Il tentativo di costituire un dispositivo politico capace di difendere la modernità dai suoi stessi pericoli, ovvero di regressione plebiscitaria e trionfo degli interessi particolari su quelli generali, trova nel Contrat di Rousseau un motivo efficace di discussione. Ed è proprio alla luce di questo assunto di chiara matrice normativa che intendo discutere il problema della legittimità nell’opera del filosofo ginevrino. Come efficacemente osserva Alberto Burgio nell’introduzione al Contratto sociale, scopo e criterio di riferimento normativo dell’opera è “proteggere la modernità da se stessa”, mediante l’individuazione di un antidoto al suo male più caratteristico: il costante degenerare a gretto egoismo dei membri del corpo politico.
È ben noto come a partire dal Discorso sulla disuguaglianza il filosofo abbia sgombrato il campo da facili equivoci invitando a non confondere l’amor proprio (amour propre) con l’amore di sé (amour de soi). L’amore di sé è sì un sentimento del tutto naturale che porta ogni animale “a vegliare sulla propria conservazione” [2], ma nell’uomo questo sentimento “governato dalla ragione e modificato dalla pietà”, può dare luogo ad atteggiamenti umanitari e a esempi di virtù. Se una teoria politica deve anzitutto affrontare il modo come sia possibile “associare – scrive Rousseau nel proemio del primo libro del Contrat – ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive, perché la giustizia e l’utilità non si trovino mai separate” [3], quella dovrà a suo modo tenere di conto del potenziale distruttivo che il sentimento dell’amor proprio, relativo ed artificioso, in quanto sviluppatosi dal vivere in una società disordinata, ostinatamente comporta. Chiarito questo, dal testo di Rousseau traspare l’esigenza di pensare ad una terza via, che indichi come una possibilità concreta l’effettiva mediazione tra la naturale spinta al particolarismo (e dell’assoluta necessità di contrastarla) e quelle dubbie strategie di “snaturazione” degli uomini e della loro trasformazione in esseri “relativi”, che non possono essere perseguibili nella direzione di una terapia volta alla rassegnazione. E Rousseau sembra procedere in questa direzione quando cerca, a partire dal primo capitolo del primo libro, di chiarire, scanso equivoci, come possa conservarsi l’antica libertà naturale proprio nel contesto del vivere civile, intendendo in questo senso opporsi ad una rappresentazione della libertà dell’uomo come consolatoria determinazione metafisica. Già dal Discorso sulla disuguaglianza, il filosofo ginevrino è ben consapevole di come, attraverso il Diritto, la Natura fu sottomessa alla Legge, e di come l’uomo forte, vincolato all’amour propre, abbia speculato su questa opportunità originaria giungendo a servirsi del più debole come mero strumento. Così da entrambi i fronti (del padrone e del servo) sono scaturiti quei sentimenti di vendetta e quelle passioni che possono nascere dalla convinzione di aver ricevuto un’offesa. Se da un lato è di pregnante evidenza che il Contrat segua una logica troppo deduttiva, dall’altro Rousseau fa appello a quella ragione che, come proiezione universale dell’amor di sé, opera analiticamente nella definizione del “contratto sociale” che ha la funzione di mediare il passaggio tra la condizione prepolitica dello stato di natura e l’istituzione di un assetto politico e sociale, “la cui legittimità è vincolata alle clausole stabilite nel patto” tra gli individui. Nell’excursus storico del Contrat sulle prime società (Libro I, Cap. II) è indicativa la nota critica sulla famiglia in cui Rousseau dichiara che tutti gli uomini “essendo nati eguali e liberi, alienano la loro libertà solo per utilità” per poi trovarsi, nel ruolo di sudditi, come membri di quel cattivo Stato in cui il capo sostituisce l’amore per il suo popolo con il piacere di comandare. Con il passaggio dalla famiglia allo Stato cresce così il sentimento dell’amor proprio, che dà già i primi segnali di esistenza nel contesto delle prime famiglie patriarcali in cui i figli alienano la loro libertà per l’utilità che il sentirsi protetti dallo strapotere paterno inevitabilmente comporta, cercando di tradurre in atto soltanto quei comportamenti la cui rappresentazione attinge forza dalla percezione di quanto sia diffusa [4]. Con il passaggio dalla famiglia allo Stato il capo politico eredita il potere carismatico della figura paterna facendo di se stesso quel mito che ha alla base un forte sentimento di amor proprio, che si gratifica narcisisticamente mediante la “passione del comando”. In questo contesto il capo riesce a diventare per il gruppo quello che esso è per se stesso, costituendosi come un essere senza limiti, assoluto, grazie ad un simbolismo del potere che è costitutivo del suo stesso potere. Rousseau prende tuttavia preventivamente le distanze da queste forme di abuso del potere che seguono la regola della “legge del più forte”. Secondo questo vettore di analisi, risulta evidente come nel filosofo ginevrino sia forte la rottura rispetto a quella tradizione che nostalgicamente esalta il ritorno ad un primitivismo incerto, considerando come le medesime leggi valide nello stato di natura possano esserlo anche nella comunità politica. Nel Contrat va certo riconosciuta una cesura antropologica che intende “raffinare” l’individuo in io sociale, membro di una collettività indivisibile, soggetto di interessi immediatamente coincidenti con quelli della comunità, ma questo riconoscimento dipende tuttavia dalla sua condizione di possibilità che è riassunta in questa battuta: “Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell’umanità, e perfino ai propri doveri. Non vi è alcun indennizzo possibile per chi rinunci a tutto” [5]. Rousseau intende pertanto legittimare il contratto pensando la condizione di alienazione totale di ciascun singolo individuo non come il risultato di una repressione secca dell’amour de soi che determinerebbe lo scatenarsi di tutto il potere distruttivo dell’amour propre, del gretto egoismo che giustifica l’autoritarismo o in termini spinoziani, il dispotismo teologico-politico, che, inteso in questo senso, fungerebbe da meccanismo di difesa, quanto come l’effetto automatico di una sublimazione collettiva spontanea dell’originario amore di sé, che, da condizione trascendentale di possibilità del patto sociale, diventa la garanzia pratica della sua fattibilità. Il filosofo rassicura chi, con questo passaggio, teme la perdita della propria individualità, mostrando come la necessità di quel passaggio fosse già intrinsecamente compresa nella dimensione prettamente individuale dell’amour de soi : “Trovare una forma di associazione che con tutta la forza comune difenda e protegga le persone e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e resti non meno libero di prima” [6]. L'”alienazione totale” non coincide dunque con una secca rinuncia a se stessi, ma sembra rappresentare piuttosto un’occasione collettiva di conservazione di quelle persistenti condizioni generali che rendono possibile il riproporsi di un’utopia rovesciata di un nuovo stato di natura. “Le clausole di questo contratto […] sono dovunque le stesse, dovunque tacitamente ammesse e riconosciute […]”. Con queste ultime parole Rousseau sembra fare appello ad un “senso comune” che funge da garanzia sedimentata pre-riflessiva della fattibilità concreta del contratto e di un corretto funzionamento della “volontà generale”: “Automaticamente – prosegue il filosofo – al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione dà vita a un corpo morale e collettivo […] da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. […] il corpo politico, non traendo la sua esistenza se non dalla santità del contratto, non può mai obbligarsi […] a niente che deroghi da questo atto originario […]” [7]. E ancora: “Affinché il patto sociale non sia dunque una vana formula, esso implica tacitamente questo impegno […]: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non significherà altro se non che lo si obbligherà ad essere libero; perché tale è la condizione che, dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale” [8]. Intesa in questi termini, la volontà generale non risulta una semplice addizione di volontà particolari, non è unicamente volontà di tutti o della maggioranza. Essa segna invece l’ingresso di un dispositivo di “moralità”, parola, questa, cara a Rousseau, che sembra distinguere due dimensioni: da una parte il mondo sospetto dell’interesse particolare, delle volontà particolari, degli atti particolari ; dall’altra il mondo dell’interesse generale, degli atti generali (le leggi). Nel caso in cui il popolo come corpo, il “sovrano”, non potrebbe volere che l’interesse generale, avendo una volontà generale, resta tuttavia anche uomo individuale, avendo così due tipi di volontà. Benché, come uomo individuale, sia tentato di seguire, conformemente all’istinto naturale, il suo interesse particolare, è al contempo grazie al contributo di questo “istinto” che può trarre l’energia per “trasformare”, “moralizzare” la propria libertà naturale e convertire l’amour de soi individuale in amour de soi sociale. Non c’è rottura drastica in questo ultimo passaggio fondamentale perché si tratta di un passaggio spontaneo condotto da un uomo “libero” che riconosce la positività (dunque la moralità) del cambiamento prestando fede alla garanzia simbolica del benessere e della governabilità future: “È ciò che vi è di comune fra questi differenti interessi che forma il vincolo sociale; e se non ci fossero alcuni punti sui quali tutti gli interessi si accordano, nessuna società potrebbe esistere. Ora è unicamente sulla base di questo interesse comune che la società deve essere governata” [9]. Con il passaggio dall’individuo, inteso come singolo ente biologico, all’uomo-sociale, inteso come forma e contenuto del corpo politico, ciascun singolo ritrova l’equivalente della uguaglianza naturale [10]: “Invece di distruggere l’eguaglianza naturale, il patto fondamentale sostituisce al contrario una eguaglianza morale e legittima a quanto la natura aveva potuto mettere d’ineguaglianza fisica tra gli uomini; e questi, potendo essere ineguali in forza o in ingegno diventano tutti eguali per convenzione e di diritto” [11]. Dunque se la “volontà generale” possiede i caratteri di una idea regolativa, di un concetto limite in cui si realizza l’incontro, questo stesso processo sembra costituirsi piuttosto che come un potenziale conflitto, come una progressiva conciliazione. Se per un verso l’effetto dei bisogni fondamentali, fisici (les premiers besoins, besoins physiques), come la fame o la sete, è di disperdere gli uomini, e quindi di ridurli a monadi senza finestre, per l’altro l’amore e l’odio, la pietà e la collera, ossia quelle passioni che improvvisamente segnalano l’avvento dei bisogni morali, definiscono la fisionomia di quel “selvaggio fatto per abitare nelle città”. La trasformazione dell’uomo naturale in cittadino ha reso possibile un raffinamento dei suoi istinti più prepotenti. La terza via richiamata all’inizio della presente discussione non intende pertanto restituire ciascun individuo all’isolamento animale del bestione primitivo, ma permette all’uomo di essere veramente se stesso (mediante un amour de soi raffinato e socializzato) nel rapporto con gli altri, ossia di realizzare una unità intersoggettiva che non mortifichi l’autenticità del singolo, pur consentendo l’uguaglianza di tutti attraverso reciproci schemi di identificazione paritetici. In questo contesto di discussione si inserisce l’ultimo capitolo del IV libro sulla Religione civile. Per ciascun cittadino moderno Rousseau intende garantire in foro interno una formula religiosa che possieda tutti i vantaggi della religione del cittadino antico, senza minacciare la libertà interiore dell’uomo e senza imporre contenuti dogmatici, da cui derivi l’intolleranza: “[…] i dogmi di questa religione non interessano né lo Stato né i suoi membri, se non in quanto tali dogmi si riferiscano alla morale e ai doveri che colui che la professa è tenuto ad osservare verso gli altri. Per il resto, ciascuno può avere le opinioni che preferisce […]” [12]. Rousseau escogita così una formula che rinforzi i sentimenti di socievolezza dei cittadini e l’obbedienza al sovrano mediante il ricorso alla mediazione del simbolo (il Dio potente, intelligente, benefico, la santità del contratto sociale e delle leggi, la felicità dei giusti nella vita futura) che funge così da medium semantico tra il mero materialismo della vita biologica (fame – sete) e la gratificazione dei bisogni morali (pietà, mutuo soccorso) che sovrintendono al corpo politico. Non un semplice instrumentum regni, ma un dispositivo di socievolezza in grado di neutralizzare possibili derive di intolleranza e di rispettare la libertà interiore dei singoli “limitata al culto puramente interiore del Dio supremo e agli eterni doveri della morale” [13]. Il richiamo alla semplicità dei dogmi della religione civile, “enunciati con precisione, senza spiegazioni né commenti”[14], è funzionale a vincolare il momento religioso a dinamiche psicologiche non necessariamente razionali, le uniche, in questo senso, a fare da garanzia per una forma sempre più universale di consenso, benché il filosofo pretenda che la semplicità non diventi sostegno dell’ideologia perché da quel momento “i preti sono i veri padroni, e i re non sono che loro funzionari” [15]. __________ Note 1. Cfr., Introduzione di Eugenio Garin, in ROUSSEAU, Scritti politici 1, Laterza, Roma-Bari 2005, p. XLIV. (torna al testo) 2. J.J. ROUSSEAU(1755), Discorso sulla disuguaglianza, in Scritti politici 1, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 239. (torna al testo) 3. J.J. ROUSSEAU (1762), Il contratto sociale, Feltrinelli, Milano 2008, p. 59. (torna al testo) 4. S. FREUD (1921), Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1966 sgg., pp. 310- 11, in nota. Cfr. R. RONI, La persistenza dell’istinto. Pulsioni vitali dell’esistenza, ETS, Pisa 2007, p. 64. (torna al testo) 5. J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, ed. cit., p. 71. (torna al testo) 6. Ivi, p. 79. (torna al testo) 7. Ivi, p. 80 , p. 83. (torna al testo) 8. Ivi, p. 85. (torna al testo) 9. Ivi, p. 91. (torna al testo) 10. J.J. CHEVALLIER (1964), Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai giorni nostri, il Mulino, Bologna 1968, p. 196. (torna al testo) 11. J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, ed. cit., p. 90. (torna al testo) 12. Ivi, p. 233. (torna al testo) 13. Ivi, p. 227. (torna al testo) 14. Ivi, p. 234. (torna al testo) 15. Ivi, p. 235. (torna al testo) |