La riscoperta delle immagini da parte della cultura occidentale è recente. Soltanto nel XX secolo con la nascita delle nuove arti della fotografia e del cinema si costituisce la moderna civiltà delle immagini. Come mostra Gilbert Durand, il percorso culturale che porta a questa rivalutazione è lungo e tortuoso.
L’iconoclastia, il tabù dell’immagine, si sviluppa a partire dal secondo comandamento della legge mosaica, anche se si deve ricordare come la stessa grecità – attraverso la filosofia platonica e quella aristotelica – ha soprattutto privilegiato la logica binaria e il processo razionale del conoscere.
La riscoperta delle immagini da parte della cultura occidentale è recente. Soltanto nel XX secolo con la nascita delle nuove arti della fotografia e del cinema si costituisce la moderna civiltà delle immagini. Come mostra Gilbert Durand (L’immaginario, Red edizioni, Como, 1996), il percorso culturale che porta a questa rivalutazione è lungo e tortuoso. L’iconoclastia, il tabù dell’immagine, si sviluppa a partire dal secondo comandamento della legge mosaica, anche se si deve ricordare come la stessa grecità – attraverso la filosofia platonica e quella aristotelica – ha soprattutto privilegiato la logica binaria e il processo razionale del conoscere. Tuttavia, Platone ha utilizzato ampiamente le immagini del mito come supporto e complemento alla dialettica, là dove la ragione non sarebbe potuta arrivare con le proprie forze. Inoltre nel Simposio e nel Fedro, l’eros platonico assume una dimensione mediana e mediatrice che permette all’anima di ascendere verso il sommo Bene (Simposio), oppure di ritrovare le ali per volare al seguito degli dei (Fedro). Altrove ho dimostrato come l’eros platonico sia speculare al mundus imaginalis della mistica islamica e della Naturphilosophie europea (Cfr. A. D’Alonzo Genealogia dell’immaginazione, edizioniLuz, Aprilia, 2008). La religione greca è politeista: una sconfessione integralista delle immagini sarebbe stata tacciata di empietà. I filosofi si preoccupavano soltanto di far prevalere il lógos sul mýthos, non erano interessati a introdurre una vera e propria iconoclastia nell’ê thos della pólis . N el politeismo indoeuropeo era naturale associare la pluralità delle figure divine ai corsi d’acqua, agli alberi, alle rocce, ecc., al contrario del monoteismo semitico dove vigeva la legge del capobranco maschio fondata sull’archetipo del dio unico. Anche a Bisanzio, fino all’VIII secolo, gli imperatori si preoccupano di contrastare il culto delle immagini. È con Giovanni Damasceno che si sviluppa il culto delle icone sacre, caratteristico della chiesa ortodossa. L’icona è una ieorofania che manifesta la discesa del sacer nello spazio sacro del témenos, attraverso la sua contemplazione il fedele può temporaneamente ascendere ad un Altrove: catabasi ed anabasi di evidente derivazione platonica, fondata sulla contrapposizione tra iperuranio e regno delle caducità materiali. L’iconodulia bizantina comprende Cristo, la Vergine Maria e tutti i santi: pregare davanti a questi ultimi permette l’accesso diretto al paradiso ed alla salvezza dell’anima. In Occidente, con la riscoperta del pensiero aristotelico, la scolastica nei secoli XIII e XIV declassa le immagini a mero paganesimo. I principi aristotelici di non-contraddizione e del terzo escluso si contrappongono radicalmente all’idea di immaginario come proliferazione polisemica dei significanti; logica binaria a cui viene a dare presto manforte il nuovo metodo scientifico di Galileo e Descartes, basato sul meccanicismo dei corpi e sulle idee chiare e distinte: la ratio consolida il suo predominio come unico strumento capace d’indagare la realtà. Fantasia ed immagini, al contrario, distolgono la mente dalle sue procedure e diventano, in campo scientifico, fonte di errori e dispersione. In campo religioso, addirittura, fonte di blasfemia diabolica e paganizzante. Ma la storia non è un treno che viaggia inarrestabile in un’unica direzione: ogni spinta propulsiva contiene al suo interno punti di resistenza, stasi e digressioni. È il caso del francescanesimo che, nel 1226, contribuisce alla riscoperta del valore sacrale delle immagini attraverso la creazione del presepio, la trasposizione visiva dei misteri della fede, delle quattordici stazioni della via crucis, delle tappe della vita del Redentore, ecc. È il «tempo delle cattedrali» e del gotico che si contrappone all’iconoclastia della scolastica, finché non è la Riforma a fornire l’occasione alla chiesa cattolica per rivalutare, una volta per tutte, le immagini religiose, in particolare quelle legate alla Sacra Famiglia. Il Rinascimento italiano segna una riscoperta dell’immaginario ad opera degli umanisti fiorentini che si appropriano del corpus delle dottrine esoteriche lasciate vacanti dalla teologia scolastica. Successivamente è soprattutto Paracelso a parlare apertamente di «immaginazione creatrice»: quest’ultima dottrina è riplasmata dalla teosofia europea che comprende un periodo «proto-teosofico» (prima metà ed inizio seconda metà del XVI secolo) con le opere di Gérard Dorn, Valentin Weigel, Johann Arndt, Heinrich Kunrath. Una prima «età dell’oro» (seconda metà del XVI – XVII secolo) con le opere di Jacob Boheme, Jane Leade, John Pordage, Quirinus Kuhlmann Johann Georg Gichtel. Una fase intermedia interrotta dall’opera di Emmanuel Swedenborg (1688-1772). Una seconda età dell’oro (fine XVIII secolo) con le opere di Martinez de Pasqually, Friedrich Cristoph Oetinger, Louis-Claude de Saint-Martin. Un periodo (XIX secolo) che va dalla Naturphilosophie romantica a Franz von Baader (D’Alonzo, ivi). Nel Settecento, la filosofia dei Lumi segna un nuovo punto a favore della svalutazione delle immagini, anche se tra i philosophes si segnalano personalità come Diderot, la cui mente è in grado di apprezzare e contestualizzare positivamente qualsiasi forma. Ma la vera e propria rivalutazione dell’immaginazione e del simbolico si ha soltanto con il romanticismo, preparato dal movimento preromantico germanico dello Sturm und Drang (Durand, ivi; D’Alonzo, ivi). Il romanticismo opera una vera e propria «trasvalutazione dei valori» mettendo al centro del paradigma e declinando alla stregua di sinonimi forme arcaiche – «mito», «fantasia», «onirico», «inconscio», «rêverie», ecc. – dell’autentico perturbante della cultura occidentale, l’immaginario. La «rottura epistemologica» provocata dal romanticismo comporta la sostituzione del vecchio paradigma: dall’«orologio» cosmico regolato con perfetta sincronia da un orologiaio divino, alla «pianta» che cresce, fiorisce ed avvizzisce: esemplare allegoria di un universo non più statico ed aperto al divenire. Se l’Aufklärung illuministico è portato avanti soprattutto da filosofi, adesso gli eroi del nuovo paradigma sono soprattutto poeti. Alla renaissance dell’immaginario sancita dal romanticismo parteciperà tutto il successivo XX secolo: dalle ideologie totalitarie alle avanguardie artistiche, fino all’arte contemporanea. Si prenda come esempio l’ambito di ricerca artistica del gruppo CoBrA (acronimo dei paesi d’origine dei fondatori: Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam), che nel secondo dopoguerra – nella perdita generale di fiducia nella ragione rischiarante e progressista – cerca di operare un fondamentale recupero del mito, della magia e dell’onirico attraverso la tradizione ed il folklore nordico. Adesso, nessuno mette più in discussione la forza propulsiva del mýthos, indispensabile non soltanto per reintegrare il rimosso, ma – elemento di radicale novità – a produrre il nuovo. Il XX secolo crea l’industria culturale ed utilizza l’immaginario per sobillare le masse: si prendano in considerazione le opere – per molti versi antitetiche – di Alfred Rosenberg, Adorno, Guy Debord. Nel nostro tempo si deve piuttosto usare la forza dell’immaginario per liberarci dalle Weltanschauung degli anni settanta (materialismo) ed ottanta (edonismo). Per superare la ricorsività dei tentativi di oltrepassamento della metafisica (in termini foucaultiani, l’episteme strutturata sul potere-discorso), il meta-sistema che permette di uscire dal sistema a sua volta giustificato da un meta-meta-sistema (e così a scalare all’infinito), è possibile adesso utilizzare la nozione, più agile e meno ampollosa, di vision tunnel, mutuata dalla sociologia americana. Con questo termine s’intendono le gallerie mentali che la cultura d’appartenenza scava nella psiche individuale: l’insieme delle credenze, dei luoghi comuni, dei pregiudizi, dei comportamenti socialmente ritenuti «buoni», «onesti» o, al contrario, «cattivi» e «criminali» dalla società. Il vision tunnel è un termine speculare a quelli di Weltanschauung e di episteme, ma rispetto a questi ultimi comprende la possibilità di oltrepassare il determinismo culturale del percorso sociologico e di ricreare in nuce un vision tunnel soggettivo e personale: di nicchia. Il Weltanschauung e l’episteme per essere superate richiedono spinte rivoluzionarie (Kampf um die Weltanschauung) o rotture epistemiche, cambiamenti spontanei del paradigma, secondo Michel Foucault. Il concetto del vision tunnel, al contrario, contiene in sé stesso la possibilità dell’autosuperamento, ed in fondo è quello che qualsiasi bildung o cura sui dovrebbe assicurare. Emancipazione o uscita dal «pensiero del gregge» che è prerogativa di qualsiasi, Aufklärung, anche se quest’ultimo termine possiede una tensione teleologica gravida di grandi promesse: la società egualitaria e rischiarata dalle conquiste della scienza contro le superstizioni e le fedi irrazionali. Il vision tunnel non possiede nessuna aspettativa pseudo-millenaristica: dai pregiudizi e dalle convinzioni del proprio tempo si può uscire subito, da soli, senza aspettare nessun nuovo avvento. Nel Novecento le scienze umane hanno riscoperto la forza del mýthos e dell’immaginario. Si pensi ai contributi della psicoanalisi e della psicologia del profondo, alla riflessologia della Scuola di Leningrado, allo strutturalismo antropologico di Claude Lévi-Strauss, al post-strutturalismo francese, all’opera del sociologo Roger Bastide, agli studi africanistici di Marcel Griaule. Oltre ai grandi studi dei «soliti noti», tra i quali si devono annoverare Henry Corbin, Mircea Eliade, Jung, Zimmer, Campbell, Ries, ecc., compaiono opere fondamentali, anche se, purtroppo, poco conosciute in ambito non specialistico: è il caso di Le Mythe et l’homme di Roger Caillois o Il diritto di sognare di Gaston Bachelard. Ma è soprattutto con l’antropologia dell’immaginario di Gilbert Durand che quest’ambito di ricerche acquista lo statuto di vera e propria scienza umana. Senza entrare nello specifico del metodo antropologico di Durand (che comunque è un filosofo d’estrazione), in questa sede m’interessa presentare un approccio filosofico all’immaginario. In altre parole, più che indagare l’immaginario collettivo con il metodo proprio dell’antropologia o della psicoanalisi, mi propongo di usare un’ermeneutica dell’immaginario per ridefinire le grandi questioni del pensiero filosofico. Naturalmente, un’ermeneutica o una cartografia dell’immaginario proprio per il suo carattere sincronico, polisemico ed olografico, non può limitarsi alla sola tradizione occidentale e deve «aprire» non soltanto alla letteratura e filosofia orientale, al mondo sciamanico e «primitivo», ma anche all’arte contemporanea ed alla «low culture» (come già ebbe modo di scrivere anni fa Umberto Eco, in Apocalittici ed integrati). 2-continua |