Cercherò di mostrare come il concetto di un mondo psichico unitario, totale ed armonico (res cogitans), indipendente dal corpo, sia stato articolato, moltiplicato e frammentato nel pensiero filosofico tra Ottocento e Novecento. Cercherò di spiegare come nel pensiero del William James dei Principles of Psychology, oggetto della presente discussione, tale concetto abbia tuttavia conservato una certa forma di unità sotto altri profili.
Sommario: Premessa – 1. Stati mentali coscienti: l’individualità degli atti psichici – 2. Pensiero e cervello: l’ipotesi della monade materiale – 3. Pensieri personali – 4. La coscienza dell’io materiale: istinto, corpo, identità personale – 5. La natura impulsiva della coscienza alla base dell’azione volontaria Premessa
Ma vi sono anche altre conseguenze, che toccano persino la dimensione etica: il pensiero cessa di essere un modello trascendentale e l’esigenza, che parte dagli stoici, di sintonizzarsi (omologhein) con la natura razionale del cosmo perde il suo punto d’appoggio e, con esso, vacilla anche la tradizione del giusnaturalismo. 1. Stati mentali coscienti: l’individualità degli atti psichiciDella realtà, per James, possiamo parlare in quanto ne facciamo esperienza. Essa si suddivide a grappolo in tanti “sub-universi di realtà”, ciascuno incommensurabile rispetto agli altri, dotato di propri criteri di rilevanza e persino di uno specifico regime temporale. Essi sono il frutto della nostra struttura psichica, nonché di fattori culturali e storici. Scienza, follia, sogno, mito, arte o religione costituiscono, appunto, differenti sub-universi di realtà, dove, ad esempio, la logica del sogno non coincide con quella della veglia, né quella della ragione con quella della fede. Come non si dà in assoluto un solo mondo, così non esiste alcun io monolitico e identico a se stesso. Esso varia incessantemente e incessantemente tende a differenziarsi, pur mantenendo, in genere, una vaga percezione della propria continuità nel tempo. A un mondo suddiviso in tanti “sub-universi di realtà”, corrisponde quindi una pluralità di io, una coscienza multipla. Se, per un verso, non esiste un’identità assoluta e permanente, in quanto essa è una finzione analoga a quella del “fante di Spade” [2], mentre l’io non è altro che un nome di posizione, come “qui” o “questo” [3], una stessa realtà è in grado di essere conosciuta da un numero infinito di stati psichici “coscienti”, che possono essere fra di loro differentissimi, senza cessare per questo di riferirsi alla realtà in questione e soprattutto senza cessare di appartenere ad uno stesso soggetto, che in molti casi sarà in dubbio fra versioni immediatamente successive della stessa, ma non le sperimenterà insieme a livello di sensazione e le penserà in contraddizione. Se un’idea, per es., non sembra trovarsi nella condizione cosciente, o essa non esiste, o vi è qualcos’altro al suo posto, come un processo cerebrale puramente fisico o un’altra idea cosciente [4]. Sebbene in noi abiti una massa di molti io, vi sia cioè un polipsichismo [5], James esclude dunque la possibilità di uno statuto inconscio (o, nel caso più estremo, di una secca rimozione) degli stati mentali in quanto “nelle azioni abituali le percezioni e le volizioni sono bensì accompagnate da coscienza, ma sono eseguite in modo molto rapido, e senza che vi si presti alcuna attenzione, così che non ne resta alcuna memoria. […] Poiché nell’uomo gli emisferi cooperano indubbiamente a formare questi atti automatici secondari, non si potrà dire né che essi avvengano al di fuori della coscienza, né che la loro coscienza sia una coscienza dei centri inferiori, della quale non sappiamo nulla.” [6]. La coscienza non risulta tagliata a pezzi, né nel caso più estremo ammette una parte incosciente, perché i vari io scorrono lungo il suo flusso, simile al sangue che circola, e le diverse coscienze del soggetto “si fondono l’una nell’altra”: “abbiamo cominciato a pensare ad A, e scopriamo ad un tratto che stiamo pensando a C. Ora, B è il passaggio naturale e logico fra A e C; però non abbiamo alcuna coscienza di aver pensato a B. […] B può essere passato nella nostra mente in modo veramente cosciente, ma essere stato dimenticato subito dopo; oppure può darsi che anche il tratto cerebrale che gli si riferisce sia stato sufficiente da sé solo per accoppiare A e C, senza bisogno di far sorgere l’idea di B, né in modo cosciente né in modo incosciente. […] non si può supporre l’esistenza di una simile massa di idee incoscienti. Nel cervello, però, deve esistere ogni sorta di scorciatoie […]. Il divenire cosciente […] si spiega bene come il risultato di una modificazione cerebrale. Questa, come dice Wundt, è una ‘predisposizione’ a manifestare l’idea cosciente originaria, predisposizione che altri stimoli ed altri processi cerebrali convertiranno in un risultato effettivo. Ma una simile predisposizione non è una ‘idea incosciente’; è soltanto una disposizione particolare degli elementi nervosi in certe parti del cervello.” [7]. Per James, dunque, determinate impressioni sensoriali stimolano direttamente specifici tratti cerebrali, e l’attività di questi ultimi corrisponde immediatamente, nel mondo psichico, a percezioni coscienti già complete. Certi risultati, simili ai risultati del ragionamento, possono pertanto essere prodotti da processi cerebrali rapidissimi, a cui non sembra che aderisca alcun processo di ideazione. Il meccanismo in grazia del quale avviene ciò, o è innato o è acquisito per mezzo dell’abitudine. Ciascuna nostra idea, sostiene James, conserva la propria “svariata identità sostanziale”, (l’eterogeneità nel tempo non è molteplicità nell’hic et nunc) come altrettanti stati mentali successivi e risulta impossibile che uno stesso stato mentale possa essere due cose ad un tempo (pertanto sembrerebbe inopportuno parlare di “io diviso”). 2. Pensiero e cervello: l’ipotesi della monade materialeNel paradigma jamesiano, la coscienza, come dimensione integrale, non costante di parti, “corrisponde” all’intera attività del cervello, qualunque ne siano in un determinato momento le modalità. Il pensiero esprime solamente il fenomeno, la mera “concezione” di un oggetto, di cui si può trattare, come fatto minimum, dal lato del mentale, benché James sia ben consapevole delle molte difficoltà a cui va incontro questa prospettiva. Sul versante opposto, l’intero processo cerebrale non è inteso come semplice fatto fisico ma è “ciò che una mente esterna vede di una moltitudine di fatti fisici”, in quanto ” ‘l’intero cervello’ non è altro che il nome che noi diamo al modo in cui milioni di elementi disposti in certi modi particolari possono colpire i nostri sensi.” [8]. Benché le molteplici relazioni tra una mente e il suo cervello siano di “un’unica specie, misteriosissima” [9], James richiama efficacemente una certa teoria del polizoismo o del monadismo multiplo secondo cui ogni cellula cerebrale possiederebbe la propria coscienza individuale, della quale ogni altra cellula nulla sa, perché ciascuna cellula individuale è “ejettiva” rispetto a tutte le altre. Al contempo, fra le cellule, ne esisterebbe una centrale o “pontificale” a cui aderirebbe la nostra coscienza. Questa sorta di archi-cellula, influenzata fisicamente da tutte le altre che arriverebbero quasi a “combinarsi”, con essa, “è uno di quei mezzi esterni, senza dei quali vediamo che non si può avere alcuna fusione, né alcuna integrazione fra un certo numero di cose.” [10]. I correlativi coscienti di queste operazioni fisiche formano una serie di pensieri e di sensazioni, in quanto “la conoscenza è costituita inoltre da una costruzione nuova, che si produce esclusivamente nella mente” [11], “ognuno dei quali”, conclude James, “è, nella sua sostanza, una cosa psichica non composta e integrale […], [che può] essere cosciente di cose numerosissime e di una complessità che è in proporzione al numero delle cellule che hanno contribuito a modificare la cellula centrale.” [12]. A questo punto James passa ad occuparsi delle relazioni “conoscitive ed emozionali” che la mente intrattiene con gli oggetti, tra cui spicca il corpo, perché “le cose operano soltanto sul corpo, e, per mezzo di questo, sul cervello relativo” [13]. James ammette che la cosa considerata nella sua esistenza effettiva deve sia dare un qualche segnale al cervello che stimolare una “costruzione nuova che si produce esclusivamente nella mente”, momento in cui il mentale non sembra assumere un ruolo di mera passività, ma è in grado di “reduplicare” attivamente l’oggetto per mezzo di una costruzione interna. Lo stesso potrebbe essere ipotizzato per la difficile relazione della mente con le funzioni cerebrali. Se da un lato, per mezzo della sensazione, è possibile conoscere le cose, è soltanto grazie al pensiero che possiamo arrivare a saperle. In questo senso le sensazioni (emozioni e impressioni) sono il germe e la radice della cognizione, i pensieri (concezioni e giudizi) ne sono l’albero più sviluppato. Entro questa cornice James si richiama, più specificamente, alla distinzione operata da Franz Brentano [14] tra “concezione” (mero pensiero dell’oggetto) e “giudizio” (affermazione della realtà dell’oggetto). Stando a questa distinzione, pensare una cosa come reale è diverso dal semplice concepire la cosa, e la differenza per James consiste in una sensazione che ci induce a dare il nostro consenso all’affermazione di realtà: quando diciamo che una cosa è reale, lo facciamo perché crediamo o confidiamo in essa. Sin dalle prime battute, il problema della “percezione della realtà” viene così declinato nei termini di una riflessione sulla “credenza”, detta anche “senso di realtà”. In quanto modalità di relazione con l’oggetto, la credenza rappresenta uno stato di coscienza sui generis [15]. 3. Pensieri personaliProcedendo lungo questo vettore di analisi e mantenendosi entro il dominio del mentale, James si concentra sulla funzione del pensiero come fenomeno di “attenzione discriminativa, spinta spesso ad un grado eccezionale” [16], che esiste e agisce e che “tende ad assumere una forma personale”: “I soli stati di coscienza con cui abbiamo a che fare naturalmente, sono quelli che troviamo nelle coscienze personali, nelle menti, nelle personalità, negli io e nei voi concreti particolari.” [17]. Rovesciando così il motto nietzscheano “Es denkt” (esso pensa), James non reputa opportuno intendere il predicato “pensa” allo stesso modo di dire “piove” o “tira vento”, in quanto “il fatto cosciente universale non è ‘esistono sensazioni e pensieri’, ma ‘io penso’ ed ‘io sento’. Nessuna psicologia, ad ogni modo, può mettere in dubbio l’esistenza di tanti io personali.” [18]. È ben evidente come venga in questo caso messa in opera una strategia di salvataggio degli io personali dal potenziale caos prodotto dalla pluralità irrelata dei vari sub-universi o delle stesse unità personali, che culminerà mediante il loro inserimento entro un flusso che li trascina e li fonde sospingendoli verso il futuro. Poiché ciascuno di noi costituisce un mondo di mondi selezionati, la sensatezza dell’esperienza può, dunque, manifestarsi in James solo come flusso di coscienza che offre, contemporaneamente e serialmente, materiale diverso alla riflessione, trasformando la mente in teatro di possibilità successive. Il corso del pensiero, infatti, contiene tutti i segni di personalità e tende continuamente ad apparire come parte di tanti io personali. Possedere personalità, nel senso di James, dovrebbe significare dunque avere la capacità di affermare le molteplici individualità dei propri atti psichici, mediante il riconoscimento attivo dei differenti aspetti che possono essere assunti dalle cose stesse di cui facciamo esperienza, e di come tali aspetti si vedano, si testino, si fiutino differentemente, in tempi diversi e in differenti circostanze. Ma la storia della psicologia individuale pare mostrare l’esatto contrario, in quanto “la storia di ciò che si chiama ‘Sensazione’ è una dimostrazione della nostra incapacità ad affermare se due qualità sensibili percepite isolatamente siano esattamente uguali.” [19]. Ogni pensiero che ciascuno di noi ha circa un dato fatto è dunque unico, ed ha soltanto una generica rassomiglianza con gli altri pensieri, che si possono avere circa lo stesso fatto. Colui che possiede una personalità ben strutturata pensa infatti sempre in modo nuovo l’eterno ripresentarsi degli stessi oggetti, dei medesimi fatti, ri-vedendo le cose sotto qualche angolatura differente, in quanto è capace, dunque, di vedere la realtà da una pluralità di prospettive. Per un processo di rotazione all’interno, l’attività del mentale modifica inoltre la stessa materia cerebrale, i cui stati rappresentano circolarmente un vero e proprio “memorandum” in cui è possibile rintracciare la storia di tutto il passato di chi ne è il possessore. In questo contesto, centrale è il ruolo assunto dalla memoria per garantire “continuità” (assenza di lacune, screpolature o divisioni) al pensiero-sentimento (thought, feeling slittano continuamente) di una coscienza personale unica: “Il ricordo è simile alla sensibilità diretta; il suo oggetto è soffuso di un calore e di un senso di intima unione, che nessun oggetto della pura concezione raggiunse mai. […] ‘Come è mio questo pensiero presente, così sicuramente è mia qualunque cosa mi sovvenga colla medesima intimità, col medesimo calore’.” [20]. I molteplici contenuti di coscienza disposizionali che abitano in noi, allo stesso modo dei differenti sub-universi di realtà che frequentiamo, ci appartengono solo in quanto appaiono contraddistinti da un semplice “marchio”. Li riconosciamo come nostri semplicemente se conservano il “calore” che vi abbiamo lasciato in precedenza. Tale teoria viene incisivamente espressa da James mediante l’accorpamento di due immagini. La prima, molto “americana”, dipinge una scena all’aria aperta; la seconda rinvia invece al raccoglimento di una pratica religiosa: “Dal gregge lasciato libero durante l’inverno in qualche larga prateria, quando viene primavera il proprietario sceglie ed assortisce quegli animali in cui trova impresso il proprio marchio. Il marchio del gregge è, per le diverse parti del pensiero, quel certo calore animale cui abbiamo accennato. Questo calore le pervade tutte, come il filo corre attraverso il rosario, e ne fa un tutto, che trattiamo come un’unità, per quanto queste parti possano differire grandemente tra loro. Si aggiunge a questo carattere l’altro, che i diversi Io ci appaiono come se fossero stati per lunghi tratti di tempo continui fra loro, e i più recenti di essi continui col nostro Io del momento presente.” [21]. Pertanto nel pensiero, strettamente inteso, uno stato mentale è impossibile che possa scomparire improvvisamente, e le modificazioni sono sempre accompagnate dalla coscienza continua del donde e del verso dove, che accompagna sempre il fluire di esso. 4. La coscienza dell’io materiale: istinto, corpo, identità personaleEsistono differenti gradi di attrazione nei confronti di tutto ciò che ciascuno chiama ” io” o definisce ” mio”. Come è ben noto, la distinzione jamesiana tra soggetto e oggetto non è in termini di dualismo sostanziale, che implicherebbe un ricorso a posizioni metafisiche che il filosofo intende evitare, ma è invece posta a livello di variazioni di sensazioni. Allo stesso modo che nel rapporto col proprio corpo, la dicotomia tra me e mondo, infatti, non riguarda l’appartenenza a un diverso statuto ontologico, ma concerne piuttosto i diversi gradi di pertinenza e armonia che certe sensazioni della corrente del pensiero sono in grado di produrre. Anziché optare per un rigido dualismo, James preferisce pensare tutte le parti della realtà (interna ed esterna al soggetto) come interconnesse (interlocked) in rapporti di azione e reazione in modo da costituire un unico corpo dinamico (a single dynamic whole) [22]. È ben evidente che a questo livello non è facile tracciare un confine tra ciò che una persona chiama me stesso e ciò che chiama semplicemente mio . Ciascuno di noi, nel bene o nel male, percepisce il proprio corpo come la parte più interna del proprio io materiale: “E i nostri corpi”, si domanda James, “sono essi semplicemente nostri o sono noi stessi?”. “Certe persone a un dato momento”, prosegue, “si sono mostrate disposte ad isolarsi dal loro corpo, che consideravano come una semplice guaina, o come una prigione da cui pensavano con gioia di poter sfuggire un giorno o l’altro.” [23]. Il corpo, assieme ad altre cose, nell’immagine di James, è oggetto di una preferenza “istintiva”, che si connette agli interessi pratici più importanti della nostra vita: “Non è la mia anima”, tuona James, “non il mio Io trascendentale o ‘pensante’, non è il pronome personale ‘Io’; né la mia subiettività come tale, ciò che io amo; bensì le mie facoltà più fenomeniche e più caduche, le mie affezioni e le mie antipatie, i miei desiderii, le mie sensibilità […]. [24]. L’essenza vera ed il nucleo del nostro io corporeo, nel modo in cui a noi è possibile conoscerlo, è dunque quel senso di attività interna (agentività) che posseggono certi nostri stati interni, che è oggetto di una preferenza istintiva. L’istinto, secondo James, è quella facoltà di agire in modo da produrre certi effetti finali, che si fenomenizzano nel mentale come “coscienza continua del verso dove” il pensiero fluisce, senza tuttavia averli previsti e senza previa educazione ad agire in quel modo [25]. Dunque quali rapporti intercorrono tra istinto, corpo e coscienza ? Secondo il filosofo, nel caso in cui la nostra coscienza non fosse interamente orientata alla conoscenza, se non nutrisse, dunque, delle preferenze per alcuni degli oggetti che successivamente ne occupano il campo, essa non potrebbe mantenersi a lungo esistente. Ogni mente umana, sostiene James, “per una necessità fatale”, “è subordinata alla integrità del corpo a cui appartiene, al trattamento che questo corpo riceve dagli altri, a quelle disposizioni spirituali che si servono di esso come di un loro strumento e che lo conducono, sia alla longevità, sia alla distruzione.” [26]. In ordine di priorità, il corpo proprio anzitutto, poi le proprie disposizioni spirituali, devono secondo James essere gli oggetti più interessanti di ogni mente umana, la quale, per esistere, deve possedere un certo minimum di egoismo in forma di istinto di autoconservazione [27]. L’istinto di autoconservazione è dunque la base di tutti gli atti coscienti ulteriori, che possono comprendere sia la negazione di sé, sia l’egoismo più articolato. Grazie all’evoluzione, ciascuna mente individuale è predisposta a sviluppare un interessamento molto forte per il corpo cui è connessa, attaccamento ben distinto da quello provato per il puro io come tale. Dunque il corpo proprio, congiuntamente a tutto ciò che serve ai suoi bisogni, sono per James l’oggetto primitivo, “istintivamente determinato”, delle forme di attaccamento “emozionali” di ciascun individuo [28]. Questo segnala la specie di interesse che la parola “mio” significa. Tuttavia, attraverso la pratica, non inconcepibile, dei propri istinti “simpatici” ciascuno può, “in modo tanto primitivo”, riversare cure al corpo dell’altro da sé pari a quelle dimostrate nei confronti del proprio. Il richiamo alla funzione relazionale del corpo, permette a James di compiere il passaggio fondamentale verso il concetto dell’identità personale (the sense of personal identity). Se il proprio io presente è sentito con calore e intimità (warmth and intimacy) è soprattutto grazie al medium della “tiepida massa del mio corpo” [29], oltre che di quel “nucleo dell’Io spirituale” che garantisce il senso di rassomiglianza e continuità all’interno della dimensione temporale per cui ” il me di ieri è, in un certo qual senso particolarmente sottile, la stessa cosa che l’io che ora fa quel giudizio” [30]. L’identità personale, secondo il filosofo, è costituita da una modalità di somiglianza fra le parti di una serie continua di sensazioni, soprattutto corporali, sperimentate assieme a cose diverse. Il vero nucleo della nostra identità, colta dal Pensiero nel momento presente, il quale, “veicolo di scelta, nonché di cognizione” [31],appena viene ad esistere come coscienza di sé, trova, scopre, che i fatti passati sono propri, è primariamente il corpo, rappresentato dal Pensiero assieme a quei movimenti accomodativi centrali che accompagnano il processo mentale a livello cerebrale. Attorno al corpo e ai movimenti cerebrali, in quanto “parti calde”, si avvolgono le parti rappresentate dell’io, alle quali il Pensiero agente si aggancia, “piantato saldamente nel presente” [32]. Il Pensiero colto in atto, pastore del gregge degli svariati oggetti coscientemente collegati, è presente sotto forma di qualcosa che non fa parte degli oggetti della collezione, sebbene risulti “superiore a tutti questi” e, ammette James, benché “possa darsi che vi sia qualche Pensatore non- fenomenico oltre a questo Pensiero” [33], questa sorta di apertura in direzione spiritualistica è tuttavia il fatto ultimo che il filosofo si trova costretto ad affermare. Quindi continuità e somiglianza sono le basi di un’identità parziale e relativa, esposta alla precarietà. Tanto è vero che “laddove la rassomiglianza o la continuità (resemblance and continuità) non sono più sentite, il senso dell’identità personale svanisce a sua volta” [34]. Il senso dell’identità personale non è dunque questa “mera forma sintetica essenziale a tutto il pensiero” (mere synthetic form), ma è il senso di una identità percepita dal pensiero e predicata di cose pensate (intorno a cui il pensiero verte): un sé presente e un sé passato, la cui identità personale potrebbe anche essere illusoria (nessun sé di ieri o identità predicata su basi insufficienti), non reale come fatto, (e tuttavia sussistere come sentimento cosciente). In questo caso James prende le distanze dal trascendentalismo kantiano, a cui il rimando alla funzione sintetica potrebbe far pensare, e chiarisce che parlare dell’attività sintetica come essenziale al pensiero non significa che il senso dell’identità personale si identifichi con essa. Bisogna infatti considerare la temporalità a essa implicita, il fatto che l’identità personale è legata al sé presente e al sé passato. Contro la tesi dell’empirismo associazionista secondo la quale il sé è un aggregato di parti separate, per il senso comune l’unità di tutti i sé non è una mera apparenza ma implica una effettiva appartenenza a un proprietario, un reale centro di coesione (accretion), che è la coscienza personale, il pensiero giudicante, che James chiama per un po’ con la P maiuscola. Il Pensiero (Thought) è l’agente che collects, binds i fatti del passato individuale come propri [35]. James ricorre al termine accretion, che significa coesione nel senso di aggregazione di parti che crescono l’una sull’altra, accumulo di esperienze sentite come proprie e calde, che restano attaccate al sé e di conseguenza tra loro, come eredità dei sé passati collegati al sé attuale. Significativamente, James si richiama al Kant della prima Critica [36] in cui si afferma: “è come se delle palle elastiche venissero ad avere non soltanto il movimento, ma la coscienza (consciousness) di questo movimento, e una prima palla trasmettesse a quella che viene dopo, tanto il movimento, quanto la coscienza di esso, questa seconda assumesse nella propria coscienza e l’uno e l’altra, e li trasmettesse ad una terza, e finalmente l’ultima tenesse tutto quanto le palle hanno ricevuto, e se lo rappresentasse come cosa sua propria.” [37]. È questo il trucco (trick) del pensiero nascente che sta a fondamento (foundation) dell’appropriazione dei più remoti costituenti del sé. Impossibile scoprire altri tratti verificabili nell’identità personale, che questo schema non contenga, impensabile, dunque, per James immaginare come un Arch-ego trascendente non fenomenale potrebbe fare tutto questo, diventando il rappresentante dell’intera corrente passata. Il solo punto oscuro resta comunque l’atto di appropriazione. L’agente dell’appropriazione (il testo originale passa da belong a own a appropriate) “è il fuoco effettivo di concentrazione (accretion), il gancio (hook) da cui penzola la catena degli Io passati, piantato saldamente nel Presente” [38]: è il momento presente della coscienza. La metafora del gancio è usata ancor oggi dai teorici della memoria a proposito dell’indizio per il recupero, ovvero di quel suggerimento presente nel momento di coscienza attuale che “pesca” nel mare dei ricordi quello che si intendeva ritrovare, o qualcosa di associato, se l’accesso all’informazione desiderata non si realizza, e che entra a far parte del ricordo che viene costruito a partire dal presente mediante le risorse cognitive attuali. 5. La natura impulsiva della coscienza alla base dell’azione volontariaSe l’istinto ci predispone automaticamente ad agire in modo da produrre determinati fini, la volontà rappresenta invece l’opinione che quel fine sia effettivamente in nostro potere. Tuttavia fra istinto e coscienza non esistono fratture ontologiche in quanto “il punto di partenza per comprendere l’azione volontaria […] è il fatto che la coscienza nel fondo della sua natura è impulsiva.” [39]. Lo stesso meccanismo di produzione dei movimenti del corpo è l’effetto esterno diretto dal nostro volere risultante da due forze nervose opposte e, a livello mentale, effetto di un conflitto fra idee, “fra loro connesse da rapporti antagonistici o favorevoli” [40]. Mentre i movimenti istintivi sono tutti primari, in quanto i centri nervosi sono organizzati in modo tale, che certi stimoli fanno scattare certi comportamenti, i movimenti volontari sono funzioni non primitive, secondarie, del nostro organismo [41]. Da questo assunto deriva la priorità temporale che James attribuisce alle azioni non volontarie rispetto a quelle propriamente volontarie in quanto “una provvista di idee dei vari movimenti possibili formatasi nella memoria, per l’esperienza fatta compiendoli involontariamente, è pertanto il primo requisito della vita volontaria.” [42]. Grazie al bagaglio di idee che determinati movimenti compiuti lasciano nella mente è possibile operare un criterio distintivo dei nostri comportamenti. La rappresentazione del volere nei Principles è strettamente connessa con quella della mente e della coscienza come selecting agencies, ossia come attività o funzioni selettive, che operano in vista del comportamento. Contrariamente a molti filosofi i quali ritengono che la coscienza riflessa dell’io sia fondamentale per la funzione conoscitiva del pensiero e dell’azione libera, James rifiuta l’idea di un sé agente sostanziale come garanzia dell’azione libera, in quanto la possibilità della nostra libertà “può essere descritta pienamente senza alcuna necessità di supporre alcun altro agente all’infuori di una successione di pensieri perituri e transitori […].” [43]. Ciò che la coscienza coglie “impulsivamente” infatti non è innanzitutto il proprio essere cosciente, che risulta invece da un processo di riflessione, ma qualcosa che sente come sé o non sé. La costituzione dell’azione deliberata sembra doversi collocare all’interno di questo riconoscimento. James dimostra la sua prospettiva spiegando che “io posso avere sia la semplice nozione, sia la conoscenza di un oggetto O, senza pensare affatto a me stesso. Basta per questo che io pensi O, e che esso esista. Se, oltre al pensare O, penso anche che io esisto e che sto appunto pensando a O, sta benissimo; conosco una cosa in più […] [44]. L’Io trascendentale, secondo James,”non è assolutamente nulla” [45], è un aborto del “buon Kant” e solo i suoi successori, fichtiani ed hegeliani, ne hanno fatto un nome da scrivere con la maiuscola. Sia i fisiologi che i trascendentalisti erano dunque per James troppo dogmatici: i primi a causa della loro tendenza radicale a restringere la ricerca psicologica al campo degli esperimenti sui processi mentali; i secondi a causa delle assunzioni metafisiche con le quali cercavano di salvare il lato “spirituale” della vita umana nonché a causa dell’assoluta mancanza di attenzione nei confronti delle condizioni “naturali” dei processi mentali [46]. James osserva come, da un lato, gli oggetti, dall’altro i pensieri di oggetti, sostengano le nostre azioni benché fra pensieri e oggetti sia rintracciabile, come risultato dell’impulso ad agire, la rappresentazione dei sentimenti di piacere e dolore come fattori determinanti per l’azione [47]. Benché “il pensiero di un piacere non debba essere esso stesso un piacere”, allo stesso tempo “i piaceri presenti sono tremendi rinforzatori e i presenti dolori tremendi inibitori di qualsiasi azione che ad essi guidi” [48]. Parallelamente, a livello corporeo, “se un movimento è piacevole, noi lo ripetiamo sempre finché dura l’impressione di piacere. Se ci dispiace, la nostra contrazione muscolare si arresta istantaneamente ” [49]. Al contempo James sottolinea come la qualità impulsiva di uno stato mentale non sia l’unico ed esclusivo attributo, oltre al quale niente di qualitativamente eterogeneo possa pensarsi. Non tutti i nostri atti, dunque, possono essere concepiti come effetti della rappresentazione di un piacere, in quanto determinante a questo punto sembra risultare il carattere impulsivo proprio dell’idea, ovvero “l’urgenza con cui essa sa attirare l’attenzione e dominare nella coscienza” [50]. James finisce così per assegnare la volizione, che definisce una relazione fra il nostro Io e i nostri stati mentali [51],al campo delle idee allo stesso modo come, ad un livello potremmo dire più rudimentale, la spinta primaria era data dal piacere o dal dolore. Il volere culmina pertanto con la prevalenza dell’idea: “Il fine essenziale della volontà […] è di fissare l’Attenzione su di un oggetto difficile, tenendolo ben saldo davanti alla mente”, in quanto la credenza significa “una specie particolare di occupazione della mente ed una relazione con l’Io che viene sentita nella cosa creduta” [52]. Le azioni umane ordinarie, distinte dai movimenti corporei, si basano su un qualcosa di simile alla conclusione positiva di un processo di attenzione volontaria. __________ Note 1. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, Società Editrice Libraria, Milano 1901, p. 645. (torna al testo) 2. Ivi, p. 183. (torna al testo) 3. W. JAMES, Essays in Radical Empiricism, in The Works of William James, a cura di F. H. Burchhardt, F. Bowens, I. K. Skrupskelis, Cambridge, Mass. – London 1976, trad. it., Saggi sull’empirismo radicale, Bari 1971, p. 86, nota 8 e cfr. R. PETRILLO, Il senso della presenza. Saggio sull’esperienza religiosa in William James, Napoli 1997, p. 71. (torna al testo) 4. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, ed. cit., p. 140. (torna al testo) 5. Cfr. W. JAMES, The Hidden Self, in “Scribner’s Magazine”, VII (1890), pp. 361-373 [ora in Essays in Psychology, in The Works of William James, Cambridge, Mass.-London 1983, pp. 258 sgg.]. Inoltre D.E. LEARY, William James on the Self and Personality. Clearing the Ground for Subsequent Theorists, Researches, and Practioners, in M. G. JOHNSON e T.B. HENLEY (ed.), Reflexions on the Principles of Psychology. William James after a Century, Hilsdale (New Jersey), Hove and London, 1990, pp. 101-37. (torna al testo) 6. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, ed. cit., p. 135. (torna al testo) 7. Ivi, pp.135-37. (torna al testo) 8. Ivi, p. 143. (torna al testo) 9. Ivi, p. 169. (torna al testo) 10. Ivi, p. 144. (torna al testo) 11. Ivi, p. 171. (torna al testo) 12. Ibid. (torna al testo) 13. Ivi, p. 169. (torna al testo) 14. Cfr. F. BRENTANO (1874), Psychologie vom empirischen Standpunkt, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1973 (trad it. La psicologia dal punto di vista empirico, a cura di L. Albertazzi, 3 voll., Laterza, Roma-Bari, 1997). (torna al testo) 15. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, ed. cit., p. 642. (torna al testo) 16. Ivi, p. 174. (torna al testo) 17. Ivi, p. 175. (torna al testo) 18. Ivi, p. 176. (torna al testo) 19. Ivi, p. 180. (torna al testo) 20. Ivi, p. 186. (torna al testo) 21. Ivi, p. 239. (torna al testo) 22. W. JAMES, Are We Automata?, in Essays in Psychology, in The Works of William James, ed. cit., p. 40. (torna al testo) 23. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, ed. cit., p.220. (torna al testo) 24. Ivi, p. 235. (torna al testo) 25. Ivi, p. 703. (torna al testo) 26. Ivi, p. 236. (torna al testo) 27. Ibid. (torna al testo) 28. W. JAMES, What Is an Emotion?, in Essays in Psychology, in The Works of William James, ed. cit., p. 170. (torna al testo) 29. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, ed. cit., p. 238. (torna al testo) 30. Ibid. (torna al testo) 31. Ivi, p. 244. (torna al testo) 32. Ibid. (torna al testo) 33. Ibid. (torna al testo) 34. Ibid. (torna al testo) 35. Ivi, pp. 243-44. (torna al testo) 36. I. KANT (1781), Critica della ragion pura, Terzo paralogismo : della personalità, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 551-54. (torna al testo) 37. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, ed. cit., p. 243. (torna al testo) 38. Ivi, p. 244. (torna al testo) 39. Ivi, p. 795. (torna al testo) 40. Ivi, p. 796. (torna al testo) 41. Ivi, p. 779. (torna al testo) 42. Ivi, p. 780. (torna al testo) 43. Ivi, p. 244. (torna al testo) 44. Ivi, p. 207. (torna al testo) 45. Ivi, p. 255. (torna al testo) 46. Cfr. R.M. CALCATERRA (2003), Pragmatismo: i valori dell’esperienza, Carocci, Roma, p. 110 sgg. (torna al testo) 47. W. JAMES, What Is an Emotion ?, in Essays in Psychology, in The Works of William James, ed. cit., pp. 180-81. (torna al testo) 48. W. JAMES (1890), Principles of Psychology, ed. cit., pp. 811-12. (torna al testo) 49. Ibid. (torna al testo) 50. Ivi, p. 817. (torna al testo) 51. Ivi, p. 824. (torna al testo) 52. Ivi, p. 819. (torna al testo) Riferimenti bibliografici BRENTANO F. (1874), Psychologie vom empirischen Standpunkt, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1973 (trad it. La psicologia dal punto di vista empirico, a cura di L. Albertazzi, 3 voll., Laterza, Roma-Bari, 1997). CALCATERRA R.M. (2003), Pragmatismo: i valori dell’esperienza, Carocci, Roma. JAMES W. (1879) The Will to Believe and Other Essays in Popular Philosophy, Longmann Green & Co, New York-London; trad. it. di P. Bairati, Volontà di credere, Rizzoli, Milano 1984. ID. (1884), On Some Omissions of Introspective Psychology, in Id., Collected Essays and reviews, Russell & Russell, New York 1969. ID. (1890), Principles of Psychology, Dover, New York; trad. it. di G.C. Ferrari e A. Tamburini, Principii di Psicologia, Società Editrice Libraria, Milano 1901. ID. (1975-88), The Works of William James, 17 voll. ed. by F.H. Burkhardt, F. Bowers, I.K. Skrupskelis, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London. ID. (1978), Essays in Philosophy, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London. ID. (1983), Essays in Psichology, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London. JOHNSON M.G. – HENLEY T.B. (1990), Reflexions on the Principles of Psychology. William James after a Century, Hilsdale (New Jersey), Hove and London. KANT I. (1781), Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1999, LOCKE J. (1690), An Essay concerning Human Understanding, Oxford 1975, trad. it. Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma-Bari 2001. |