L’Appeso – XII Lama

L'Opera al RossoForse fu il notturno canto della civetta che mi risvegliò o il sibilare gelido del serpente, nell’erba appena acquattata dal suo viscido peso. Nell’attimo stesso che un’attutita coscienza di me sgorgò da un punto indefinibile dell’essere, il mio centro disperso e ritrovato esplose nel dolore.
Tutto ciò che ancora non potevo chiamare Io era concentrato in una caviglia stretta da un laccio inestricabile. Lentamente, come guardando da una distanza incommensurabile, la mente ritrovò i contorni del suo corpo, ormai insensibile come una pietra atrocemente appesa al suo arto, vivo e lancinante.

L’Impiccato – XII Lama

di Vittorio Vanni

Forse fu il notturno canto della civetta che mi risvegliò o il sibilare gelido del serpente, nell’erba appena acquattata dal suo viscido peso. Nell’attimo stesso che un’attutita coscienza di me sgorgò da un punto indefinibile dell’essere, il mio centro disperso e ritrovato esplose nel dolore.

Tutto ciò che ancora non potevo chiamare Io era concentrato in una caviglia stretta da un laccio inestricabile. Lentamente, come guardando da una distanza incommensurabile, la mente ritrovò i contorni del suo corpo, ormai insensibile come una pietra atrocemente appesa al suo arto, vivo e lancinante.

Intorno a me gelo e stelle, frassini ed ontani, ed un immenso silenzio, risonante del ritmo sonoro del sangue pulsante che opprimeva le mie orbite, come se il cuore stesso si fosse fatto un nido atroce all’interno del cranio.

Vedevo come un nuovo nato vede per la prima volta, intensamente, senza emozioni, senza ricordi, senza profondità. La coscienza di me già scavava nelle caverne oscure del ricordo, e il pensiero del pensiero giunse alfine alla porta delle sensazioni; e mi vidi vedermi, impiccato per un piede ad un’asta posata sull’incrocio di due grandi alberi, le mani legate dietro la schiena. Ma il ricordo del tempo passato e di quello futuro era ancora prigioniero nella sua prigione d’ossa e di carne.

Più forte d’ogni dolore il presentimento di un me sconosciuto subitamente urlò la sua angoscia. “Io, chi sono io?” Poi fu solo il frusciare gelido della notte, più oscura d’ogni oscurità. Quando mi risvegliai il sole era già alto e la sua gloria filtrava fra le foglie, appena mosse dalla brezza pungente.

Il dolore si era assopito ed il mio piede era come un insensibile ciocco di vecchio legno. Il ricordo si avvicinava repentino e guardingo e io nominavo le cose intorno a me come se nominando ricreassi ordine e centro nel caos: cielo-frassino-piede-corpo-erba-terra.

Gli immensi abeti erano come celesti colonne a sostenere la terra, odorosa di fragranze sottili e fresche, lieve al passo degli uomini, madre d’olmi argentati ed ontani dalla rossa chioma, delle brune querce e dei frassini dritti.

Le fronde frementi, sospiro del bosco, sussurravano saghe dimenticate di gloria ed ombra, sapienza e male ed io, l’Appeso, vivevo di quella vita vegetale come un frutto maturo, gonfio del suo stesso sangue, turgido della sua stessa linfa.

Ogni seme, polpa, scorza, foglia, mi rivelava il suo occulto potere e il suo influsso sottile, medicando le mie membra contratte ed aggrinzite. I sensi acuiti mi avvolgevano in una nascente ed avvolgente gioia; ma ancora non sapevo di me ed il mio nome era ancora avvolto nell’umido mantello della notte.

Otto volte vidi nascere e morire il sole e, al cadere della nona oscurità, dai gusci vuoti d’antiche lumache presero forma nuova e materia effimera, come non-esistenze bavose e sogghignanti, che alzarono per me la pietra nera della conoscenza oscura, con sarcastici ed insinuanti sibili di crotali, scoprendo legioni di laide larve e l’immondo brulicare della vita nascosta alla luce.

La voce allora risalì in me, ma prima ancora del suono esplose un’onda voluttuosa d’intensità terribile, che mi liquefaceva il midollo spinale, come un torrente di gelido fuoco inestinguibile, lungo tutta la spina dorsale, dal coccige all’ipotalamo.

Gli occhi mi si storcevano in una sarabanda selvaggia. In ogni direzione, come se volessero violentemente rivolgersi verso l’interno del cranio, mentre un fiato putrido, torrido e secco mi respirava, riempiendo e svuotando i miei polmoni inerti come se fossero dei mantici impazziti.

Una forza ignota, che era fuori di me, era in me e che era me, mi faceva ruotare la testa vorticosamente e tutto il mio essere era come una folle marionetta che l’orgasmo squassava come un ciclone. La voce allora vibrò, sorda, senza suono né eco:

“Simile alla gioia è il dolore, bellezza ed orrore sono lo stesso ambiguo volto. Il viscido verme feconda la terra brillante e ben nutre l’uccello, beato della sua repellente pinguità. L’albero, dai rami immensi e dalle foglie ballerine, al suono del vento succhia dalle radici artigliate e nascoste la sotterranea putredine che lo fa splendido. La luce nasce dall’ombra e ne è il suo riflesso illusorio. Renditi simile a Dio! In te stesso esalterai l’interno amplesso, imitando la linfa che sale dalla terra all’ultima foglia. Ancora imiterai, fra gli animali dal ghigno d’uomo, la donnola veloce che aggrinfia la preda e ne trae il succo vitale color del rubino. Tua sarà la potenza dell’anima della terra, del dio oscuro cui stelle e pianeti porgono eterno omaggio e ricevono eterna legge, mentre gli animali umani cercheranno ancora la visione dei cieli, nell’ingannevole ansia di scorgere le maschere dei celesti attori. Giunta è l’ora che l’Appeso calpesti con il piede ancor ristretto i cieli vuoti e soltanto nella terra contempli l’origine tenebrosa della creazione. Tendi ora i tuoi capelli, come raggi del rovente sole della tua mente, nella terra grassa e feconda, e fa che diventino radici a carpirne il sotterraneo vigore. Allora sarai come Dio!”

Così a me parlava la tenebra ed il morso selvaggio del laccio ricominciò a straziarmi. Desiderai sfuggire al dolore e cedere all’invito insinuante, mentre il mio corpo era ormai livido e pesante come piombo e veleni oscuri già corrodevano i forti cancelli dell’anima.

Ma all’orizzonte lontano, un chiarore improvviso definì infine il profilo delle cime dei monti, sfumando il perlaceo volto dell’alba di rosa e d’oro, di tenue viola e d’azzurro tenero e brillante.

Un raggio del primo sole, rapido come il fulmine, ferreo ed acuto come una freccia, trafisse il mio cuore straziato dal veleno, sì che l’amaro succo si tramutò in ambrosia ardente e soave, appena versata dalla coppa del dio sorridente.

Le mie vene rinvigorite e radianti davano al mio corpo dei riflessi di terso cristallo, d’adamantina luce. La gioia serena, la sapienza sottile scioglievano ogni legame a forgiare, nella fucina dell’anima, la spada lucente del riso, la lancia forbita del canto.

Così cantavo all’alba dal terso viso:

“Diffida, alba del giorno, dalle verità mediocri! Il sole levante dissolve le notturne brame ed i sussurri atri dell’ombra. L’inganno disperante del non-essere è l’assurdo limite che l’Io pone a se stesso: notte e giorno sono la stessa suprema realtà di luce. La linfa reca la forza della terra che dal cielo è tratta, la donnola svelta abbranca la preda per necessità e legge di vita, e non esulta in se stessa del sangue versato. Io, l’Appeso, non sono tale per foia di dolore e rovesciamento, ma perché la mia fronte umana risalga ogni cerchio di cieli, fino alla conoscenza universa. Ma perché così avvenga, io ancora non so. E io, chi sono io?”

Allora un corvo reale, grande come un aquila indomita, nero come il tizzone di un fuoco spento da secoli, si posò su di me e nel suo gracchiare trovai parole umane.

“Invano domanderai il tuo nome all’alba, pallido verme umano. Nessuno risponderà, se non la luce sola, la cui ombra è il tuo Io. Credi, infine, di avere un nome umano? In verità, se tu non fossi divino, non saresti umano. Colui che è stato appeso all’albero della vita è trascorso dalla forma all’essenza. Chi eri è ormai un estraneo cadavere a te stesso, perché chi muore al nome dell’Io, rinasce alla vita del Sé.

Il tuo succo vitale, che scendeva torbido al suolo, risale il canale segreto, irrompe nelle sue sette cateratte, feconda la tua matrice incontaminata si che nasca balzante ed armato il tuo dio interiore. L’universale legge disse al primo attore: non vivrai senza fatica, angoscia e tormento. Non senza dolore tornerai alla prima vita. Per questo il nodo bruciante ti strinse. Per questo alla dura terra fosti innalzato.”

Così disse il corvo ed il suo becco aguzzo scavò la mia orbita senza strazio, affinché la vista, educata agli opposti, si aprisse alla visione una.

Facile fu allora, alla mia voce rinata e sicura, chiamare a se le rune possenti. Fra loro, scelsi l’ascia a disciogliere il mio corpo ancora legato ed appeso, la freccia a ferire il notturno aspide, la folgore per cavalcare le nubi tempestose.

O tu che cammini per le scure selve nordiche, per i verdi cammini occidentali, per le profumate steppe d’oriente, per le savane brucianti del sud, tu che non sai da dove vieni o dove tu vada, né perché tu abbia volto e nome, guida i tuoi passi verso la prima alba e la prima patria.

Quando ti avvolgeranno le tenebre e più oscura sarà la strada, accendi una fiamma che non si spenga: io mi compiacerò di indicarti il cammino.

Mi riconoscerai dalla larga cappa che mi nasconde ai malvagi, dalla maschera di carne dal cieco occhio veggente, sulla mia spalla il corvo gracchiante di voce umana.

Se i tuoi occhi sanno fissare il sole, se hai l’anima limpida come la rugiada di Marzo, se il tuo spirito è una verga d’acciaio, io sillaberò per te i segni fulminanti del mio nome, Odino.

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