Si tratta di capire – dopo avere enunciato le motivazioni sociologiche alla base del brodo di coltura dello «sballo» che interessano l’insicurezza liquida, la precarietà, l’assenza di modelli pedagogici alternativi a quelli televisivi, la contrazione su di un presente privo di senso – quali sono i significati ed i contenuti archetipici rimessi in moto, riattualizzati, dalla movida, dalla voglia di divertimento e trasgressione.
La movida del sabato sera o l’incontenibile riattualizzazione del dionisiaco
Ed ogni volta ricomincia il teatrino massmediatico delle inchieste giornalistiche senza fine, delle dichiarazioni politiche che annunciano nuovi giri di vite; come per esempio quello – ampiamente fallito – del sindaco di Londra che ha proibito il consumo di bevande alcoliche in metropolitana durante le ore notturne, con il risultato di fomentare un rave spontaneo e clamorosamente gremito, a base di birra e cocktail alcolici, tra i vagoni e le stazioni dell’underground. Nei giorni scorsi, le cronache si sono occupate del caso di una ragazza italiana uccisa durante una vacanza a Lloret de Mar, località turistica della Costa Brava frequentatissima dai giovani per la movida e la vita notturna. L’assassino ha confessato di aver perduto il controllo, strafatto com’era di alcool, coca, spinelli e pasticche… Sembra che la domanda – perturbante – che non si riesce a formulare con decisione non sia «come impedire che questo accada di nuovo», ma piuttosto perché «questo accade», perché i giovani non riescano a passare dei weekend divertenti senza strafarsi e sballare. Galimberti, nel suo recente saggio sul nichilismo, evidenzia molto bene come in una società dove il presente appare schiacciato su se stesso ed il futuro si presenta come minaccia e non più come promessa diventi quasi inevitabile ricercare lo stordimento di piaceri effimeri ed istantanei da bruciare nell’arco di una nottata; in un carpe diem edonistico, fondato sullo stordimento ipnotico, in grado di assicurare un illusorio scioglimento delle inibizioni, un accrescimento della capacità di socializzazione e dallo spostamento della soglia di affaticamento psicofisico. Tra i giovanissimi emerge il bisogno di «sballare» inteso come una generica ricerca di stordimento e di superamento dei vincoli morali della coscienza «diurna»; un tentativo di oltrepassamento delle barriere censorie del Super-Io che conduce al regno «notturno» dell’Es, dove il giovane può attualizzare quelle potenzialità latenti che la vita contemporanea narcotizza o rimuove nella camicia di forza sociale di cui parlava Nietzsche: una dimensione in cui coltivare l’eccesso e l’oltraggio come esperienza-limite, ma anche facoltà più confortanti e socialmente accettabili come la fantasia, l’intuizione. In una parola, l’immaginario, inteso come dimensione mediana e mediatrice (Malakut) tra il mondo dei sensi e le antinomie della ragione, le proiezioni soggettive e le antinomie oggettive, le strutture isomorfiche dei mitologemi e l’emisfero destro del cervello. Si tratta allora di capire – dopo avere enunciato le motivazioni sociologiche alla base del brodo di coltura dello «sballo» che interessano l’insicurezza liquida, la precarietà, l’assenza di modelli pedagogici alternativi a quelli televisivi, la contrazione su di un presente privo di senso – quali sono i significati ed i contenuti archetipici rimessi in moto, riattualizzati, dalla movida, dalla voglia di divertimento e trasgressione. Abbiamo già visto in altri articoli come archetipi apparentemente rimossi possano riattualizzarsi ed irrompere all’improvviso nell’immaginario collettivo. In questo senso il cosiddetto «progresso» etico è sempre e soltanto limitato alla sfera «diurna» della coscienza: nel profondo non siamo troppo differenti dagli uomini del neolitico, anche se questo non significa certamente disconoscere la storia. Ma l’uomo sarà sempre destinato ad essere homo religiosus, anche tra mille anni: si tratta solamente di capire le modalità di declinazione del suo immaginario religioso. Premesso questo, passiamo ad analizzare, dal punto di vista fenomenologico, il significato della categoria storico-religiosa ed antropologica della «festa». Mircea Eliade in Il sacro ed il profano ed Il mito dell’eterno ritorno ha scritto pagine importanti sulla ierofania della festa, come irruzione del tempo circolare, sacro, primordiale, all’interno del tempo rettilineo, quotidiano, profano. Naturalmente questo non significa che ogni tempo rettilineo sia «profano», perché l’escatologismo giudaico-cristiano (ancora prima l’annalistica romana) si fonda su una progressione diacronica lineare, dove ogni attimo, ogni gesto, ogni azione acquista senso proprio nella proiezione orizzontale dell’anima che si progetta nell’attesa della Parusia, della civitas dei ; escatologia dove il futuro è dimensione messianica e soteriologica che irradia l’agire etico del Dasein nel tempo presente dell’Attesa, millenario spasmo ed anelito tra il «mai più» e il «non ancora». In fondo, come sostiene Derrida, ogni concezione lineare della storia è già metafisica; significa che il tempo cronologico, registrato dall’orologio (differente dalla «durata» bergsoniana) è rettilineo proprio perché fondato sull’escatologia giudaico-cristiana, contrassegnato da un «inizio» e da una «fine»: «dominio completo della natura» (positivismo), «società egalitaria» (utopismo). La festa al contrario è rottura ontologica del tempo lineare, in quanto riattualizzazione degli eventi che si collocano in un tempo mitico, fantastico, extratemporale. Il ritorno dell’evento mitico all’interno della cronologia temporale determina la rottura di livello ontologico sulla freccia del divenire: è la stessa accusa di spazializzazione del tempo che Heidegger rivolse alla metafisica aristotelica, ma in questo caso non interessa un sistema speculativo intellettuale, quanto una condizione dell’esperienza fenomenica. Nella fenomenologia dell’esperienza religiosa, la presenza di una chiesa, di un tempio, o di una moschea provocano la rottura ontologica dello spazio profano, desacralizzato; per il fedele la presenza di una chiesa all’interno di una strada cittadina contribuisce a rendere epistemologicamente differente quella via; l’edificio religioso sospende l’uniformità omogenea del tessuto urbanistico, crea una ierofania spaziale all’interno del territorio profano. Il tempio non è soltanto una manifestazione spaziale del sacro all’interno dello spazio profano della città secolarizzata, ma è anche ritorno del tempo mitico, originario, assicurato dalla festa. La festa ritorna e rende possibile il ritorno dell’evento fondante, accaduto in illo tempore; a ritornare è sempre lo stessa festività natalizia «originaria», lo stesso tempo mitico e lo stesso contesto epifanico in cui è nato il Figlio dell’Uomo: naturalmente, all’interno dell’edificio religioso e nell’immaginario del fedele. All’esterno della chiesa il tempo cronologico, lineare, continua indisturbato la sua corsa frenetica, come se niente fosse mai successo. La festa rende possibile la rottura qualitativa di livello nell’immaginario religioso contemporaneo dove coesistono e si alternano il tempo rettilineo e quello circolare; mentre per l’uomo delle civiltà arcaiche o «primitive» esiste soltanto il tempo circolare mitico: ogni gesto è teso alla riattualizzazione di un archetipo. Sennonché non si deve pensare che la coscienza dell’uomo profano, secolarizzato, sia preservata dal ritorno circolare del perturbante per eccellenza, il sacro. La differenza, rispetto all’uomo religioso e all’uomo primitivo, è che nella coscienza laica il sacro ritorna sotto forma di archetipi sottoposti a un processo eufemizzante: il tempo mitico della festa ritorna lo stesso, ma privo dei significati originari che veicolavano l’evento. Continuando con l’esempio del Natale, nella coscienza profana, laica, la festa del 25 dicembre non è più carica dei significati soteriologici originari, ma è comunque un evento che segna una discontinuità qualitativa con gli altri giorni del calendario: è un’occasione per scambiarsi i doni e farsi gli auguri. L’archetipo della festa ritorna privo dei significati religiosi originari, ma ritorna. Lo stesso accade per le festività pagane deculturalizzate e riattualizzate in un contesto religioso eterogeneo al politeismo originario. Da un punto di vista fenomenologico possiamo dire che nella festa ritorna il tempo primordiale che ri-diventa presente; mentre da una prospettiva storico-religiosa non può sfuggire come le strutture isomorfiche dell’immaginario contemporaneo continuino a reiterare gli archetipi ed i mitologemi delle epoche arcaiche. In altre parole, il bisogno di «sballo» è il significante che veicola e reintroduce nell’età contemporanea la vecchia ierofania del tempo festivo: naturalmente, i due fattori possono essere invertiti fra loro senza che cambi il risultato (lo «sballo» come istanza causale della festa). In ogni caso, l’effetto non cambia. Nelle discoteche o nelle chiese, l’homo religiosus ha bisogno di ricreare un tempo alternativo, carico di senso ed in grado di sospendere la frenesia dettata dall’agenda del tempo cronologico. Naturalmente, vi sono delle differenze tra i modi di usufruire della sospensione del tempo ordinario, sospensione che è la stessa essenza della festa. È ovvio che una pacifica comunità di fedeli riunita in una sinagoga o in un monastero è profondamente diversa dal popolo della movida serale. Tuttavia, il bisogno che muove entrambi i gruppi umani è lo stesso: fuggire all’assenza di senso del tempo ordinario, ri-creare dei significati metatemporali all’azione quotidiana. Il tempo mitico della festa è il quid qualitativo che dona senso e significato alla vita di tutti i giorni, proprio perché irrompe da «fuori» come trascendens. Compariamo, ad esempio, la movida serale o il carnevale (specialmente quello brasiliano) con un’antica festa annuale babilonese: l’Enuma Elish. Il Poema della Creazione è la riproduzione cosmogonica dell’inizio del tempo. All’inizio di ogni nuovo anno (durata totale dell’universo), Tiamat, il serpente primordiale (secondo alcuni mitologi espressione della Dea Madre originaria) ritorna per dissolvere l’ordine precedentemente fissato della creazione. L’ordine (Cosmos) è di nuovo abolito e sospeso: dissoluzione riprodotta da orge erotiche ed abbondanti sacrifici di sangue. Durante il regno di Tiamat, il Caos impera ed ogni turpitudine è permessa (sospensione tabu). Successivamente, Marduk, l’essere supremo, ritorna per sconfiggere Tiamat ed il suo fedele alleato Kingu. Dal corpo di Tiamat e dal sangue del demone Kingu si ricrea un nuovo Cosmo (mitologema di tipo «dema»). Questa cerimonia avveniva invariabilmente all’inizio di ogni nuovo anno, tempo totale di durata dell’universo. A Babilonia erano riprodotte simbolicamente le vicende dell’ Enuma Elish: a) con il tempo della trasgressione e dell’aberrazione (ritorno di Tiamat), b) con il ritorno all’ordine ed alla legge (vittoria di Marduk). Questa reiterazione serviva a purificare le colpe individuali e collettive degli abitanti: se ogni anno l’universo veniva ricreato di nuovo, le colpe accumulate erano «lavate» via e la coscienza ritornava ad essere candida ed immacolata come quella di un neonato. Ritroviamo lo stesso mitologema presso gli Hittiti e gli Egizi; i Persiani celebravano il Naurōz, l’anno nuovo coincidente con la Creazione del Cosmo, attraverso un cerimoniale dove particolare enfasi era posta sul punto zero della cosmogonia, riprodotta da un’etica dell’eccesso e della trasgressione voluttuosa. L’estinzione dei fuochi nella tradizione nordica, il ritorno delle anime dei morti (Samhain celtico), i Saturnali romani: tutte queste feste celebrano un’estetica del Caos che trionfa provvisoriamente sull’ordine del Cosmo, prima della restaurazione della situazione iniziale, che sarà di nuovo dissolta, e così via in un’alternanza infinita tra Caos e Cosmo. Anche nei calendari mesoamericani si celebravano dei sacrifici umani particolarmente efferati e cruenti per significare l’universo creato con il sangue degli dei. Si tratta di rituali che possiedono l’indubbio vantaggio di scaricare le energie animali represse dei giovani: energie potenzialmente nocive nei confronti di una società ormai tendenzialmente priva di riti di passaggio ufficiali, che non a caso si riproducono in forma eufemistica e desacralizzata. Riti che servono a scaricare le pulsioni distruttive e a purificare la coscienza da tutte le colpe accumulate (l’espiazione dell’Anno-Cosmo di cui abbiamo parlato). Non c’è nulla da fare: i giovani della movida hanno bisogno di stordirsi per ritornare intruppati il lunedì mattina nei luoghi di studio e lavoro; il problema è stato affrontato nel Novecento da autori come Freud, Foucault, Bataille. Specialmente quest’ultimo ha mostrato come la Dépense, l’energia maledetta, non si scarica del tutto attraverso le normali funzioni biologiche della caccia, della nutrizione, della sessualità: possono restare in circolo dei residui energetici da utilizzare attivamente attraverso le feste cruente, i sacrifici umani, le orge. Se non si scarica l’energia in eccesso, il pericolo è che essa possa conflagrare nella guerra. Una delle colpe della nostra società risiede nell’avere lasciato al marketing e all’industria culturale il monopolio dell’immaginario collettivo. I miti ed i simboli sono affidati prevalentemente all’entertainment massmediatico: la pubblicità regala notorietà a fenomeni musicali o televisivi, che come meteore sono destinati a ritornare presto nell’anonimato. In assenza di una pedagogia dell’immaginazione e dell’affettività, i giovani sono prigionieri di fatui miti creati a tavolino dall’industria culturale, ma che si coalizzano e si ordinano attorno alle strutture simboliche dell’homo religiosus. Così la movida e lo sballo notturno mettono in circolo energie incontrollabili che si ritorcono contro, finendo per distruggere colui che le ha liberate. La movida notturna – riattualizzazione delle arcaiche feste del caos – è molto più distruttiva di queste ultime, perché non si avvale di un controllo rituale per incanalare le energie destinate alla catarsi purificatrice. Il numero annuale delle vittime dello sballo del sabato sera è enorme: ma senza feste o cerimonie rituali la Dépense è affidata al caso; e questa è un’eredità negativa che ci ha lasciato il «secolo breve», cui dobbiamo porre rimedio. |