, dal filosofo tedesco identificato con la svalutazione di tutti i valori vigenti del mondo borghese-cristiano, è un evento in fieri: non si può semplicemente negarlo o combatterlo. Tentare di restaurare la vecchia scala di valori è altrettanto superfluo, perché questi si disgregano dall’interno, si decompongono in sabbia: il mondo «vero» è diventato una favola. Non soltanto il mondo «vero» – il dominio della metafisica – è diventato una favola, ma anche il mondo «apparente» è altrettanto fallace. Una conclusione che trova la sua analogia nella dottrina indiana di Maya, l’illusione che soggiace alla sfera del divenire. Mentre, però, la filosofia indiana ci spinge a riconoscere l’illusione in quanto tale e a trascendere le dicotomie del divenire, Nietzsche ci sprona a reagire, ad attraversare il deserto, assumendolo come compito essenziale dell’uomo. La reazione non è una svalutazione dell’esistenza mondana – sebbene non in tutte le dottrine indiane si presenta una sconfessione della prassi e dell’impegno karmico, pensiamo al buddhismo mahayana o al tantrismo – ma un invito a cercare un nuovo spazio dove fondare nuovi valori. Spazio che può essere pensato come a) situato nel deserto o b) al di fuori di esso. Nel primo caso, prende consistenza la tesi heideggeriana che interpreta la filosofia di Nietzsche come massima espressione del nichilismo, assicurato dalla volontà di potenza pensata come dominio della tecnica. Se lo spazio in cui fondare nuovi valori non è al di fuori del deserto, ma soltanto qualche miglia più in là e comunque sempre all’interno di esso, i valori che devono essere posti sono gli stessi del mondo capitalistico-tecnocratico. È il trionfo della «società dello spettacolo», come scrive Debord, in cui l’apparato ed il postmoderno hanno «liquidato» – altra celebre definizione coniata da Baumann – le stesse categorie della nostra esperienza del mondo. In questo senso, se Nietzsche ha pensato di trasvalutare i valori senza avere oltrepassato le sabbie, allora ha effettivamente ragione Heidegger. Ma se, al contrario, facciamo nostra la seconda opzione, il mondo della tecnica è ancora compreso nel deserto e noi siamo ancora in cammino verso nuovi territori. Condizione paradossale, questa tensione utopica verso un altrove, pensato come un topos escatologico che verifica ed accredita quanto fin qui accaduto: non era stato forse proprio lo stesso Nietzsche a sconfessare qualsiasi finalismo storicistico, riducendo la metafisica a mera favola? Come deve essere pensata, allora, questa seconda possibilità, qualora si verifichi un’improvvisa nuova convergenza nel pensiero escatologico? Esiste forse una terza possibilità, da elaborare in connessione con il pensiero dell’eterno ritorno. Secondo il noto passo della Gaia Scienza si tratta di rispondere ad un demone che ci presenta la possibilità che ogni attimo della nostra esistenza, così come la stiamo vivendo, si riproduca all’infinito, innumerevoli altre volte. La dottrina dell’amor fati era già stata elaborata dallo stoicismo, non è certo una teoria originale. Ma, Nietzsche dice che non basta volere semplicemente l’eterno ritorno dell’identico, si deve anche e soprattutto amarlo , desiderarlo intensamente. Con la differenza che l’universo degli stoici è pensato e disciplinato da una mente razionale, mentre per il filosofo tedesco tutta l’esistenza è intrinsecamente irrazionale, priva di una qualsiasi parvenza di ordine e giustizia. Alla luce di questa chiave di lettura, perché si dovrebbe desiderare di uscire dal deserto del nichilismo se ogni attimo della nostra vita deve essere amato? Non dobbiamo anche desiderare in eterno le sabbie del nulla? Quale strana situazione ci si presenta davanti, quale bizzarro conflitto tra lo sguardo ed il pensiero? Con lo sguardo cerchiamo la fine della distesa di sabbia, con il pensiero aneliamo, bramiamo il deserto. Il lettore di Nietzsche sa che il carattere asistematico del suo pensiero, rende improbabile qualsiasi facile appropriazione e riduzione unilaterale. Vi sono molti Nietzsche nell’opera di Nietzsche, ognuno deve ricercare il proprio, senza unilateralità. A me sembra che lo sguardo non debba essere per forza proiettato in una direzione rettilinea, orizzontale. Se tutto ritorna, attraversare il deserto vuol dire lasciarsi alle spalle anche l’idea che dal deserto si può veramente uscire. Vuol dire rinunciare alla speranza utopica dell’avvento di una nuova era, di una fine del nichilismo. Leggere il passo sul «deserto che avanza» attraverso la dottrina dell’eterno ritorno, significa constatare come l’oltrepassamento non riguarda tanto il deserto, quanto l’idea che sia possibile uscire dal deserto. Il nichilismo è come un labirinto senza uscita: l’unica possibilità è rinunciare a cercare l’uscita per cominciare ad amarlo. Abituarsi al labirinto del nichilismo, però, implica necessariamente potenziarne i margini con la tecnica, o, forse, sentirsi talmente bene in esso da dimenticarlo? Ricordiamo la distinzione tra il nichilismo passivo e quello attivo. Il nichilista passivo si arrende all’avanzare del deserto, ne è sommerso: atteggiamento che potrebbe coesistere con quello del postmoderno homo tecnologicus, il quale non nega più il mondo, vi abita e basta . L’altro atteggiamento del nichilista attivo che attraversa il deserto per approdare all’idea che non vi è più né uscita, né deserto, non potrebbe coincidere con la sublimazione stessa del deserto? Il dire sì alla vita ed al deserto, non conduce dritto all’oltrepassamento delle sabbie del nichilismo? Credo che sia possibile presentare questa lettura alternativa del passo in questione, in raffronto ad un mero radicamento tecnocratico nel nichilismo o all’impossibilità di una tensione utopico-millenaristica venata da suggestioni new-age. Si deve abitare all’interno del deserto, sublimandolo nella mente, dicendo sì, per coglierne l’oltrepassamento. Oltrepassamento che supera, dissolve, la stessa contrapposizione tra nichilismo e volontà di potenza, tra decadenza spirituale e utopismo millenaristico. Il nichilismo è, dunque, superato dall’interno. D’altro canto sappiamo che per Heidegger il nichilismo coincide con la stessa storia dell’Occidente, nella quale dell’essere non vi è più traccia. Idea (Platone), enèrgeia (Aristotele), ens creatum (teologia cristiana), soggettività (Descartes), monade (Leibniz), spirito (Hegel), volontà di potenza (Nietzsche), gestell/impianto (tecnica). Il nichilismo come destino dell’Occidente, già insito nella stessa dottrina platonica delle idee. Diversamente dal pensiero della Tradizione, per Heidegger la risposta al nichilismo non consiste in un ritorno alla metafisica: anzi quest’ultima deve essere considerata come la radice stessa dell’oblio dell’essere. Soffermiamoci sull’idea heideggeriana di tecnica. Il gestell, la tecnica è il compimento del nichilismo ed al contempo la possibilità di un nuovo inizio. La tecnica, attirando l’attenzione sul pericolo insito nella sua essenza, richiama contemporaneamente l’attenzione sul proprio mistero e «su ciò che salva» (Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1985). Come nel caso di Nietzsche, anche per Heidegger, il culmine del nichilismo, il momento più basso, coincide con l’inizio della riscossa. Heidegger cita l’elegia di Hölderlin: «Ma dove è il pericolo, cresce/Anche ciò che dà salvezza» ( Cfr. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin , Adelphi, Milano, 1988). È una sorta di trasmutazione alchemica, dove alla nigredo segue l’albedo, poi la rubedo: nel mezzo del deserto nietzscheano inizia il superamento stesso del nichilismo, nel gestell (impianto) della tecnica heideggeriana inizia la salvezza. Con questa traiettoria si apre una prospettiva radicalmente diversa, dalle solite metafisiche della storia che vedono la salvezza nell’avvento di un nuovo Yuga o era cosmica. È superata anche la concezione galimbertiana della tecnica ridotta a circolo autoreferenziale, dal quale è impossibile uscire. Nella stessa tèchne-nigredo si cela la téchne-albedo . Le possibilità intrinseche alla realtà virtuale sono state presentate da Zolla in Uscite dal mondo (Cfr. E. Zolla, Uscite dal mondo , Aldelphi, Milano 1992), ma fin dagli anni ottanta si è diffusa una particolare corrente neopagana che cerca di utilizzare la cibernetica per ricercare nuove possibilità spirituali. In particolare, il Pop Magick , il tecnopaganesimo, lo sciamanesimo metropolitano, attraverso gli scritti di Grant Morrison, Neil Gaiman, Phil Hine, Peter Carrol, Taylor Ellwood, ecc. Può darsi che queste nuove correnti pagane siano delle mere mode, destinate a scomparire presto, assorbite dall’industria culturale. Tuttavia, il compito del pensiero è di analizzare la contemporaneità, non quello di elaborare visioni messianiche o dottrine escatologiche. La lezione della contemporaneità è che la tecnica, lungi dal realizzare semplicemente l’eclisse del sacro, la perdita del Centro ed il trionfo del nichilismo – sta producendo nuove forme di spiritualità. Non siamo in grado di sapere quanto esse potranno durare, né dove ci condurranno. Ma non è una buona ragione per etichettarle frettolosamente come «controiniziazione». Si deve attendere per capire le possibili evoluzioni o regressioni del fenomeno. |