Morte: la grande avventura – Parte II

Letture d'Esoterismo OrientaleLe nostre idee sulla morte sono errate; la consideriamo come qualcosa di triste e di pauroso, mentre in realtà essa è la grande liberatrice, che ci permette di entrare in una sfera di attività più ampia, è la liberazione della Vita dal veicolo cristallizzato e da una forma inadeguata.

Morte: la grande avventura – Parte II

a cura di Adriano Nardi

Dagli scritti di Alice A. Bailey e del Maestro D. K.

Parte II

Le nostre idee sulla morte sono errate; la consideriamo come qualcosa di triste e di pauroso, mentre in realtà essa è la grande liberatrice, che ci permette di entrare in una sfera di attività più ampia, è la liberazione della Vita dal veicolo cristallizzato e da una forma inadeguata.

Consideriamo ora la salvezza della natura corporea mediante la morte.

Definiamo dunque questo processo misterioso cui vanno soggette tutte le forme, e che tanto sovente – poiché non lo si comprende – viene temuto come l’atto finale. La mente umana è ancora poco sviluppata, sì che il terrore dell’ignoto e dell’insolito e l’adesione alla forma, hanno prodotto una situazione tale per cui uno degli eventi più benefici del ciclo vitale del Figlio di Dio che si incarna è considerato come qualcosa da evitare e posporre quanto più possibile.

La morte, se solo poteste rendervene conto, è una delle attività più consuete. Siamo morti molte volte, e torneremo a morire. È un fenomeno che riguarda essenzialmente la coscienza. In un dato momento siamo consci del mondo fisico, e l’istante dopo siamo ritratti in un altro mondo, impegnati in altre attività. Finché la coscienza si identifica con la forma, la morte conserva il suo antico terrore. Ma quando si immedesima con l’anima, e può concentrarsi a volontà in qualsiasi forma o livello, o in qualsiasi direzione dello spazio divino, la morte scompare.

Per l’uomo comune essa è una fine catastrofica, poiché interrompe tutti i rapporti umani, termina tutte le attività fisiche, recide tutti i legami affettivi e lo getta (suo malgrado) nell’ignoto che teme. È per lui come dover lasciare l’ambiente caldo e luminoso, accogliente e familiare, ove sono raccolte le persone care, per uscire nella notte fredda e tenebrosa, solo e spaurito, sperando il meglio, ma senza alcuna certezza.

Ma si dimentica che ogni notte, nel sonno, si muore al corpo fisico per vivere altrove. Si dimentica di sapere già facilmente lasciare il fisico; e poiché non si sa ancora registrare nel cervello la memoria di quel passaggio e del successivo periodo di attività vivente, non si scorge il nesso tra sonno e morte. Ma questa, dopo tutto, non è che un interludio tra due operazioni fisiche: si è «via» per un periodo più lungo. In effetti, il processo quotidiano del sonno e quello meno frequente della morte sono identici, con una sola differenza: nel primo, il filo conduttore della forza vitale resta intatto, e costituisce la via per rientrare nel corpo; nel secondo, si spezza. Allora l’entità cosciente non si può reinserirsi nel corpo, e questo, mancando il principio di coesione, si disgrega.

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La paura della Morte basa:

a.

Sul terrore del processo di separazione insito nella morte stessa.

b.

Sull’orrore per l’ignoto e l’incomprensibile.

c.

Sul dubbio circa l’immortalità.

d.

Sul dolore di lasciare i propri cari, o di perderli.

e.

Su antiche reazioni a morti violente già sperimentate, annidate nel subconscio.

f.

Sull’attaccamento alla forma, con cui ci si è identificati.

g.

Su vecchi ed erronei insegnamenti di Paradiso e Inferno.

Io parlo della Morte in quanto la conosco sia nella sua veste mondana ed esterna, quanto nella verità della vita interiore, dove non esiste. Si entra, semplicemente, in una vita più vasta, liberi dai ceppi del corpo terreno. Il tanto temuto processo di distacco non esiste, salvo che nel caso della morte violenta e improvvisa, e anche allora ciò che è veramente penoso si riduce a un istante, al senso angoscioso della distruzione e del pericolo incombenti, a qualcosa che molto somiglia a una scossa elettrica. Nient’altro. Per gli uomini di scarsa evoluzione, la morte è letteralmente un sonno, un oblio, poiché la mente non è desta quanto basta per reagire, e la memoria è praticamente vuota di ricordi. Per l’uomo di medio livello, buon cittadino, dopo la morte il processo vitale, gli interessi e le tendenze proseguono nella sua coscienza. Questa, e la consapevolezza, restano uguali ed inalterate. Egli non nota una gran differenza, trova aiuto e sovente non s’accorge neppure d’aver subito l’esperienza della morte. I malvagi, gli egoisti crudeli, i criminali, e quei pochi che vivono solo per la materia, sperimentano invece una condizione chiamata «incatenati alla terra». I legami che essi stessi hanno forgiato con la terra, e la tendenza materialistica di tutti i loro desideri li costringono nei pressi della terra e nei paraggi della loro ultima vicenda terrena. Essi cercano con disperazione e con ogni possibile mezzo di riprendere quei contatti e di ritornare in quell’ambiente. In pochi casi, anche individui buoni ed elevati, per il grande amore posto nei rimasti, o per il desiderio di eseguire qualche dovere urgente inadempiuto, si ritrovano in una condizione simile. Per l’aspirante, la morte segna l’ingresso immediato in una sfera di servizio e di espressione cui è assuefatto, e che subito riconosce. Durante il sonno, infatti, aveva frequentato un dominio di servizio attivo e di apprendimento. Ora, semplicemente, vi dimora per tutte le ventiquattro ore (per dirla secondo il tempo fisico) anziché per le sole, poche ore di sonno.

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Altro timore che induce l’uomo a considerare la morte come una calamità è inculcato dalla teologia, specie da alcune sette Protestanti e dalla Chiesa Cattolica: è la paura dell’inferno, del castigo, per di più sproporzionato agli errori commessi durante la vita terrena; sono gli orrori imposti dall’ira divina. Si pretende che l’uomo deve subirli, senza via di scampo, se non tramite espiazione altrui.

Ma in verità tutto ciò non esiste: né l’ira di Dio, né l’inferno, né l’espiazione vicaria. Un solo grande principio palpita in tutto l’universo, ed è l’amore; e il Cristo è presente, e insegna all’uomo che l’anima esiste e ci redime con la sua vita, e che l’inferno è la Terra stessa, dove impariamo a conseguire la salvezza, attuata dal principio di amore e di luce, seguendo il suo esempio e l’anelito interiore dell’anima nostra. L’inferno è un avanzo dell’indirizzo sadico dato al pensiero cristiano nel medio evo e delle erronee dottrine del Vecchio Testamento a proposito di Jehovah, il Dio tribale degli Ebrei. Jehovah non è Dio, il Logos planetario, il Cuore eterno dell’Amore rivelato dal Cristo. Ma con il graduale disperdersi di queste concezioni errate, anche l’inferno svanirà dal ricordo, sostituito dalla comprensione della legge secondo cui ciascuno opera la propria salvezza nel mondo fisico, cioè rettifica gli errori quivi commessi, sì che un giorno potrà cancellare ogni traccia di male dalla propria vita.

Ma qui non intendo intavolare una disputa teologica. Voglio solo farvi notare che l’attuale terrore della morte deve cedere alla comprensione intelligente della realtà delle cose, sostituito dal concetto di continuità della vita, che elimina ogni inquietudine, e accentuare l’idea della vita una, di una sola Entità cosciente, che sperimenta in molti corpi.

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Nel secolo venturo, la morte e la volontà assumeranno nuovi significati per l’umanità, e molte vecchie idee scompariranno. Per l’uomo medio dotato di raziocinio, la morte è un punto di crisi catastrofica. È la cessazione e la fine di tutto ciò che ha amato, di tutto quanto gli è familiare e che può essere desiderato; è il rovinoso ingresso nell’ignoto, nell’incertezza, e la brusca conclusione di tutti i piani e progetti. Per quanto grande possa essere la vera fede nei valori spirituali, per quanto chiaro possa essere il raziocinare della mente circa l’immortalità, per quanto conclusiva possa essere l’evidenza della persistenza e dell’eternità, resta sempre un interrogativo, il riconoscimento della possibilità di una fine e di un annullamento totali e della cessazione di ogni attività, di tutte le reazioni affettive, di tutti i pensieri, le emozioni, i desideri, le aspirazioni e le intenzioni che si concentrano intorno al nucleo centrale di un essere umano. Il desiderio e la determinazione di perdurare e il senso di continuità poggiano ancora, anche nel credente più determinato, sulla probabilità, su fondamenta instabili e sulla testimonianza di altri, che in realtà non sono mai ritornati a raccontare la verità. L’enfasi di ogni pensiero formulato su questo soggetto riguarda l’«Io» centrale o il centro della Divinità.

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L’istinto di auto-preservazione, è radicato nell’innato terrore della morte. L’umanità è stata sospinta, proprio da questa paura, ad acquisire l’attuale livello di longevità e resistenza. Le scienze che riguardano la salvaguardia della vita, le conoscenze igieniche e sanitarie, le conquiste del benessere civile, sono tutte prodotti di quella paura fondamentale. Tutto mira alla persistenza dell’individuo e della sua esistenza. L’umanità resiste, quale razza e quale regno di natura, proprio per via di questa paura, e della reazione istintiva che tende a perpetuare l’individuo.

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Vorrei, prima di procedere con nuove istruzioni, che vi impadroniste dell’insegnamento fin qui impartito. Studiatelo con attenzione, in modo che quanto riguarda la morte si imprima in modo chiaro e netto sulla vostra mente. Formatevene una concezione nuova, cercate di cogliere, in quanto sino ad ora è stato oggetto di grande terrore, la legge, il proposito, la bellezza.

In seguito tenterò di illustrare alquanto il processo della morte qual è visto dall’anima, allorché questa intraprende l’atto della restituzione. Quanto ne dirò vi sembrerà forse speculativo o ipotetico: pochi di voi sarebbero in grado di dimostrarne la fondatezza. Ma sicuramente sarà più sano, integro e bello che non le tenebre e le incerte speranze, le infelici teorie e la cupa angoscia che oggi attorniano la morte.

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