Il Bambino nascosto /6

Psicologia

Il caso clinico che viene presentato in queste pagine è stato trattato interdisciplinarmente sia dal punto di vista ginecologico che psicologico alcuni anni fa.

Il Bambino nascosto /6

di Alba Marcoli

Favole per capire la psicologia nostra e dei nostri figli 

Sommario:  La storia delle radici di Simona / Dalla morte alla rinascita – La storia delle radici di Cristina / La difficoltà a nascere

Capitolo sesto. Due casi clinici

La storia delle radici di Simona / Dalla morte alla rinascita 

Il caso clinico che viene presentato in queste pagine è stato trattato interdisciplinarmente sia dal punto di vista ginecologico che psicologico alcuni anni fa. [1

Si tratta di una coppia di trentacinquenni, Ester e Giuseppe, che si presentano per una consultazione psicologica su indicazione della ginecologa per un problema di sterilità apparentemente non spiegabile dal punto di vista organico per nessuno dei due. 

Tutte le indagini e le analisi fatte su entrambi hanno infatti dimostrato che la coppia sembrerebbe essere potenzialmente in grado di procreare, ma nonostante ciò, da più di cinque anni i molteplici tentativi fatti sono stati sempre infruttuosi. 

Durante la prima consultazione entrambi vengono sottoposti al test del disegno di una coppia immaginaria. [2

Ne emerge che, mentre la coppia disegnata da Giuseppe è quella di uomo-donna in età fertile, la coppia disegnata da Ester è quella di madre-bambino, evidentemente non fertile per età e ruolo. 

Nella seconda seduta di consultazione, sempre fatta con la coppia, si lavora quindi sull’immaginario che nella mente dei due partner accompagna un eventuale figlio, ed è emerso che Ester proietta su questo evento un’aspettativa altissima di un proprio valore che ogni nuova mestruazione contribuisce a negarle. Questo, a sua volta, la fa precipitare in una percezione di sé altamente negativa e svalutante, con tutte le caratteristiche di una reazione depressiva. 

A quel punto, sulla base di altre esperienze analoghe, pensiamo di proporre a Ester una terapia psicologica con un contratto ben preciso, i cui punti fondamentali sono: 

1. La terapia (che prevede una seduta quindicinale) non è finalizzata al prendere in carico la sterilità, ma la sua reazione depressiva.   La sterilità potrebbe solo essere presa in esame come uno dei tanti altri possibili sintomi, insieme al materiale del suo mondo interno (sensazioni, emozioni, pensieri coscienti, sogni). 

2.. Nei limiti del possibile Ester avrebbe tentato di ridimensionare per il momento l’aspettativa di un figlio, cercando altri interessi che la coinvolgessero sul piano emotivo. La proposta è cioè di attenuare questa ossessiva concentrazione sull’idea di un figlio, voluto probabilmente anche in funzione antidepressiva. 

3. Nel caso, “improbabile” che Ester fosse rimasta incinta durante la terapia, questa sarebbe dovuta continuare “almeno” per i primi due anni di vita del bambino, per evitare che il gioco di aspettative troppo alte si riflettesse poi sul benessere psicofisico del bambino stesso. 

Questa proposta ha agli inizi disorientato la giovane donna che aveva un’enorme paura di una psicoterapia, vissuta per qualche motivo nel suo mondo interno come un fantasma minaccioso. 

«Ma io sono sempre stata abituata a gestirmi i problemi da sola, senza parlarne a nessun altro fuorché a mio marito!» ha detto Ester che aveva un ottimo rapporto di affetto, fiducia e stima con Giuseppe. 

Ha allora chiesto di fare una seduta da sola prima di decidere e si è concordato un primo incontro, durante il quale è emersa la figura di una nonna amatissima morta da alcuni anni per la quale non ha fatto altro che piangere. 

Praticamente quasi tutto lo spazio di questa prima seduta è stato occupato da un pianto struggente, silenzioso e disperato per il dolore di questa morte. 

La seduta è terminata con la riproposta del contratto da parte mia, mentre Ester diceva che ci avrebbe pensato, perché in quel momento non si sentiva di affrontare tanto dolore. 

Io le ho risposto che era importante che lei tenesse conto di questo e rispettasse ciò che si sentiva dentro in quel momento. 

Infatti la terapia non sarebbe stata indirizzata alla sterilità, per cui si trattava solo di uno dei tanti possibili aiuti a cui lei sarebbe potuta ricorrere. In ogni caso, inoltre, come trovo corretto specificare, una terapia psicologica è sempre «un lavoro incerto, difficilmente prevedibile. [3

Devo dire che, nonostante avessi sentito un buon contatto empatico con Ester, ho concluso questa prima seduta con l’impressione che difficilmente avrebbe iniziato una terapia vera e propria e l’ho invitata a telefonarmi di nuovo solo se avesse preso una decisione in tal senso. 

D’altra parte, proprio in quel periodo, avevo avuto esperienza di una storia simile in cui la persona aveva rinunciato alla terapia perché evidentemente questa disturbava troppo il modo di funzionamento mentale sia suo che della coppia. 

Ester non ha più telefonato per diverse settimane e io ho pensato che questa fosse la sua legittima decisione finale, parzialmente confermata dal fatto che lei aveva espresso la sua difficoltà alla ginecologa con cui lavoravo. 

Invece, a distanza di tempo, una sera ricevo con mia sorpresa una telefonata nella quale mi si chiede un primo appuntamento per iniziare la terapia. Ho saputo in seguito che quelle settimane, lungi dall’essere inutili, sono state per lei di grande lavoro psichico perché ha continuato a pensare alla seduta e a ciò che era emerso. 

Abbiamo così di comune accordo iniziato la terapia con una seduta ogni quindici giorni, secondo il contratto proposto inizialmente. 

Devo dire che il lavoro è stato molto facilitato da Ester che praticamente aveva già pronti dentro di sé tutti i temi che sono poi emersi, come se questa giovane donna non avesse fatto altro per anni che aspettare il luogo e il momento in cui portare il proprio disagio. 

Era una persona veramente pronta per una psicoterapia di cui giustamente sentiva allo stesso momento un gran bisogno e una gran paura. 

I personaggi che nel corso del tempo si sono seduti e susseguiti sulla poltrona davanti a me, portati dal mondo interno di Ester, settimane dopo settimane, sono stati di volta in volta un padre autoritario e repressivo, affettivamente distante, vissuto con un amore-odio infantile cieco, una madre sottomessa e sacrificale, vissuta come un’identità femminile da rifiutare visceralmente e una nonna affettiva e dolce la cui morte non era stata ancora elaborata. 

Era come se la sua accettazione volesse dire per Ester anche la morte dentro di lei dell’unico rapporto d’amore che le sembrava d’aver sperimentato da bambina. 

Nel suo mondo interno si alternavano, in un carosello di sentimenti, un padre da cui avrebbe voluto sentirsi amata e da cui invece si era sentita negata e svalorizzata, verso cui provava dei grossi impulsi di amore-odio; una madre il cui modello femminile lei rifiutava visceralmente (e forse, chissà, anche genitalmente) e una nonna che rappresentava un materno buono che era però presente nella sua mente come indissolubilmente legato a una persona morta. 

Il fatto che lei non ne avesse ancora accettata la scomparsa faceva in modo che questa dimensione di materno buono, l’unica in cui lei si potesse identificare per essere madre, fosse perciò nel suo mondo interno strettamente legata all’idea della morte. 

Ci sono voluti diversi mesi di sedute passate in un continuo pianto, sempre silenzioso, disperato e struggente, prima che Ester accettasse finalmente l’idea della morte di questa nonna così idealizzata. 

Contemporaneamente, però, la sua accettazione ne ha permesso l’elaborazione, il che ha voluto dire per lei il passare dall’essere vischiosamente attaccata all’idea di questa nonna morta (e quindi alla morte) all’accettare invece di staccarsene, mantenendone dentro di sé un ricordo altrettanto buono, ma vivo. 

L’accettare la morte della nonna, cioè, nella storia di Ester ha voluto dire lo scegliere di vivere davvero e non di essere «una morta vivente». 

A quel punto anche le figure genitoriali dentro di lei hanno cominciato a essere più accettabili ed è iniziato un lento processo di trasformazione del rapporto verso di loro. 

Hanno infatti poco a poco cominciato a essere viste all’interno delle difficoltà della loro storia, pur restando delle figure conflittuali. 

Finché un giorno Ester è arrivata in seduta dicendo: «Sa, mi sono accorta che non ce l’ho più con mio padre come prima!». Il che ha rappresentato per lei la possibilità di vedere questo rapporto anche in un’altra luce e non solo in quella precedente. 

Anche i sogni di Ester hanno cominciato lentamente a cambiare così come l’immaginario che accompagnava un eventuale figlio. 

È stato a poco più di un anno dall’inizio della terapia che la giovane donna è arrivata in seduta stravolta, in preda a violente emozioni di sorpresa e di paura. Si era avverato ciò che lei aveva tanto sperato e, evidentemente, temuto: era rimasta incinta. 

Ricordando sempre lo stupore con cui avevo assistito alla reazione di grande paura e di pianto di un’altra persona che avevo seguito anni prima per sterilità, nel momento in cui era rimasta incinta, non sono rimasta impressionata da questa reazione di Ester. 

Come mi è capitato spesso di osservare, è frequente in questi casi una grande paura, in genere inconscia, del cambiamento e una notevole difficoltà ad adattarvisi e non si può certo dire che una gravidanza sia un cambiamento da poco in una donna, per quanto essa possa essere desiderata. 

Nonostante quindi una parte dentro di lei fosse felicissima della cosa, Ester nel complesso ha continuato a essere sorpresa, stupita e anche spaventata come una bambina piccola davanti a una cosa più grande di lei, per tutti i primi quattro mesi di gravidanza. 

Per evitare complicazioni, poiché la gravidanza si presentava a rischio, la ginecologa con cui la seguivo l’ha tenuta a riposo con tocolitici fin dai primi tempi, per cui le sue uniche uscite erano per le visite ginecologiche e le sedute psicologiche. 

Ci sono voluti quattro mesi prima che Ester accettasse l’idea di questo suo cambiamento e si rendesse conto di essere veramente incinta. 

Fino ad allora la sua sensazione era che la cosa riguardasse un’altra persona, non lei. Sono stati questi i mesi più delicati e importanti di tutta la terapia e anche quelli che hanno stretto una buona alleanza terapeutica fra di noi. 

Ester sentiva di avere uno spazio suo dove poter essere capita e confrontarsi con i suoi fantasmi senza esserne travolta, e per me questa terapia ha rappresentato un ulteriore momento di grande conoscenza cui la sensibilità psicologica e l’intelligenza della giovane donna mi hanno permesso di accedere. 

Si è rinforzato in me il convincimento, peraltro già esistente (e che mi aveva portato a formulare la terza clausola del contratto iniziale), che dietro a ogni sintomo c’è una situazione complessa. 

Nel caso della sterilità sono giunta infatti a pensare che il puro fatto di restare incinta sia solo uno, e non il più importante, dei molteplici aspetti del problema. 

L’esperienza interdisciplinare mi ha portato infatti a ipotizzare che la gravidanza dopo un episodio di sterilità possa essere facilmente a rischio non solo organicamente, ma anche psicologicamente, non fosse altro che per tutta la pressione esercitata dalle aspettative precedenti che entrano poi nella relazione col figlio e che possono trasformarsi in difficoltà psicologiche del bambino. 

Sarebbe molto importante a questo proposito che i medici che si occupano di sterilità avessero una particolare attenzione anche per il versante psicoterapico del problema, formulando un progetto multidisciplinare in tal senso. 

Se da una parte è infatti vero che una psicoterapia è un lavoro incerto, d’altra parte un buon appoggio psicologico alla madre in gravidanza e nei primi due, tre anni di vita del bambino potrebbe essere un serio tentativo di evitargli o alleggerirgli molti futuri disagi, proprio perché gli permetterebbe di sperimentare un rapporto con una mamma meno angosciata, che probabilmente immetterà meno fantasmi nella relazione madre-bambino, pilastro cardine su cui si basa tutta la futura vita psichica del figlio. 

Tornando al caso di Ester, la sua gravidanza ha avuto un decorso difficile ma non drammatico. 

La giovane donna è stata tenuta quasi sempre a riposo e spesso a letto, ma non ci sono state delle minacce d’aborto particolarmente gravi. 

Dal punto di vista psicologico i due momenti più difficili sono stati, oltre all’inizio, il settimo e il nono mese; il primo perché ha visto l’inizio del ribaltamento del bambino verso il canale vaginale, percepito dalla madre come un nuovo grande cambiamento, e il secondo perché la difficile incognita che si presentava a Ester era il parto, vissuto nella sua fantasia in modo minaccioso e distruttivo. [4

La particolare sensibilità psicologica della giovane donna l’ha portata a mettere a fuoco che la sua difficoltà finale era quella di separarsi fisicamente dal bambino e di accettare questo nuovo cambiamento. 

Sono stati questi i temi principali delle sedute negli ultimi due mesi di gravidanza; Ester continuava a portare il suo dolore e la sua incapacità di sopportare di separarsi da questo bambino che le aveva fatto compagnia per tanti mesi dentro di lei, come non le era mai successo di sperimentare nella vita. 

È stato nella penultima seduta prima del parto che, riportando un sogno fatto, ha finalmente detto che questo l’aveva aiutata a sentirsi pronta per la nascita del suo bambino, cosicché aveva una gran voglia di vederlo da fuori e di sapere come era fatto. 

Anche questo è stato un momento importante e delicato della terapia perché ha cominciato a preparare la «nascita psicologica» del bambino, lo spazio mentale separato da sé che la madre destina al figlio e che gli permette di crescere come una persona autonoma e con una propria identità, non come una sua appendice. 

Quando si presenta il momento del parto, a termine e per via vaginale, Ester è molto sostenuta dalla presenza del marito, una persona affettiva e sensibile che ha avuto una notevole funzione di aiuto e di supporto nei suoi confronti per tutta la gravidanza. 

Ha infatti collaborato pienamente al programma terapeutico che si era stabilito insieme fin dalla prima consulenza, accompagnando sempre la moglie per le sedute, ad alcune delle quali ha anche parzialmente partecipato, per evitare che si sentisse escluso dalla coppia madre-bambino, come spesso può succedere. 

Si è infatti osservato in campo clinico che la presenza del padre è molto importante e come supporto per la madre e proprio per evitare la chiusura della coppia mamma-bambino, soprattutto a partire dall’anno di vita del piccolo. 

È il fatto che il padre si inserisca come terzo in questa diade che permette di evitare gli sbocchi simbiotici e l’eccessiva dipendenza della madre dal bambino e viceversa, che spesso intralcia la strada verso l’autonomia psichica. 

La piccola della nostra coppia nasce quindi a termine e in ottime condizioni: è una bambina cui viene dato il nome di Simona. 

Il “post partum”, come prevedibile, vede un altro momento difficile per Ester. 

Da una parte c’è il dolore della separazione fisica dalla bambina e la perdita di questa compagnia costante, che si dimostrano tendenzialmente depressivi anche se sono stati preparati psicologicamente. 

Dall’altra c’è la sensazione di estraneità che la giovane donna prova per la bambina, la stessa che aveva provato durante i primi quattro mesi di gravidanza, quando le sembrava che l’esperienza riguardasse un’altra, non lei. 

Ester è in piena tempesta emotiva; come agli inizi della gravidanza ha lo sguardo e le emozioni di una bambina a cui sia successa una cosa troppo grossa,, e prova una sensazione di estraneità nei confronti di questa bambina che pure ha desiderato moltissimo e che tutti le dicono che è «sua figlia». 

Nel sottofondo gioca anche il dolore di vedere che tutti fanno festa alla bambina, quasi dimenticandosi di lei, il che le risveglia l’antica ferita, ancora aperta, del sentirsi una bambina rifiutata e non amata. 

Ne scaturisce una ridda di sentimenti nei confronti della figlia che la spaventa: l’amore, il sentirla estranea, il sentirsi tradita perché ha abbandonato il suo corpo, l’invidia e la gelosia per le feste che tutti le fanno, ma anche lo stupore e la grande tenerezza, il vederla indifesa come un uccellino, il riconoscerla bisognosa di protezione proprio come lei in questo momento. 

In questo caos di sentimenti contrastanti Ester fa fatica a orientarsi, anche per i condizionamenti culturali sulla maternità. 

Quando le viene da chiedersi: «Ma chi è questa qui? Che cosa vuole da me?» quasi fosse spaventata dalle richieste della piccola nei suoi confronti, si sente una cattiva mamma e cade in una depressione che le tinge di nero anche i momenti di tenerezza e di gioia. 

«Ma dov’è il senso materno?» si chiede allora spaventata. «Perché io non ce l’ho?» 

È la ripresa della terapia psicologica a un mese di distanza dalla nascita della piccola che aiuta la mamma a mettere un po’ d’ordine in questo caos e ad accettare che si possano provare contemporaneamente emozioni e sentimenti del tutto opposti senza per questo sentirsi una cattiva madre. 

La ripresa della terapia l’ha cioè aiutata a sentirsi una mamma «sufficientemente buona», come dice Winnicott, cosa peraltro provata dal fatto che la bambina cresce bene e senza nessun particolare problema. 

La difficoltà di Ester però continua, anche se in termini molto più tollerabili. 

Quello che la presenza della bambina scardina quotidianamente dentro di lei sono il suo rapporto con il bisogno di controllare e prevedere le cose e i suoi tempi per l’accettazione dei cambiamenti. 

«Con un bambino piccolo non si può mai prevedere il giorno dopo, tutto può cambiare da un giorno all’altro, è una scoperta continua» dice contenta e preoccupata allo stesso momento; contenta per le evidenti conquiste che la bambina fa giorno dopo giorno e preoccupata per la fatica che «il nuovo» rappresenta ogni volta per lei. 

Alla fatica si aggiungono anche dei problemi fisici per Ester, che ha sempre sofferto di scoliosi e mal di schiena, per cui si sente a pezzi alla fine di una giornata di accudimento della piccola, tanto che a un certo punto è anche costretta dall’ortopedico a usare un busto di sostegno. 

Ma le emozioni e le sensazioni che nel corso del tempo la bambina le fa provare la ripagano anche di questa difficoltà. «Quando io pensavo a un figlio» dice «avevo in mente delle cose completamente diverse, non pensavo che fosse una fatica così grande e che costasse tanto, ma non avrei neanche mai immaginato tutte le emozioni di gioia che un bambino può dare. E’ sicuramente l’esperienza più importante della mia vita! Non ho mai provato tanta gioia!» 

E così, poco a poco, anche questo nuovo cambiamento viene integrato nel mondo interno di Ester, con un accorciamento dei tempi necessari. 

Là dove prima le erano serviti quattro mesi per rendersi conto di essere veramente incinta, adesso le bastano due mesi per superare questa sensazione di estraneità e scoprire il suo senso materno. 

«Sa,» dice verso i tre mesi di vita della bambina «mi rendo conto solo adesso che certe cose del bambino le può capire solo la madre che sta con lui tutto il giorno. Io adesso capisco subito il significato dei suoi pianti, mentre mi accorgo che mio marito che la vede solo la sera ha più difficoltà a orientarsi. 

E poi io le parlo tutto il giorno, anche quando faccio le faccende di casa, come le parlavo quando l’avevo nella pancia. E vedo che lei riconosce subito la mia voce e che si volta verso di me anche se in quel momento sono da un’altra parte della stanza. 

E quando mi vede in faccia le si illumina proprio il viso. 

Si sente che la mamma è davvero una persona speciale per il bambino; chissà, forse è questo l’istinto materno.» 

In effetti, come sottolinea Fornari, [5] la regressione quasi infantile dopo la nascita della bambina è stata anche quella che le ha permesso di avvertire meglio i suoi bisogni e di trovare le risposte giuste per lei. 

E l’impressione che un osservatore ne ricava è quella che la bambina sia accudita in modo perfettamente adeguato e molto affettivo da parte della mamma, nonostante le sue difficoltà. 

Nel frattempo anche i rapporti familiari di Ester si trasformano lentamente, sia con la madre che col padre. 

Dalla prima si sente molto sostenuta e aiutata quotidianamente in questa sua esperienza come nei lunghi mesi passati a riposo in gravidanza; dal secondo si sente più appoggiata di quanto non le sia mai successo prima e, soprattutto, si sente sorpresa per il grande affetto che questi dimostra per la nipotina. 

«Non avrei mai pensato che mio padre potesse essere così attaccato a un bambino» dice un giorno; «è proprio una sorpresa per me. Però una volta, quando ero incinta, lui me l’aveva già detto che non dovevo credere che non mi volesse bene, ma solo che lui era fatto così e non era capace di manifestarlo. D’altra parte, con una storia così triste e dolorosa alle spalle come la sua, posso anche capire che nessuno gli abbia mai insegnato come si fa a dimostrare l’affetto a un figlio.» 

Anche questa scoperta dell’affettività paterna e materna contribuisce a portare un po’ più di serenità nel mondo interno di Ester e a riappacificarla con un ruolo genitoriale, mentre nelle scoperte quotidiane che fa sulla figlia le viene in aiuto anche la sua esperienza personale. 

«Il pediatra insiste perché mangi la   prima pappa col cucchiaino,» dice a cinque mesi d’età della bambina «ma, per quanto abbia provato per una settimana intera, lei proprio non ne vuole sapere. Non si adatta ancora all’idea del cucchiaino. Allora ho seguito il parere che mi hanno dato in consultorio di continuare con l’allattamento al seno e con il biberon. D’altra parte, se ci metto tanto tempo io che sono grande ad accettare i cambiamenti, figuriamoci lei che è così piccola!» 

Due mesi più tardi dice: «E poi in questo momento siamo appena tornati dalle ferie, e sa che mi sono accorta che lei faceva fatica a riconoscere la casa e le cose familiari? Pensi, mentre scaricavamo i bagagli e sistemavamo tutto, le ho visto proprio un’espressione di paura, come se si trovasse in un luogo estraneo; allora io ho lasciato perdere tutto, me la sono presa in braccio e l’ho portata in giro per tutta la casa e gliel’ho mostrata. Le ho detto: “Ecco, Simona, questa è la tua casa, questo è il tuo lettino con le tue copertine, questa è la tua stanza con tutti i tuoi giochi, queste sono le tendine della finestra, questa è la stanza della mamma e del papà, e questa è la cucina dove la mamma ti prepara il biberon…”. Beh, lo sa che poco a poco lei si è tranquillizzata, le è sparita quell’espressione così smarrita e ha ripreso a sorridere? E’ proprio incredibile come i bambini capiscono proprio tutto dal momento in cui nascono. Se io non l’avessi sperimentato con mia figlia non me lo sarei mai immaginato neanche lontanamente. Per noi grandi è difficile capirlo. Sono loro che ce lo insegnano». 

Ecco, d’ora in poi Ester comincia a sentirsi «grande» e questo è un passo molto importante per lei e per sua figlia che invece è la «piccola» di casa. 

Ester e Giuseppe partecipano in seguito a un gruppo di formazione per genitori, imparando a prendersi cura delle loro parti bambine senza invertire i ruoli, proiettandole inconsapevolmente sulla piccola. 

La loro vita prosegue ora, fra le soddisfazioni e le difficoltà quotidiane, come per tutte le cose del vivere. 

Non sappiamo come Simona sarà da grande: sappiamo solo ciò che è successo e succede in questo momento, non quello che sarà o sarebbe potuto essere. Quello che di lei sappiamo è che ha sperimentato nei primi mesi della sua vita, i più importanti in assoluto per il suo futuro, il rapporto con una mamma molto affettuosa e disponibile che ha potuto prendersi cura di lei come della cosa più importante della sua vita, nonostante i suoi momenti di angoscia e di grandi difficoltà psicologiche. 

La storia delle radici di Cristina / La difficoltà a nascere 

Come per la storia di Simona, anche questa è una situazione che è stata seguita contemporaneamente sia dal punto di vista ginecologico che psicologico. [6

Si tratta infatti di un caso di infertilità [7] che forse può esemplificare abbastanza chiaramente l’importanza di quello che i francesi chiamano “l’enfant merveilleux” nel gioco dell’immaginario materno e familiare. 

Si intende con questa definizione il bambino «immaginario» ideale, quello che è spesso presente nella mente e che diventa l’inevitabile termine di confronto rispetto al bambino reale, il quale ne esce di solito inevitabilmente sconfitto perché è difficile competere con un’immagine così idealizzata e perfetta. 

Dice Brazelton a proposito: 

“In tutti i futuri genitori al momento della nascita sono tre i neonati che vengono alla luce. Il bambino immaginario dei loro sogni e delle loro fantasie e il feto invisibile ma reale – che da parecchi mesi ha manifestato con vigore sempre maggiore i suoi ritmi peculiari e la sua personalità – si confondono con il neonato vero e proprio che può essere visto, udito e infine tenuto stretto.  L’attaccamento verso un neonato… si fonda sulla precedente relazione con un bambino immaginario e con il feto in via di sviluppo che ha fatto parte del mondo dei genitori per nove mesi.” [8

Nell’“enfant merveilleux” possono andare a confluire delle aspettative altissime, sia consapevoli che inconsapevoli, non solo da parte dei genitori, ma spesso anche dell’intero gruppo familiare, vista la pressione affettiva da cui sono circondati i pochi bambini di un nucleo ridotto quale è la famiglia che si presenta oggi nel nostro mondo occidentale. 

Un bambino che nasce in queste condizioni è già gravato di un compito un po’ pesante, quello di rispondere a delle aspettative altrui che possono essere diverse dalle sue. 

Un genitore che non ha potuto o voluto studiare potrà quindi correre il rischio di aspettarsi che il figlio studi anche per lui, quasi a «sanare» un suo sbaglio o una sua frustrazione giovanile, e così via. 

Mi vengono in mente casi di genitori intelligenti e disponibili a qualsiasi sacrificio per i loro figli, a cui davano «tutto quello che io non ho potuto avere, compresa la possibilità di studiare che a me sarebbe piaciuta moltissimo e che ho rimpianto per tutta la vita». 

Il risultato era frequentemente una difficoltà a imparare, spesso non dovuta a povertà di strumenti intellettivi del bambino o del ragazzo, ma al blocco dell’apprendimento che un’aspettativa così massiccia può a volte causare. 

È come se il figlio in certi casi calasse una saracinesca che non lascia passare niente e che lo fa sembrare apparentemente stupido. 

La funzione di questa difesa è quella di preservare la sua individualità che sente invasa da queste aspettative massicce del genitore. 

Poiché il salvare la propria individualità è ciò che gli garantisce il non cadere nell’indifferenziato, che produce un’angoscia confusiva, ecco quindi che il figlio fa un’operazione che lo difende sul piano mentale, ma a svantaggio delle sue stesse risorse intellettive. 

Sarebbe molto importante, come sottolinea Senise, che in questo caso il genitore riuscisse a spostare le sue aspettative “sulla competenza e non sul successo”. [9

Il figlio reale, infatti, come osserva Racamier, “non è mai così meraviglioso” come quello che può comparire nella mente dei genitori per sanare le loro ferite infantili, “ma non è mai nemmeno così fallito” come invece si presenta quando scatta l’ansia determinata da questo gioco di aspettative. 

Quella che si considera clinicamente la «nascita psicologica» di un bambino avviene infatti innanzitutto nello spazio mentale dei genitori, e della madre in particolare, quando si preparano ad accogliere il bambino come diverso da loro stessi e da ciò che si aspettano da lui (Racamier lo chiama «il bambino anticipato»). 

Là dove la madre resta invece inconsciamente ancora attaccata, come sua difesa psicologica, all’”enfant merveilleux” concepito fondamentalmente come parte propria in quanto destinata a riparare qualche suo bisogno infantile rimasto insoddisfatto, spesso il bambino trova più difficoltà nel suo processo evolutivo di separazione-individuazione e lo manifesta attraverso sintomi di vario genere. 

Ora, il lavorare con il caso di Cristina e vari altri casi analoghi, mi ha condotto a ipotizzare che quando l’”enfant merveilleux” è dominante in modo assoluto e totale nella mente materna ,esso possa diventare in certi casi uno dei tanti fattori che potrebbero intervenire dal punto di vista psicologico in un processo di sterilità o di infertilità, oltre a essere un fattore a rischio psicologico per il bambino. 

Qualsiasi possa essere quindi la dinamica di un processo ancora tutt’altro che chiaro, vediamo la storia di Donatella, che mi ha portato, insieme ad altri, a questi interrogativi e ipotesi. 

Si tratta di una giovane donna che si presenta per una consultazione psicologica dopo un secondo aborto spontaneo, avvenuto entro il terzo mese di gravidanza e apparentemente non spiegato sul piano clinico. 

La giovane è in piena crisi depressiva e, nonostante permanga un fortissimo desiderio di maternità (con una componente abbastanza evidente di aspettativa antidepressiva), non riesce più a restare incinta. 

Contemporaneamente alla consultazione psicologica, Donatella affianca tutta una serie di interventi specialistici fatti nell’ottica un po’ magica che «più si paga» più si ottiene una prestazione qualificata da parte di molte figure diverse (quattro ginecologi, un neurologo, uno psichiatra, un omeopata, eccetera). 

Appare presto evidente che in realtà esiste una componente di aspettative magiche di soluzione immediata dei problemi nei confronti di tutte queste figure, che non possono che dimostrarsi inadeguate a simili richieste, rinforzando nella giovane donna la convinzione che «nessuno» può veramente aiutarla e che «nessuno» è abbastanza comprensivo nei suoi confronti. 

Il suo modo di porsi nel rapporto è una dipendenza di tipo filiale, ma svalutativa, destinata a confermare nel suo mondo interno che l’adulto a cui si rivolge, chiunque esso sia, è in ogni caso inadeguato a darle la risposta di cui lei ha bisogno. 

Il ginecologo che le consiglia la maternità dicendole che risolverà così la sua depressione e l’omeopata che per il momento gliela sconsiglia, dicendole che, in ogni caso, i suoi due aborti sono stati «di testa», rinforzano il suo convincimento profondo che nella realtà lei non si può fidare di loro, come di nessun’altra figura di autorità. 

Emerge così un’implicita svalorizzazione del ruolo parentale, quello stesso cui lei, a livello cosciente, sembrerebbe aspirare. 

Durante la consultazione psicologica, la sua richiesta di consigli su un’eventuale maternità o meno non viene accolta per non rinforzare questa sua modalità; le viene semplicemente detto che il decidere se mettere al mondo un figlio o meno fa parte della sua sfera di libertà e responsabilità e non è in ogni caso sufficiente a garantire una nascita. 

La giovane donna cade allora in crisi e riconosce che è difficile accettare delle responsabilità, mentre sarebbe stato più comodo darle a qualcun altro (ginecologo, omeopata, qualsiasi altra figura d’autorità). 

Tuttavia è proprio questa prima crisi che, in qualche modo, comincia a produrre dei movimenti nel suo mondo interno. 

Donatella ha attualmente ventinove anni e da circa tre soffre di periodiche crisi depressive. 

  Il suo star male si manifesta con apatia, incapacità di concentrarsi e di fare le cose, crisi frequenti di pianto e sensazione di catastrofe imminente. 

L’organo bersaglio è in genere la testa che le fa male «da impazzire» o che le gira improvvisamente e la fantasia sottostante è quella del tumore, che lei nega persino come parola, chiamandolo un «brutto male», con l’apparente impossibilità di chiamarlo con il suo vero nome. 

Nella seconda seduta di consultazione, dove è stato anche chiesto l’intervento della ginecologa per raccogliere meglio l’anamnesi medica, si decide di lavorare sull’immaginario che, nella mente della giovane donna, accompagna la fantasia di un figlio. 

Ne emerge il seguente quadro: «Se ho un figlio vuol dire che: 

1 – io non sono troppo vecchia per avere dei figli; 
2 – anch’io sono completa se ho un figlio; 
3 – anch’io sono in grado di fare dei figli. È una risposta per il mio corpo; 
4 – così io non mi sento dire dagli altri: “Quella lì non ha neanche un figlio”; 
5 – così anch’io ho una vera famiglia, non una coppia senza un figlio; 
6 – così anch’io posso provare la sensazione di sentirmelo dentro; 
7 – così anch’io posso andare a testa alta davanti a mia suocera; 
8 – così anch’io potrò andare a passeggio con una carrozzina, io, mio marito, mio figlio; 
9 – così lui potrà crescere altruista e affettuoso verso gli altri perché io cercherò di crescerlo ed educarlo bene». 

Tutto il quadro è fortemente caratterizzato da quello che sembra essere più un desiderio di maternità (rivolto a sé) che di figlio (rivolto all’altro). 

La dominanza del bambino «meraviglioso», destinato a curare magicamente le ferite materne e familiari (perché Donatella, come emergerà in seguito, ha avuto un’infanzia «normale» ma segnata da dolorose difficoltà relazionali che l’hanno fatta sentire una bambina molto sola e incompresa), pare essere incontrastata. 

Nell’unica fantasia in cui sembra infatti comparire parzialmente il bambino (così “lui” potrà crescere altruista e affettuoso) interviene subito la rettifica (perché io cercherò di crescerlo ed educarlo bene). 

È interessante inoltre vedere come in questo immaginario sia quasi del tutto esclusa la figura paterna, fornendo le premesse per una possibile coppia chiusa madre-bambino che col tempo potrà risentire inevitabilmente dell’esclusione del terzo, il padre, ostacolando, come si è detto, lo sviluppo psicologico del bambino. 

Quando, a fine seduta, le vengono semplicemente rilette tutte insieme queste fantasie, Donatella, che è una persona intelligente e di grande sensibilità, per la prima volta sorride fra il triste e l’ironico ed esclama: «Mah… mi pare che ci siano un po’ troppi io!» 

  In qualche modo sembra che la dimensione ironica suscitatale in quel momento dalla semplice rilettura senza commento alcuno, riesca a suggerirle una seppur momentanea distanza da un immaginario così fortemente centrato su di sé e palesemente destinato a riparare una scarsissima autostima di base. 

Alla fine della consultazione psicologica-ginecologica si decide con Donatella per un intervento psicoterapico d’appoggio con una seduta quindicinale che l’aiuti a contenere la sua depressione. 

Interviene gradualmente un progressivo miglioramento che le permette di riprendere il lavoro (nel momento di crisi acuta era infatti dovuta ricorrere a un congedo), anche se accusa sempre una sintomatologia di carattere depressivo. 

Il tema della maternità ricorre agli inizi come modalità ossessiva nella sua progettualità ed è l’unica motivazione che la spinge al rapporto sessuale verso il quale ha in questo momento un calo di desiderio, come succede frequentemente nei momenti depressivi. 

Dopo i precedenti aborti il ciclo mestruale presenta delle irregolarità con saltuari periodi di amenorrea, che lei si spiega dicendo di essere convinta di bloccarlo al cinquanta per cento proprio col suo forte desiderio di maternità. 

A circa nove mesi di distanza dall’inizio della terapia d’appoggio, Donatella viene anche inserita in un gruppo sperimentale di psicomotricità per pazienti depresse, e questa partecipazione comincia a provarle che è possibile qualche esperienza di apprendimento nuovo e di cambiamento anche per quanto riguarda il suo corpo. [10

Nella discussione interdisciplinare del caso ci aveva stimolato a proporle anche questo tipo di intervento, il riflettere sul fatto che il momento depressivo viene spesso vissuto non solo con una dimensione atemporale ma anche aspaziale. 

Il corpo è allora sentito come portatore di malattia e di un’angoscia che blocca spesso la scioltezza dei movimenti nello spazio, attraverso un’inibizione al cambiamento e all’«andare avanti», sia fisicamente che simbolicamente. 

Contemporaneamente, anche il materiale portato nelle sedute quindicinali di appoggio comincia a cambiare; compaiono sogni propositivi di partenza e di cambiamento (sogna ad esempio di chiedere al marito la macchina perché le serve per un viaggio, mentre al suocero che le chiede se arrivano dei bambini lei risponde che ci penserà dopo le vacanze). 

Prima delle ferie, nella seduta conclusiva in cui si è nuovamente lavorato sulle sue aspettative nei confronti di una possibile maternità, Donatella sembra aver preso una certa distanza da un immaginario così fortemente centrato su di sé. 

Sempre in quest’ultima seduta emerge che la sua difficoltà sembra essere sul piano psicologico quella di un eventuale passaggio dal ruolo di figlia a quello di madre. 

Il continuare a fare la figlia è sempre stato il suo modo di approccio, sia nella dipendenza che nella controdipendenza, con tutte le varie figure di autorità precedenti (psichiatra, ginecologi, omeopata, eccetera) che sono però state svalutate nella sua mente dal vissuto che «tanto, nessuno può far niente per me». 

In qualche modo la terapia d’appoggio con la consulenza ginecologica e l’intervento psicomotorio le provano che ci possono essere degli adulti che vogliono fare delle cose per lei e la prendono in carico, pur non entrando nel suo gioco seduttivo-manipolativo. 

Ci sono cioè degli adulti che possono assumersi un ruolo parentale senza essere poi distrutti dalle sue fantasie svalutative. 

Ma se loro non si lasciano distruggere, questo significa anche che lei stessa non si sente più così distruttrice, per cui assumere il ruolo di genitore non significa automaticamente essere distrutto dalle fantasie svalutative e distruttive del figlio. [11

A fine luglio la giovane donna parte per le ferie, accompagnata dal ricordo dei suoi ultimi sogni. Agli inizi di ottobre resta incinta, proprio prima di essere ricoverata in ospedale per il monitoraggio ormonale. La gravidanza si presenta problematica e difficile, come le due precedenti. Donatella è costretta a letto e all’immobilità assoluta (cosa che aveva per altro già fatto accuratamente anche le due volte precedenti), tranne che per i controlli clinici e alcune rare sedute psicologiche di supporto (a volte anche per telefono). 

Durante queste ultime si cerca di lavorare sulla situazione mettendo bene a fuoco ciò che nel mondo interno della giovane donna differenzia questa nuova gravidanza dalle altre, su cui poter quindi contare dal punto di vista psicologico per cercare di evitare le condizioni che potrebbero facilitare un nuovo aborto. [12

Emerge in effetti un leggero spostamento nel mondo interno, legato in particolare al vissuto del tempo. 

Ecco le sue parole: 

«È vero che io desideravo moltissimo diventar mamma, ma questo da qualche parte dentro di me ha sempre significato anche invecchiare, e diventar vecchi vuol dire andare incontro alla morte. Allora era come se io volessi fermare il tempo, mi faceva paura andare incontro alla vecchiaia. Quello che è cambiato adesso è che gli anni passano lo stesso e che è inutile vivere in una cosa che è irreale. Purtroppo il tempo passa e allora tanto vale vivere i momenti come devono essere vissuti naturalmente. Quando dentro di me funziona questa parte è tutto più facile, ma quando entra in azione l’altra è una lotta all’ultimo sangue. È strano, ma è solo adesso che mi rendo conto che in tutto questo desiderio di maternità c’era una gran confusione, un gran conflitto. Adesso è come se mi dicessi: “Quello che è stato è stato. È inutile star lì a recriminare!”. È come se mi fossi rassegnata al fatto che la vita, che tu voglia o non voglia, ha il suo ciclo. C’è più accettazione della realtà. Io nella depressione non vivevo, mi lasciavo vivere». 

Pare quindi che ciò che comincia a differenziare questa gravidanza rispetto alle precedenti sia una maggiore integrazione tra mondo interno e realtà esterna, anche per quanto riguarda la maternità, a proposito della quale Donatella dice: 

«Nel mio desiderio di essere mamma c’era un po’ anche un gioco, come quando da bambina giocavo a farmi il pancione e a mettermi i vestiti larghi. Da una parte c’era dentro di me il desiderio di diventar mamma, e dall’altra la paura che il mio corpo si sfigurasse, che non fosse più in forma, la paura del parto, eccetera. Questa parte era quella che mi diceva: “No, no, queste cose tu non le puoi fare, le fanno le altre”. Perché per le altre era naturale, una cosa che accettavano naturalmente. A me sembrava che al mio corpo non potesse succedere una cosa del genere, mi sembrava una cosa più grande di me». 

Donatella resta così a riposo e in terapia con tocolitici come per le altre volte, con l’angoscia che anche questa gravidanza possa interrompersi, ma questa volta non è così. 

Le sedute d’appoggio sono diluite nel tempo, perché buona parte della gravidanza viene passata a letto, ma continuano per preparare la giovane donna al parto che avviene regolarmente a termine per via naturale. 

Donatella mette al mondo una bella bambina cui viene dato il nome di Cristina. 

Con il “post partum” inizia una fase depressiva in cui lei si sente vuota, inattiva, priva di energie, non presente nella realtà, però non più ai livelli della depressione precedente la gravidanza. 

Contemporaneamente, infatti, Donatella riesce a occuparsi con cura della bambina e ad allattarla al seno, cosa che la piccola fa spontaneamente fin dai primi tempi e con piacere. 

L’unico fatto che preoccupa la giovane madre è che lei non «si sazi mai abbastanza». 

Anche qui riesce però a mettere a fuoco del materiale del suo mondo interno: 

«È una paura che ho per lei, ma in realtà ce l’ho per me stessa. Ad esempio, se vado a fare la spesa, compro delle cose che magari ho già in casa, per la sola paura di restare senza. È come se avessi sempre la paura che mi mancasse qualcosa. Io le capisco queste cose, ma è come se non ci fosse rimedio». 

Da questo momento il lavoro d’appoggio con Donatella include anche la relazione madre-bambina, per evitare che quest’ultima diventi portatrice delle ansie materne attraverso una sintomatologia psicosomatica. 

La giovane donna prende anche parte a un gruppo di formazione per genitori e la bambina, seppur presentando saltuariamente dei momenti di crisi (disturbi del sonno, eccetera), complessivamente cresce bene. 

Donatella è ormai entrata nel suo nuovo ruolo di mamma e lo fa in modo affettuoso e attento, «sufficientemente buono» nonostante i suoi momenti difficili, che non sono spariti ma che lei riesce, sia pure con fatica, a tollerare un po’ meglio quando si presentano, mentre in precedenza se ne sentiva completamente travolta. 

A quattro anni di distanza, un giorno la bambina le corre incontro e le dice: «Mamma, la sai una cosa? Io volevo proprio nascere, perché volevo proprio una mamma come te!». 

«Anche la mamma, sai, ti ha aspettato tanto, Cristina!» è stata la risposta di Donatella con un moto di commozione. 

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Note 

1. La parte ginecologica di questo caso è stata curata dalla dottoressa Anna Bonvini. (torna al testo

2. Si tratta di uno dei test studiati e usati dalla dottoressa De Parronchi presso la Clinica della Sterilità dell’Università di Buenos Aires e da lei illustrati in un seminario sugli aspetti psicosomatici della sterilità tenutosi a Milano diversi anni fa. Vedi anche: “Il sogno in funzione di supporto diagnostico in un caso di sterilità” di Bonvini-Marcoli presentato al Dodicesimo Congresso della S.I.M.P. nel giugno 1989. (torna al testo)

3. S. Taccani-J. C. Racamier, “Il lavoro incerto”, Edizioni del Cerro, Milano-Trento 1988. (torna al testo)

4. R. Soifer, “Psicodinamica della gravidanza, parto e puerperio”, Borla, Roma 1985. (torna al testo)

5. F. Fornari, “La vita affettiva originaria del bambino”, Feltrinelli, Milano 1970. (torna al testo)

6. La consulenza ginecologica è stata curata dalla dottoressa Anna Bonvini. (torna al testo)

7. Indichiamo qui con infertilità non la difficoltà a restare gravida, quanto quella di proseguire una gravidanza già in atto (cioè un aborto spontaneo). (torna al testo)

8. B. Brazelton Cramer, “Il primo legame”, Frassinelli, Milano 1991. (torna al testo)

9. Aliprandi-Pelanda-Senise, “Psicoterapia breve di individuazione”, Feltrinelli 1990. (torna al testo)

10. L’intervento psicomotorio è stato curato dalla psicomotricista Maria Grazia Cornelli. (torna al testo)

11. È questo un punto che nella valutazione interdisciplinare del caso ci ha fatto sorgere degli interessanti interrogativi sulle possibili relazioni fra ipotesi psicologiche e ipotesi immunologiche sull’abortività. (torna al testo)

12. Questa possibilità è stata valutata intorno al 23% per le donne con un precedente anamnestico di due aborti spontanei (vedi Warburton-Fraser, “Genetic Aspects of Abortion, Clinical Obstetrics and Gynecology”, 2/1959). (torna al testo)

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