Il Bambino nascosto /3.2

Psicologia

Anche quando il passaggio è verso qualcosa che abbiamo scelto e che ci piace, ci sarà sempre una notevole parte della nostra energia che sarà assorbita dall’ansia del dover affrontare una situazione sconosciuta, abbandonandone una familiare e nota. 

Il Bambino nascosto /3.2

di Alba Marcoli

(continua) Capitolo terzo. Il linguaggio del sintomo

Sommario : 5. La perdita dell’equilibrio – Favola numero 5 – Le cadute – 6. L’importanza delle regole – Favola numero 6 – La mancanza di limiti – 7. La fatica del passaggio all’adolescenza – Favola numero 7 – L’abbandono dell’infanzia – 8. I legami del passato – Favola numero 8 – La nostalgia

7. La fatica del passaggio all’adolescenza 

Tutte le condizioni di passaggio da una situazione a un’altra comportano in genere una grossa fatica dal punto di vista mentale. 

Anche quando il passaggio è verso qualcosa che abbiamo scelto e che ci piace, ci sarà sempre una notevole parte della nostra energia che sarà assorbita dall’ansia del dover affrontare una situazione sconosciuta, abbandonandone una familiare e nota. 

Possiamo renderci conto di questa fatica se pensiamo al tempo di cui ognuno di noi ha avuto e ha bisogno per abituarsi a una nuova condizione di vita: dall’uscita dalla famiglia di origine, al primo lavoro, oppure al cambiamento di lavoro, al matrimonio, alla nascita del primo figlio, al crescere dei figli, alla morte dei propri genitori e così via. 

Ognuno di questi passaggi, da quelli piacevoli a quelli estremamente dolorosi, ci ha costretti a confrontarci con una situazione nuova da integrare nel nostro vecchio equilibrio mentale, che si è trovato così a dover essere modificato ogni volta. 

Per il bambino che cresce, cambiare ed evolvere verso maggiori capacità di affrontare le situazioni è un fatto abituale e costante. 

Tuttavia, anche nel suo caso, in certi momenti ci sono cambiamenti interni ed esterni a lui che richiedono una rimessa in gioco globale del suo equilibrio, comportandogli quindi una maggiore difficoltà. 

La favola che segue ora cerca di riprodurre la fatica che fa un preadolescente nell’abbandonare le sue vecchie sicurezze infantili per avviarsi verso l’adolescenza che lo condurrà a sua volta all’età adulta. 

Favola numero 7 

Il salmone con gli occhiali 

“Verso di te corre il mio fiume. 

O azzurro mare mi assorbirai? Una risposta chiede il mio fiume. 

Su via. benevolo sorridi o mare!” E. Dickinson, “Poesie”. 

Di tutti i pesci che abitavano nel Bosco delle Sette Querce, i salmoni erano certamente i più affascinanti e misteriosi perché con il fiume compivano il viaggio lungo e difficile di discesa verso il mare e di ritorno al bosco nuotando contro corrente. 

E così, ogni primavera, dal mare lontano, al nostro bosco arrivavano i salmoni che erano partiti in autunno e che dopo un viaggio faticosissimo ritornavano alle sorgenti dove erano nati per deporre le uova e fare sì che anche i loro figli nascessero nello stesso luogo dove erano nati loro. 

Fu pure così che all’arrivo di una primavera i primi salmoni tornati dal lungo viaggio verso il mare lontano, scavarono dei solchi nel letto delle sorgenti e vi depositarono le loro uova che erano tantissime e le fecondarono perché la vita continuasse. 

E dopo che furono passati altri giorni e altre notti, con l’aumentare del tepore dell’acqua ecco che dalle uova nacque un’infinità di piccoli salmoni che guizzavano nell’acqua, alla scoperta di tutti gli angoli della sorgente e di nuove avventure. 

Fra tutte le famiglie di salmoni che popolavano ogni insenatura, ce n’era una che viveva in un’ansa del fiume, proprio là dove scendevano le acque dei ghiacciai, in un punto protetto e riparato; i genitori l’avevano cercato con cura perché i loro piccoli potessero crescere indisturbati fino a diventare abbastanza grandi da poter partire da soli per il loro viaggio verso il mare lontano. 

E per prepararsi alla grande partenza i giovani salmoni andavano ogni sera ad ascoltare i racconti dei vecchi, perché l’impresa li affascinava terribilmente, ma allo stesso tempo li spaventava un po’. 

Ma, come in tutte le favole che si rispettino, quella stagione, in mezzo agli altri, c’era un piccolo un po’ strano, che si chiamava Giannino e che era sempre molto combattuto ogni volta che andava ad ascoltare i vecchi. 

«Ma nel mare chi è che custodisce le storie di tutti?» aveva chiesto un giorno incuriosito. 

«Sono il mare e il vento» gli aveva risposto un vecchio «il vento le racconta scrivendole sulle onde e le onde a loro volta le scrivono sulla sabbia del fondale. Non hai mai visto le righe che si rincorrono sulla superficie del mare e quelle che si disegnano sulla sabbia?» 

«No» rispose Giannino rammaricato. «Come posso averle viste se non sono mai stato al mare? E poi io non sapevo che su delle righe ci fossero scritte delle storie. Come si fa a capirlo?» 

«Eh già, è vero» rispose allora il vecchio «ma è semplice, si fa come sempre con tutte le cose. Bisogna imparare a leggerle.» 

«Ma io le saprei leggere in questo momento?» 

«No, nessun salmone che sia vissuto solo nelle sorgenti del bosco sa leggere le storie del mare. 

Bisogna andarci ad abitare per imparare a leggerle, pian piano, giorno dopo giorno.» 

«Come mi piacerebbe leggere le storie del mare!» aveva sospirato allora Giannino. 

Perché dovete sapere che mentre da una parte questa avventura lo affascinava proprio, dall’altra lo spaventava moltissimo come tutte le cose nuove che lui non conosceva. E quando questo spavento si impadroniva di lui, la sua parte avventurosa che voleva andare fino al mare era messa sempre a tacere. 

Anzi, c’era stata una volta, molto tempo prima, che la parte delle paure aveva preso il sopravvento sull’altra. 

E così Giannino, quando lui era piccolo e questa parte era molto grande, aveva deciso poco a poco nella sua testa che lui al mare non ci sarebbe mai andato. 

Finché furono la sua seconda primavera ed estate, la cosa non creò problemi, perché intanto i salmoni continuavano a crescere nelle loro sorgenti, ma appena il sole diminuì di calore e cominciò a calare sempre prima, quando anche il vento dolce e pieno di profumi si trasformò in una tramontana fredda che spazzava il bosco, ecco che i salmoni seppero che era arrivata l’ora della partenza per i piccoli cresciuti e cominciarono a fare i preparativi per andare verso il mare dove li aspettavano gli adulti. 

E così ogni giorno un gruppo di salmoni partiva, e poiché sapevano che per far continuare la loro vita dovevano tornare a deporre le uova alla stessa sorgente dove erano nati loro e i loro genitori, partivano tutti rivolti all’indietro e si lasciavano trascinare dall’acqua del fiume, per imprimersi bene nella mente la strada del ritorno. 

E ogni partenza era festeggiata da tutti nel bosco perché faceva parte dei suoi ritmi e dei suoi cicli ed era il segreto della sua vita, cosa che tutti sapevano e condividevano; tutti, tranne Giannino. 

Il salmoncino ribelle si nascondeva a ogni partenza e usciva subito dopo. 

Certo era più difficile vivere nella sorgente adesso che lui era diventato più grande. 

E soprattutto c’era una cosa che gli dava fastidio: per i suoi occhi c’era troppa luce nell’acqua, tanto che si era dovuto persino mettere due foglie bucherellate davanti come un piccolo schermo per ripararsi. 

E così Giannino, salmone con gli occhiali, si nascondeva accuratamente ogni volta che un gruppo partiva, finché arrivò la vigilia dell’ultima partenza e quella fu proprio una cosa drammatica. 

Giannino si sentiva lacerato come se in lui ci fossero due individui diversi: uno voleva partire con gli altri, come succedeva da sempre a tutti i salmoni, ma l’altro voleva restare a tutti i costi. 

«Parti, Giannino» diceva il primo «ormai sei troppo grande per restare nelle sorgenti e sei abbastanza forte e cresciuto per arrivare al mare!» 

«Non partire Giannino,» diceva l’altro «lo sai anche tu che hai sempre avuto paura del buio, perché ci possono essere mille pericoli che tu non puoi vedere se non c’è la luce.» 

«Ma se la troppa luce acceca i tuoi occhi tu non puoi vedere lo stesso» rispondeva l’altro «mentre al buio i tuoi occhi ormai grandi riprenderanno a funzionare e a distinguere le ombre pericolose. 

» «Non partire lo stesso» ribatteva l’altro «perché il mare non lo conosci, non ti è familiare come la sorgente del bosco, dove ogni pietra ti è nota. Il mare è nostro nemico come tutte le cose che noi non conosciamo. Resta qui con ciò che ti è familiare, che conosci già» ripeteva sempre più insistente. 

«Ma se tu resti qui non potrai conoscere il mare e sapere quali siano le tue forze se per paura non le hai messe alla prova.» 

«Eh, già,» ribatteva subito l’altro «e se poi non ce la fai e finisci in bocca a un pescecane? Pensa al tepore della tua tana, alla sicurezza, alla protezione che ti offre! Non troverai mai un rifugio che ti rassicuri così e ti protegga da chi è tanto più forte e grande di te.» 

E intanto che le due parti parlavano Giannino aveva iniziato a fare un gioco . 

Aveva preso tanti sassolini e ne aveva fatto due mucchietti, uno per la parte che voleva partire e uno per quella che voleva restare. 

Ma, ahimè, era difficile decidere perché i due mucchietti erano quasi uguali. 

Fu allora che gli venne in mente una domanda: «Ma i miei giochi? Dove restano?». 

«Qui nel fiume» rispose prontamente la parte che non voleva partire per convincerlo del tutto. 

«Non è affatto vero, anche i giochi partiranno per il mare,» ribatté l’altra convinta «saranno i tuoi amici che li porteranno via con loro per farli durante il viaggio e nelle nuove avventure del mare. Non ci saranno più giochi nelle sorgenti quando loro saranno partiti, per il semplice fatto che non ci saranno più piccoli!» 

In quel momento, prima che il salmoncino ribelle potesse rispondere dentro di sé, tutte le pietre caddero sul mucchietto del salmoncino che voleva partire e a Giannino caddero anche gli occhiali. 

E allora, nonostante lo sforzo che gli costava sopportare la luce del sole che filtrava attraverso l’acqua, egli vide improvvisamente una cosa che prima non aveva ancora visto . 

Si rese conto che la sua tana era proprio diventata piccola, troppo piccola per lui e forse un giorno lui non ci sarebbe più entrato, visto che il suo corpo continuava a crescere. 

E i suoi amici, anche quelli più cari, si stavano preparando tutti al grande viaggio, anche Guglielmo, il suo compagno del cuore, e anche Giorgetta, la sua compagna di giochi di quando era piccolo, e tutti lo chiamavano insistentemente con un vociare allegro che risuonava sulle sponde delle sorgenti del bosco. 

A questo punto l’alba era già spuntata. 

Giannino fece un rapidissimo calcolo nella sua mente, ma la voglia di conoscere il mare e il piacere di viaggiare insieme ai suoi amici diventavano sempre più forti dentro di lui. 

Gli altri erano molto eccitati e continuavano a chiamarlo insistentemente: «Vieni, Giannino, ti abbiamo lasciato il posto in mezzo a noi!». 

«Forza, sbrigati, guarda che il sole si sta già levando e si riflette sull’acqua!» 

«Chissà che cosa scopriremo oggi!» 

«Ma ci vuole tanto prima di vedere il mare?» domandavano i più impazienti. 

«Ci vogliono 1154 anse del fiume e un po’ di pazienza» rispondeva un vecchio sorridendo. 

«Ecco che partiamo! Vieni qui, Giannino! No, no, proprio qui, è questo il tuo posto!» 

Fu così che a quel punto la voce che dentro di lui voleva partire si alleò con quelle di fuori e divenne sempre più forte, aiutata com’era da tutto quel vociare allegro, finché sommerse l’altra voce, sempre più debole e sempre meno convinta, che poi finì per sparire del tutto. 

Il salmoncino diede un ultimo sguardo alla sua tana, ma ormai si era lasciato andare alla corrente ed era pronto a partire insieme agli altri, anche lui eccitato come loro. A quel punto la sorgente aumentò la forza della corrente e poco dopo anche Giannino si trovò in viaggio, assieme a tutti gli altri, con lo sguardo puntato verso la direzione della sua tana. 

E fu così che il vecchio fiume accompagnò ancora una volta attraverso le sue anse un altro gruppo di salmoncini, e poco a poco anche Giannino cominciò a darsi da fare, come tutti gli altri, per evitare i sassi troppo grossi e le cascate e gli ami dei pescatori e anche lui riuscì ben presto a destreggiarsi e a imparare tantissime cose, tutte nuove. 

Dopo un po’ di tempo si scoprì anche a pensare che era divertente scendere lungo il fiume, con tutti gli altri, vedere delle cose nuove e fare delle esperienze che lui non avrebbe neanche pensato che potessero esistere. 

Ogni tanto, però, gli veniva in mente la sua tana e allora provava un po’ di malinconia e doveva fare uno sforzo per trattenere le lacrime, al pensarla là vuota senza di lui. Ma subito dopo c’erano nuove cose che attiravano la sua attenzione e a ogni nuova prova Giannino scopriva con piacere di essere molto più forte di quanto lui non si fosse mai immaginato prima di partire. 

Giannino fece dunque per intero il suo viaggio verso il mare. 

E quando fu arrivato i suoi occhi stavano molto meglio nelle acque profonde di quanto non stessero nella sorgente e allora capì che quello era il posto giusto per i salmoni cresciuti . 

E ben presto imparò anche lui a distinguere le presenze amiche da quelle nemiche, a evitare i pesci pericolosi e le reti dell’uomo e a sapersela cavare sia quando il mare era ricco di cibo, sia quando era povero. 

E ogni sera, quando sulla terra tramontava il sole, il gruppo dei giovani salmoni usciva per andare alla Scuola del Mare. 

E lì, poco a poco, anche Giannino imparò a leggere le strane lettere con cui il vento e il mare scrivevano da sempre le loro storie sulle onde e sulla sabbia del fondale. 

E ogni giorno c’era una storia nuova, e ogni storia era fatta di cose simili e di cose diverse che facevano sì che ognuna di loro fosse unica fra le altre. 

E tutte le storie, uniche, facevano insieme la storia del mare, unica anch’essa perché si rinnovava a ogni brezza di vento e a ogni mareggiata, ed era infinita come loro. 

Passarono così due anni e ormai Giannino si era affezionato al mondo grande e misterioso del mare e si era quasi dimenticato della sua vecchia tana. 

Finché un giorno arrivò il capo salmone e avvertì il branco che sulla terra stavano arrivando l’autunno e fra poco l’inverno, ed era giunta l’ora di risalire alle sorgenti del bosco a deporre le uova e a fecondarle per far nascere i nuovi salmoncini. 

Così Giannino diede anche stavolta l’addio alla sua bella tana, così forte e sicura, e partì insieme agli altri per il suo lungo viaggio. 

Sulla terra era passato un intero autunno e scendeva già la neve dell’inverno mentre i salmoni continuavano il loro viaggio. 

E quando finalmente la neve smise di cadere e l’aria si fece un pochino più tiepida e l’acqua riprese a scorrere meglio, stanchi e stremati, i salmoni arrivarono alla foce del loro fiume e incominciarono a risalire verso le loro sorgenti. 

Non era certo un viaggio facile da farsi, tutto contro corrente, in mezzo ai sassi e ai gorghi che li spingevano in giù, ma anche Giannino si trovò a fare balzi in alto e in avanti come gli altri salmoni e a tornare dritto verso la sua sorgente. 

E quando finalmente, di balzo in balzo, Giannino si accorse che le sponde erano diventate gialle di primule, seppe che si stava avvicinando la fine del suo viaggio. 

Il bosco si preparava, come sempre, a festeggiare il loro ritorno e gli animali uscivano a salutare i salmoni che arrivavano puntuali insieme alla primavera. 

E alla fine Giannino sentì un tuffo al cuore: ecco lì la sua sorgente, quella dove era nato, che gli aveva fatto compagnia nel ricordo per tanto tempo. 

Ora era felicemente tornato a casa ed era pronto a fecondare le uova che la sua compagna di viaggio, Giorgetta, stava depositando nei solchi di sabbia. 

E così Giannino divenne il salmone padre di tanti piccoli salmoni e quando questi furono abbastanza cresciuti da poter provvedere da soli a se stessi, all’arrivo dell’inverno ripartì verso il mare insieme a Giorgetta e agli altri salmoni, riprendendo così la vita marina, fino al nuovo ritorno alle sorgenti della vita, come ogni anno, da sempre, a primavera. 

E quando fu vecchio entrò anche lui a far parte dei saggi della Scuola del Mare e insegnò ai salmoncini giovani a leggere le righe delle storie di sabbia che il mare racconta da millenni scrivendole sui suoi fondali insieme al vento, e che cambiano continuamente a ogni mareggiata, per ripetersi di nuovo, sempre uguali e allo stesso tempo sempre diverse, a ogni ciclo e a ogni stagione della vita. 

E se qualcuno volesse togliersi la curiosità di verificare la storia del salmoncino ribelle, può provare a camminare pazientemente lungo la riva del mare in una tranquilla mattinata di settembre, quando l’acqua è immobile e trasparente dopo una forte mareggiata, e fra le tante storie che il vento e la sabbia scrivono da sempre sul fondale, troverà anche quella di Giannino, salmoncino con gli occhiali. 

Qualche riflessione sulla favola: L’abbandono dell’infanzia 

“Sai, mamma, a me piacerebbe ritornare a essere nella tua pancia e ricominciare a crescere a poco a poco!” Marco, 6 anni, all’ingresso della scuola elementare. 

Questa favola tenta di riprodurre simbolicamente parte delle tempeste emotive che il ragazzo deve affrontare nel passaggio all’adolescenza, che è caratterizzato dal bisogno di staccarsi dal genitore trovando fuori altre sicurezze, rappresentate in genere dal gruppo dei coetanei. 

Il conflitto che si instaura è quello tra il bisogno di cambiamento, che è la tensione naturale della vita verso la crescita, e la sofferenza e la fatica che costa l’abbandonare le sicurezze precedenti, lasciandosi alle spalle ciò che si è quotidianamente costruito fino a quel momento. 

È la situazione classica della crisi che consiste nel dover rinunciare al vecchio equilibrio, perché non è più adatto a fronteggiare una nuova realtà, nel momento in cui però non ne abbiamo ancora costruito un altro con cui sostituirlo. 

In questa incertezza di terreno su cui camminare, il preadolescente attraversa un periodo di particolare vulnerabilità, caratterizzato da comportamenti difficili da capire e da accettare. 

Questi ultimi si manifestano in genere con l’opposizione agli adulti, ai genitori in particolare, nel tentativo di portare a termine il processo di individuazione e differenziazione di se stessi. 

Tuttavia quando il preadolescente o l’adolescente dicono di voler fare o fanno ciò che vogliono loro, in genere non sanno di fare ciò che loro “credono” di volere, che, guarda caso, è proprio spesso in contrapposizione alle richieste degli adulti, perciò tutt’altro che libero sul piano mentale. 

Questo spiega la mancanza di libertà psichica di questo periodo della vita, nonostante nel momento in cui l’attraversiamo noi tutti crediamo l’opposto; e giustamente, visto che questa opposizione ci serve per la conquista dell’autonomia. 

La controdipendenza che si instaura in questo modo rende molto faticoso il compito del genitore che accompagna il proprio figlio nella crescita perché paradossalmente il ragazzo può fare delle scelte non solo contrarie a ciò che il genitore vorrebbe (il che, tutto sommato, può essere accettabile), ma spesso anche contrarie a quelle che lui stesso farebbe se fosse veramente libero di scegliere e non preso dentro questo gioco oppositivo forzato. 

Credo che un comune esempio possa essere quello degli studi che vengono a volte abbandonati per opposizione ai genitori con scelte di cui ci si può pentire nel corso della vita, una volta diventati adulti. 

Tuttavia questo periodo della vita ha proprio bisogno di queste opposizioni, perché sono quelle che danno poi il coraggio di staccarsi dai genitori come uniche figure di sicurezza, cosa assolutamente necessaria se si vuole diventare esseri indipendenti che saranno poi in grado di condurre una vita autonoma e di formare, volendo, un nuovo nucleo familiare, cioè di andare, in ogni caso, per la propria strada. 

La fatica che il genitore deve allora affrontare è proprio quella di capire queste opposizioni, cercando di influenzarle il meno possibile, perché non si tramutino in un danno per il ragazzo, mantenendo contemporaneamente il proprio ruolo di adulto. 

Si tratta sicuramente di un compito gravoso e snervante che mette a dura prova in questi anni, per cui se da una parte questo è un periodo faticoso e difficile per i figli, si può certamente dire che lo stesso valga anche per i genitori. 

Oltretutto, è molto diverso per questi ultimi avere a che fare con dei bambini o con degli adolescenti. 

«Un bambino che cresce fa necessariamente crescere anche il genitore,» ha osservato una volta una mamma in un gruppo «perché una cosa è l’essere genitori di un bambino piccolo che sta in casa, e un’altra è avere un bambino o un ragazzo che escono di casa. Le situazioni sono molto diverse e anche i genitori si devono trovare altre risposte e adattare a ritmi di vita che cambiano continuamente.» 

Non è solo il ragazzo, infatti, che deve trovarsi un nuovo equilibrio nella vita, sono anche mamma e papà che si troveranno presi nell’incertezza di una situazione nuova che richiede altre risposte. 

Come rispondere alle richieste dei ragazzi, quando e come regolare le loro uscite (la regola è sempre importante), come affrontare l’incognita delle compagnie che frequenteranno o della gente che incontreranno, quali patti stipulare (a volte è una contrattazione snervante!), eccetera…: sono questi solo alcuni degli infiniti nuovi problemi che anche il genitore deve affrontare nel momento in cui il figlio diventa adolescente. 

E, proprio perché l’adolescenza è un’età di passioni e di tempeste emotive, il cui ricordo è in genere presente anche alla memoria dell’adulto, ecco che i genitori se ne sentono spesso toccati una seconda volta nell’assistere a quella del proprio figlio . 

Sorge allora un nuovo problema, quello di non proiettare su di lui la loro stessa esperienza, cioè la loro parte adolescente che vive nel tempo, almeno fino alla crisi che culmina verso i cinquant’anni. 

Quest’ultima, paradossalmente, rappresenta in genere per l’adulto la separazione dalla propria adolescenza, l’età delle grandi tempeste, ma anche dei «domani» estesi all’infinito, di pagine bianche ancora tutte da riempire sul libro della vita, di possibilità aperte a tutte le conquiste, situazione che è certamente molto diversa tra i venti e i cinquant’anni, quando parte delle scelte fondamentali (per lo meno nell’ambito professionale e familiare) sono state in genere già fatte, anche se altri aspetti vitali dell’adolescenza continuano giustamente a esistere anche in altre età. 

Ecco quindi che potremmo sicuramente dedicare una favola analoga a quella del salmoncino anche ai suoi genitori, perché la fatica è anche la loro, non solo quella del figlio, nella quotidiana conquista del vivere. 

Poche altre età fanno infatti vivere così intensamente la difficoltà della perdita di un qualcosa che il ricordo ammanta spesso di una luce un po’ magica. 

8. I legami del passato 

Una delle parole che si possono usare per indicare i legami che ci tengono ancorati al passato è la nostalgia. 

Si tratta di un termine coniato nel Seicento da un medico alsaziano, Johannes Hofer, per descrivere nella sua tesi di laurea la malattia che coglieva sovente gli svizzeri durante il servizio militare in eserciti stranieri (vedi Cortellazzo-Zolli, “Dizionario etimologico della lingua italiana”, Zanichelli 1983). 

La nostalgia sembra essere, come spesso succede, una medaglia a due facce. 

Da una parte è la consapevolezza che il tempo, i luoghi e le persone per cui la proviamo non ci sono più nel nostro mondo attuale, per cui è la consapevolezza di una separazione . 

Dall’altra, però, sancisce che questa separazione ci costa molto, per cui parte della nostra energia mentale è ancora rivolta verso il passato per poterne permettere l’interiorizzazione, lasciandocene quindi una quantità ridotta per il presente. 

Anche un bambino può provare nostalgia del suo passato, soprattutto nei momenti di crisi evolutiva (la nascita di un fratellino ne è un esempio classico) e può regredire comportandosi come se fosse più piccolo della sua età. 

È però importante per lui che questa regressione sia temporanea e gli possa poi permettere di evolvere e non di restare fissato al passato, come se l’evoluzione gli fosse inaccettabile. 

La favola che segue ora affronta perciò il tema di una nostalgia con uno sbocco evolutivo. 

Favola numero 8 

Il fenicottero malato di nostalgia 

“Quando ogni luce è spenta 

E non vedo che i miei pensieri, 

Un’Eva mi mette sugli occhi 

La tela dei paradisi perduti.” G. Ungaretti, “Canto”. 

Un giorno nel cielo sopra al Bosco accadde una cosa insolita. 

Si vide una nuvola rosa che girava, saliva verso l’alto e puntava poi veloce verso il basso, cambiando continuamente forma e volteggiando per l’aria. 

Finché, a un tratto, dalla nuvola si staccò un puntino bianco e rosa che cominciò a scendere, sempre più velocemente, e quando fu sul punto di atterrare ecco che tutti si accorsero che era un animale come loro, anche se straniero. 

Corsero veloci verso il luogo dove era caduto e videro un bellissimo uccello con delle lunghe zampe che reclinava la testa verso un’ala da cui usciva un fiotto di sangue. 

Il vecchio Sapiens gli si avvicinò, lo aiutò a tamponarsi la ferita con delle erbe che strappò da un cespuglio lì vicino, scegliendole con cura e poi gli chiese: «Chi sei tu che noi non abbiamo mai visto nel nostro bosco?». 

L’animale diede un ultimo sguardo alla nuvola che sorvolava ancora il bosco prima di sparire all’orizzonte, poi emise un gran sospiro e disse piano piano: «Sono un fenicottero». 

«E che cosa ti è successo all’ala?» chiesero i cuccioli sorpresi e stupiti, perché loro non conoscevano le armi dei cacciatori. 

«Ero in volo con i miei compagni verso il paese degli asfodeli quando un cacciatore mi ha colpito.» 

«Ma allora è per questo che non riesci più a volare e che ti sei staccato dai tuoi compagni?» 

«Sì, perché loro devono raggiungere il Sud prima che arrivi il freddo dell’inverno e non potevo far aspettare tutto lo stormo; io avrò bisogno di molto tempo prima di guarire, se riuscirò a farlo.» 

«Perché non dovresti guarire?» chiesero ancora i cuccioli. 

«Perché io non sono abituato a vivere in un bosco» rispose il fenicottero «e non so neanche come si faccia a sopravvivere qui. Io so come si vive vicino al mare, negli stagni spaziosi dove l’inverno piove, ma l’aria è tiepida, mentre in un bosco c’è molto più freddo.» 

«Ma noi ce la facciamo tutti» rispose un altro. «Se tu vuoi, possiamo aiutarti perché noi siamo nati e vissuti qui e conosciamo bene il nostro mondo.» 

E fu così che il fenicottero ferito fu adottato seduta stante dagli abitanti del Bosco. 

Il primo punto da risolvere fu quello di trovargli un luogo nel quale vivere, che non fosse troppo diverso dal suo luogo naturale . 

Sulle rive di un laghetto fu costruito un capanno di frasche che proteggesse il fenicottero dalla rigida tramontana dell’inverno e dalla caduta della neve e che permettesse all’acqua di non gelare durante il grande freddo. 

Il fenicottero fu trasportato sotto il capanno e gli fu preparato un giaciglio di paglia soffice e calda su cui sdraiarsi quando la ferita gli faceva troppo male. 

Giorno dopo giorno i cuccioli presero l’abitudine di arrivare da lui un po’ prima che iniziasse la Scuola dello Spiazzo, per fargli compagnia e farsi raccontare le storie dei paesi lontani da cui proveniva. 

«Raccontaci com’è il mare» gli chiesero un giorno i cuccioli, che su questo punto erano sempre molto curiosi. 

«La prima volta che ho visto il mare» rispose il fenicottero «è stato quando ho imparato a volare e i miei genitori mi hanno fatto fare un giro sopra lo stagno. Io sono rimasto così affascinato che mi si è mozzato il fiato in gola e sono rimasto senza respiro.» 

«Ma perché fai fatica qualche volta a respirare?» chiese incuriosito un piccolo. 

«Perché mi fa male la ferita all’ala» rispose tristemente il fenicottero. «Per me volare vuol dire vivere e l’ala ferita mi impedisce di farlo. Allora la mia immaginazione torna sempre al paese degli asfodeli, che è il luogo dove sono volato tutti gli inverni della mia vita. Ma lo starne così lontano mi fa proprio male.» 

«Ma allora è come se tu avessi due ferite, una dentro e una fuori» notò stupito il cucciolo. 

«Eh, sì» ribatté il fenicottero, triste per la constatazione, ma sollevato nel sentire che qualcuno capiva ciò che gli succedeva. « È proprio come se avessi due ferite: una dentro e una fuori». 

«Ma le ferite devono essere curate» disse un altro piccolo che ascoltava attentamente. 

«I vecchi ti stanno curando la ferita all’ala, ma chi ti cura la ferita dentro?» 

«Quella è difficile da curare» rispose il fenicottero con una voce così bassa che fecero tutti molta fatica a capire. « È per questo che fa ancora male.» 

«Ma allora bisogna trovare il modo di curare anche quella» ribatterono fermamente i cuccioli. 

E da quel momento decisero di cercare di curargli quell’altra ferita dentro, che non si vedeva, ma che faceva male. Però si resero ben presto conto che non era facile curare una ferita dentro che era invisibile e non si sapeva neanche dove fosse, anche se si sapeva che faceva male. 

«Quand’è che la tua ferita dentro fa meno male?» chiesero un giorno al fenicottero. 

« È quando voi mi chiedete di parlare del mare e degli stagni da cui provengo, perché allora il parlarne è come se creasse in aria un grande ponte sospeso che mi fa arrivare là e non mi fa sentire lontano, così soffro meno di nostalgia.» 

«Allora il parlarne serve a vincere la distanza fra te e loro!» osservò un piccolo. 

«Credo di sì, perché in quel momento la mia ferita dentro fa meno male, e io mi sento meglio, quasi come se fossi là» rispose il fenicottero. 

I cuccioli decisero dunque che per curargli la ferita dentro bisognava cominciare a far parlare il fenicottero del paese degli asfodeli, e questo li rese molto contenti perché imparare delle cose nuove era proprio ciò che loro desideravano di più, visto che tutti i piccoli sono curiosi e amano molto la parola «perché». 

«Ma che cos’è esattamente un asfodelo?» gli chiese un giorno uno che fino a quel momento non aveva osato chiederglielo perché il fenicottero ne parlava sempre come se fosse una cosa che tutti dovessero conoscere. 

«Oh, è un fiore bellissimo, è quello preferito da noi fenicotteri perché ci assomiglia: ha il gambo lungo come le nostre zampe e ha il nostro stesso colore, che è quello delle dita dell’aurora» rispose il fenicottero con un sospiro. «L’asfodelo segna il periodo in cui noi fenicotteri stiamo là, ed è per questo che per noi quella è la terra degli asfodeli. E poi è un fiore molto generoso, che cresce dappertutto chiedendo molto poco in cambio: riesce persino a far fiorire le rocce con pochissima terra portata dal vento.» 

E man mano che il fenicottero parlava, i cuccioli del Bosco venivano trasportati dalle sue parole al paese degli asfodeli, attraverso il ponte che le parole dell’animale ferito costruivano nel cielo. 

Ma ogni volta si verificava sempre la stessa storia: alla fine del racconto era come se i cuccioli tornassero tutti al loro bosco attraverso il ponte, ma il fenicottero non li accompagnasse più e rimanesse la, da qualche parte, immerso nella nostalgia di quei posti. 

Passò così un po’ di tempo, ma le ferite del fenicottero non accennavano a guarire. 

Erano sì migliorate un poco, soprattutto quella all’ala, ma anche quest’ultima faceva molta fatica a rimarginare. 

« È un po’ strano,» disse un giorno il vecchio Sapiens «perché queste erbe sono molto potenti e di solito fanno guarire le ferite in pochissimo tempo, mentre la tua sembra molto più lenta, come se non riuscisse a guarire del tutto.» 

«Ma forse la ferita all’ala non può rimarginare bene finché c’è ancora la ferita dentro che fa male» osservò uno dei cuccioli. 

« È vero;» rispose il fenicottero «è come se qualcosa di me fosse da un’altra parte e allora mi sento un po’ strano e diviso in due.» 

«Ma non si deve essere contenti quando si sta così» osservò un cucciolo «perché uno non sa mai dov’è esattamente.» 

L’ultima cosa che restava da fare era dunque quella di portare il fenicottero alla Scuola dello Spiazzo, dove si imparava a mettere insieme tutte le parti, come era sempre stato fatto nella storia del bosco, dall’inizio di tutti i cicli. 

Sera dopo sera, i cuccioli aiutarono il fenicottero ferito ad arrivare allo Spiazzo, e anche lui poté cominciare ad ascoltare le storie del bosco e a scoprire che esistevano anche lì delle cose molto belle che non conosceva. 

E quando cadde la neve, che non aveva mai visto, al fenicottero si fermò il respiro in gola per la meraviglia, proprio come gli era successo la prima volta che aveva visto il mare. 

E anche lui imparò a conoscere e ad amare il silenzio del bosco sotto tutto quel manto bianco. 

E quando il sole si fece un po’ più tiepido e la neve si sciolse, si accorse che la terra si stava preparando un vestito nuovo, fatto di fiori diversi dai suoi asfodeli, ma altrettanto belli, perché invece di avere il colore dell’aurora avevano catturato quello giallo oro del sole del pomeriggio. 

Finché un giorno, alla fine di un racconto sul Paese degli Stagni, nel momento esatto in cui di solito il fenicottero restava silenzioso perché una sua parte era rimasta altrove, ecco che i cuccioli sentirono la sua voce allegra che diceva sorpresa: «Guardate, è nato un nuovo fiore!». 

Si voltarono verso la direzione in cui guardava il fenicottero e videro uno splendido cespuglio di primule gialle. I cuccioli restarono un po’ incerti. Guardavano un po’ il cespuglio e un po’ il fenicottero che lo fissava ammirato. Poi alla fine si sentì un gran chiasso: «Evviva, evviva, ce l’abbiamo fatta!» gridarono facendo un girotondo per lo spiazzo. 

«Fatta a fare che cosa?» chiese il fenicottero stupito perché non capiva proprio. 

«A farti tornare tutto intero nel bosco insieme a noi» risposero divertiti i cuccioli. «Guarda la tua ferita all’ala: è guarita. Si vede che anche quella dentro non fa più male. Andiamo a chiamare gli anziani per fargliela vedere.» Il fenicottero si guardò stupito: era proprio vero, la sua ferita all’ala era completamente guarita. Provò a chiudere gli occhi per concentrarsi e sentire se la ferita dentro faceva ancora male, ma questa volta gli sembrò di stare molto meglio . 

Fu allora che capì. 

Quando finalmente Sapiens arrivò col corteo dei cuccioli, controllò anche lui e si rese conto che avevano proprio ragione loro. 

«Io credo che al prossimo passaggio dei tuoi compagni tu sarai pronto a partire con loro» disse commosso il vecchio. «La tua ala ormai è guarita e la ferita dentro non fa più male. 

È stato quando ti sei potuto separare dalla malinconia che ti faceva tornare sempre al paese degli asfodeli che hai potuto scoprire e amare il bosco che ti ha accolto e curato . 

Anche quando passeranno i tuoi compagni fenicotteri dovrai di nuovo separarti e questa volta da noi. 

Avrai un po’ di malinconia a farlo, ma in compenso potrai volare con loro verso il mare e gli stagni orlati di asfodeli.» 

Passò anche l’estate del bosco e all’arrivo dell’autunno, un giorno in cui l’aria era particolarmente frizzante e limpida, si vide una nuvola rosa che sorvolava l’orizzonte lontano e poi poco a poco tutto il cielo dello Spiazzo. 

Erano i compagni del fenicottero che erano tornati al Nord a primavera e che ora venivano a riprenderselo per partire con lui. 

Il fenicottero salutò tutti i suoi amici del bosco, poi, piano piano cominciò a volare fino a diventare un puntino nel cielo e infine sparì in mezzo alla nuvola rosa che fece un altro giro e si allontanò verso l’orizzonte in direzione del Sud. 

Gli animali del bosco all’inizio si guardarono con un po’ di malinconia, poi tornarono alle loro occupazioni perché l’inverno si avvicinava e c’erano tante cose da preparare. 

Quella sera la lezione della Scuola dello Spiazzo fu dedicata agli abiti della terra in primavera: quello di asfodeli e quello di primule erano semplicemente abiti diversi, ma chi se ne adornava era la terra, sempre la stessa, da sempre, ogni anno a primavera. 

E da allora, ogni autunno, quando le giornate sono particolarmente limpide e frizzanti, gli abitanti del bosco scrutano l’orizzonte in attesa di una nuvola rosa, che puntualmente arriva, si abbassa in volo a salutare la Scuola della Spiazzo, per riprendere poi il suo viaggio, verso il Sud, alla ricerca del sole. 

Qualche riflessione sulla favola: La nostalgia 

“Papà, ma almeno TU, sei rimasto mio?” Umberto, 4 anni, in lacrime alla nascita di Maria. 

È questa una delle manifestazioni più comuni della nostra vita quotidiana; possiamo provare nostalgia di tutto, luoghi, persone, età della vita, emozioni e sensazioni provate dentro di noi, eccetera. 

Possiamo persino provare nostalgia della nostalgia, quella dei ricordi di qualcuno di cui abbiamo nostalgia noi stessi. . 

Forse si tratta del tema più palesemente legato al distacco e alle sue difficoltà. 

C’è spesso nel bambino, o anche in noi adulti, il ricordo, o a volte il mito di un’«età dell’oro» che appartiene al passato e che abbiamo perso per sempre, ma che è estremamente importante perché ha un valore di testimonianza della nostra stessa storia. 

Ciò che la circonda è un insieme di emozioni e sensazioni legate a ciò che è stato, ma spesso anche a ciò che non è stato, al come sarebbe potuto essere, cioè all’apertura a tutte le possibilità. 

Questi luoghi, persone, età della vita, ecc. possono così assumere dentro di noi una specie di luce dorata che fa brillare anche ciò che può non essere stato molto luminoso. 

È anzi frequente che certe nostalgie che ci possiamo portar dentro dell’infanzia come di una mitica terra dell’oro, riguardino un periodo della vita che per altri versi può invece essere stato difficile e duro. 

È come se noi adulti davanti alle difficoltà del quotidiano dovessimo avere 1a certezza che c’è stato almeno un periodo magico nella nostra vita, quando eravamo bambini. 

Questo a volte ci porta a non capire o a sottovalutare invece le reali difficoltà di un bambino perché possiamo facilmente proiettare su di lui la magia che noi stessi attribuiamo a quest’epoca della vita, considerata spesso il regno della felicità perpetua e della mancanza di difficoltà. 

L’idea di renderci conto che un bambino può soffrire ci è spesso difficile da accettare, come se fosse una minaccia che potrebbe far crollare il castello di una nostra sicurezza. 

Come per l’adulto, anche per un bambino che cresce ci può essere un’età dell’oro ancorata nel suo passato. 

Il problema in genere è quello di capire se il bambino è abbarbicato per qualche motivo a quest’età e non se ne vuole separare, oppure se ci ritorna periodicamente, come a prendere una boccata d’ossigeno nei momenti di difficoltà, per ritrovare la sicurezza che gli è necessaria per un ulteriore passo in avanti (secondo il concetto di «base sicura» di Bowlby). 

«Io ho notato» ha detto una volta una maestra di scuola materna in un gruppo «che i bambini hanno spesso dei momenti in cui apparentemente tornano a comportamenti precedenti, ma che dopo questi momenti c’è sempre un qualcosa in più che sanno fare, da tutti i punti di vista, o verbale, o psicomotorio, o sul piano dell’autonomia.   È come se fosse un passo necessario per poter imparare.» 

D’altra parte già Dostoevskij diceva che un individuo deve avere almeno un buon ricordo infantile che l’accompagni per la vita, come se fosse questo il serbatoio a cui attingere la carica di energia necessaria. 

Ciò che infatti si può facilmente osservare nei bambini è la grande energia vitale che li attraversa, come se la vita stessa si manifestasse in loro; basti pensare ai cortili delle scuole, ai giardini pubblici, a tutti i luoghi dove si possono incontrare gruppi di bimbi e all’esplosione di vitalità che li circonda se sono liberi di agire e non impediti dagli adulti. 

È proprio la forza della vita quella che si manifesta in loro, anche nei casi di difficoltà. 

L’aiuto che noi possiamo dare a un piccolo che invece fa fatica a crescere, può forse essere quindi il tentativo di far sì che questa eventuale «età dell’oro» sia un terreno di evoluzione da cui ripartire piuttosto che uno a cui restare fissato. 

I giochi che Donata faceva erano belli e divertenti da vedere, ma non avevano alcun significato per la mamma, che pure vi partecipava volentieri. 

È stato lo scoprire che questi giochi mimavano costantemente delle scene fetali che ha fatto sì che la mamma si chiedesse perché la sua bambina volesse sempre tornare nella sua pancia. 

Si sta bene nella pancia della mamma, si è protetti e accuditi soddisfatti in tutti i bisogni, ma ci si sta bene naturalmente nei nove mesi che precedono la nascita, non dopo quando si ha bisogno di respirare, altrimenti manca l’aria. 

Guarda caso, Donata soffriva di crisi d’asma molto forti che spaventavano moltissimo i suoi genitori. 

« È come se io stessa facessi una gran fatica a trovare i miei confini,» ha osservato in seguito la mamma «certe volte non so dove finisco io e dove inizia lei, la mia bambina. Mi dà molta ansia questa sensazione, è una confusione che mi fa proprio star molto male. Nei momenti in cui invece riesco a sentire i miei confini e mi rendo conto che io e lei siamo due persone separate sto proprio meglio e vedo che anche a lei fa bene.» 

L’aiuto che la mamma di Donata le ha dato è stato quello di cercare lei stessa i suoi confini, cioè di non accettare il desiderio della bambina di voler tornare dentro di lei (che era l’altra faccia della stessa medaglia, cioè del suo stesso desiderio inconsapevole di riprovare l’emozione di avere la piccola nella sua pancia come compagnia costante), e questo ha migliorato la qualità della loro relazione. 

Donata soffre ancora di qualche rara crisi d’asma, ma ormai le succede solo nei momenti di grande difficoltà in cui potrebbe aver bisogno di rivivere una sicurezza antica che l’accompagni (come per la nascita della sorellina e l’andare alla scuola elementare nello stesso periodo), ma non come abitudine costante di vita. 

Il tema della nostalgia è inoltre spesso presente nei bambini anche nel momento in cui si confrontano con la gelosia per la nascita di un nuovo fratello. 

Giorgio, di cinque anni, aveva difficoltà di linguaggio, faceva fatica a parlare e giocava sempre con i bambini più piccoli di lui, comportandosi come loro. È stato un gattino di peluche quello che ha permesso alla mamma di capire che cosa succedeva nel suo mondo interno. 

«Quello che piace molto ai miei figli» ha raccontato «è quando io parlo del periodo in cui anche loro erano nella mia pancia» (la mamma aspettava il terzo figlio) «e compravo loro i giochi già prima che nascessero. 

Adesso Giorgio circola sempre con un gattino di peluche che prima per lui non significava niente, ma da quando gli ho detto che è uno dei giocattoli che gli avevo preso quando era nella mia pancia non lo abbandona più, se lo porta persino alla scuola materna. 

Adesso ha proprio un significato diverso per lui.» Giacomo, nove anni, quando metteva i guardiani ai suoi disegni, lo faceva per la paura che “non” capitasse qualcosa di brutto. 

«È per la paura di “non fare” dei brutti sogni», diceva. 

Dopo la nascita del suo terzo fratello, Giacomo, che aveva manifestato tutta la sua gelosia per la nuova gravidanza della madre (aveva rincorso il papà piangendo e chiedendogli «Papà, dimmi che non è vero!»), è diventato più alto, più sicuro e quando mette i guardiani ai suoi disegni questa volta lo fa «per la paura “di fare” dei brutti sogni». 

Come dice la Dolto, la gelosia per la nascita del fratellino gli ha permesso di fare delle grosse conquiste sul piano evolutivo: 

“Questa tappa strutturante, chiamata della gelosia, è inevitabile, è segno dell’intelligenza del bambino di fronte a un’esperienza nuova. 

Secondo i bambini essa è più o meno spettacolare. 

Si può affermare che più viene vissuta con intensità, più successivamente si assiste allo sbocciare di una personalità potente e capace di adattabilità.[…] 

Questa prova è necessaria ai fine dell’assunzione del concetto di «altro» e ciascun essere umano presto o tardi l’incontra sulla propria strada. 

L’arrivo di un fratellino permette di viverla presto, e di uscirne liberato dal bisogno di assoluto nei rapporti sociali.” [5

“Reculer pour mieux sauter”, dicono i francesi: tornando indietro si può fare un salto più lungo

Aiutiamo i bambini a fare un passo indietro: per saltare, però, non per restare imprigionati nell’immobilità. 

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Note 

5. F. Dolto, “Il gioco del desiderio”, SEI, Torino 1987. (torna al testo)

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