L’Echino come immagine dell’uovo del mondo

Miti e SimboliTutti i popoli dell’Oriente antico: assiri, babilonesi, egiziani, per nominarne alcuni, hanno studiato i fenomeni della natura e della mente umana con l’intento, oltre agli scopi puramente pratici come le semine e i raccolti, di allargare il campo delle loro conoscenze. La vita dei babilonesi e degli assiri era permeata d’idee trovate attraverso la costante osservazione della volta celeste: fasi lunari, variazioni della posizione delle stelle ecc. L’astronomia era talmente pervasa e frammischiata con la religione che è quasi impossibile stabilire il loro punto di separazione.

L’Echino come immagine dell’uovo del mondo

di Bruno Marini

Dal punto di vista della verità assoluta, non si dà in questo mondo illusorio né oggetto conosciuto né soggetto che conosce: ma TU hai conosciuto la vera natura delle cose difficile a conoscere. – Inno a Nagarjuna

Tutti i popoli dell’Oriente antico: assiri, babilonesi, egiziani, per nominarne alcuni, hanno studiato i fenomeni della natura e della mente umana con l’intento, oltre agli scopi puramente pratici come le semine e i raccolti, di allargare il campo delle loro conoscenze. La vita dei babilonesi e degli assiri era permeata d’idee trovate attraverso la costante osservazione della volta celeste: fasi lunari, variazioni della posizione delle stelle ecc. L’astronomia era talmente pervasa e frammischiata con la religione che è quasi impossibile stabilire il loro punto di separazione. Nella mente dell’assiro e del babilonese religione, astronomia e astrologia formavano un’unità inscindibile, fondata su quella concezione e visione dell’universo che si vuole chiamare astrale, concezione precedentemente elaborata dagli antichi sumeri che, notevolmente sviluppata da parte dei semiti della Mesopotamia, raggiunse il culmine nell’epoca neo babilonese.

In quei lontani tempi, tutti gli dei si ritenevano rappresentati dalle stelle o dalle costellazioni, e tutto ciò che accadeva sulla terra si credeva pre-figurato nella volta celeste, pensavano ad un’immagine del firmamento riflessa nella terra, nelle sue regioni, nei suoi fiumi e nelle sue montagne. In altre parole, tutto era determinato dal cielo, dagli astri, dalle costellazioni e, rispettivamente, dalle loro divinità.

Quanto intimo fosse il nesso tra gli Dei e le stelle è dimostrato dal fatto che il segno, nelle scritture cuneiforme e runica, usato per designare il concetto di Dio è l’immagine schematizzata ed abbreviata di una stella.

La vita, per gli antichi egizi, in tutta la manifestazione apparente, era raffigurata da una sfera o palla stercoraria denominata l’uovo del mondo. La versione più antica che possediamo, grazie alla decifrazione della scrittura geroglifica, attribuisce la creazione del mondo al Dio Ptah proiezione demiurgica del Dio unico. Lo spirito divino, inseparabile dall’acqua, si sentì portato all’attività creatrice e la sua parola, il suo verbo, chiamò il mondo intero alla vita. Ptah avrebbe modellato il mondo a forma d’uovo come un vasaio modella un vaso d’argilla. L’uovo fu tratto dall’acqua primordiale, e ne uscì la Luce del giorno – Râ – causa immediata della vita terreste, simboleggiata dalla palla stercoraria (Sole) che lo scarabeo divino, Kêpra, spinge davanti a se. Lo scarabeo, è la perpetua esistenza dei regni minerale, vegetale e animale, mentre l’Ank ed il Was rappresentano la vita terrena dell’essere umano.

Il Dio Ptah

Kèpra

Ank e Was

I greci, hanno preso in prestito la concezione dell’uovo del mondo dai traci, insieme all’orfismo e ai suoi misteri. All’origine di tutte le cose, dicevano i maestri dell’orfismo, la notte caotica generò un uovo la cui metà superiore era il cielo, Uranos, e la metà inferiore la terra, Gaia.

Era però l’ostrica che consideravano come emblema ideale dell’unione corpo-anima, incapaci di separarsi l’uno dall’altra durante la loro vita. Anche Giamblico, platonico del IV secolo, nel suo libro “Dei Misteri” afferma: “l’anima che ha lasciato il corpo ostreico, (da ostrea, ostrica) o terrestre, erra in basso, intorno ai luoghi della generazione, portata da un soffio agitato e umido”.

Anche le conchiglie erano dei veri e propri talismani, le avevano consacrate ad Afrodite nata, secondo la leggenda, dalla valva madreperlata di una conchiglia.

La nascita del mondo animato richiamava alla mente dell’osservatore la forma del ventre di una gestante.

Vi è stato, credevano a quel tempo, un uovo che si è spezzato: la metà superiore si è conservata ed è andata a costituire la volta celeste; dalla metà inferiore è uscita la terra e tutti gli esseri che la popolano.

dal sito fmboschetto.it

Un’opera d’arte in cui questa simbologia è palesemente raffigurata è la celebre pala di S. Bernardino, realizzata da Piero della Francesca tra il 1472 e il 1474, attualmente esposta al museo di Brera. L’attenzione di chi osserva il dipinto è immediatamente attratta dalla presenza di un uovo di struzzo, situato proprio al centro della composizione, appeso con un filo (asse verticale) alla sommità della volta (varco attraverso il quale l’anima penetrerà nel guscio – utero?). Il tema dell’ovale (ab ovo , cioè: all’origine) è ripetuto nel volto della Madonna (madre – terra) e nella curvatura della possente architettura soprastante (padre – cielo), onde permetterci di leggere l’armonia della composizione e la forza predominante della figura femminile nell’atto riproduttivo.


(disegno di Silvia Barillari)

Quest’opera gli fu commissionata dal duca di Urbino Federico di Montefeltro, una persona il cui interesse primario era quello di sostenere il potere proprio della chiesa cattolica e l’indiscutibilità dei suoi dogmi. Vediamo, però, osservando il dipinto, che le linee di forza riconducono lo sguardo alla figura della Madonna indicandola come punto centrale, fulcro, dell’edificio sacro. Anche l’asse verticale, che potrebbe condurre al passaggio nella sommità della volta, è in realtà strumentalizzata allo stesso fine. Non possiamo sapere la reale intenzione di Piero della Francesca, ma quest’opera sembra stata fatta apposta per ricordarci che fino a quando esisterà un potere che pone l’accento su verità dogmatiche sarà impossibile il passaggio ad una dimensione più ampia, ad una libera ricerca tesa alla scoperta dell’assoluto in noi e fuori di noi.

Le correnti certe che hanno portato, con infinite varianti, la concezione dell’uovo cosmico dalla Caldea fino a noi passando per l’Egitto, l’Asia Minore, la Tracia, la Gallia, l’hanno associato alle leggende druidiche dell’Ovum anguinum (uovo di serpente); enigmatiche figurazioni di due o più serpenti allacciati, caduceo o D.N.A, e all’echino, volgarmente denominato riccio di mare, che ritroviamo incisi sulla pietra e nell’avorio in tutto il mondo antico.

L’archeologia del XIX secolo non si è sbagliata sul fatto che l’echino fossile rinvenuto in molte sepolture pre-cristiane sia proprio l’Ovum anguinum dei Druidi, emblema dell’uovo del mondo, e perciò della vita nel mondo e del rinnovamento di questa vita. Molti studiosi sostengono che in un periodo precedente a quello dei Druidi, i neolitici e i loro successori, sul suolo europeo abbiano raffigurato emblematicamente l’uovo del mondo con allineamenti di menhir, come quelli di Stonehenge in Inghilterra e di Carnac nella Bretagna francese, formanti un cerchio sacro.

Queste particolarità par giusto pensare siano strettamente legate al pellegrinaggio iniziatico perché i segni distintivi dei pellegrini erano la conchiglia, in alcuni luoghi chiamata crogiolo, detta di San Giacomo, e il bastone attributo naturale del viaggiatore. Nella Cattedrale d’Amiens possiamo ammirare in un bassorilievo, chiamato La morelle de Compostelle, la figura di un giovane appoggiato sul davanzale di una finestra, distaccato da ogni preoccupazione terrena intento, con lo sguardo, a mirare in lontananza la prossima tappa del cammino. Sotto la finestra appare il simbolo della conchiglia, del cammino che non consente interruzione.

Il termine “Nobili Viaggiatori” applicato agli Iniziati dell’antichità è stato pronunciato per l’ultima volta in pubblico il 30 maggio 1786, a Parigi, nel corso di una seduta del parlamento dedicata all’interrogatorio di un imputato celebre: Cagliostro. Questo è l’inizio del suo discorso alla fine del processo che sarà l’ultimo della Sacra Inquisizione: “Non sono di alcun’epoca né di alcun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza (1) e, se immergendomi nel mio pensiero risalgo il corso delle età, se distendo il mio spirito verso un mondo di esistenza lontano da quello che voi percepite, divengo colui che desidero. Partecipando coscientemente all’Essere assoluto, regolo la mia azione secondo l’ambiente che mi circonda.

Il mio nome è quello della mia funzione, perché sono libero; il mio paese è quello in cui fisso momentaneamente i passi. Datatevi, se lo volete, da ieri, rialzandovi con l’aiuto degli anni vissuti da antenati che vi furono estranei; o da domani, per l’orgoglio illusorio di una grandezza che non sarà mai la vostra; io sono colui che è” (2).

Le vie percorse ancora oggi dai Nobili viaggiatori (pellegrini) sono chiamate “cammino di Compostela”. La strada di San Giacomo che i contadini chiamano via lattea, l’accostamento non deve meravigliare perché Compostela non vuol dire altro che campo stellato, nome che richiama alla mente l’impresa dei viaggi celesti: forse non è troppo stravagante notare che il tetto nei templi antichi (Plutarco lo descrive nel suo scritto: “I segreti esoterici”), è rappresentato dal cielo stellato.

Esiste una stretta correlazione tra la posizione geografica delle fermate di posta dei viaggi dei pellegrini (precettorie templari) e dei viaggi simbolici all’interno del sacro tempio. Sono stati ritrovati degli echini fossili, scolpiti dall’uomo, raffiguranti i tratti di volti umani, si tratta probabilmente di un simbolismo tendente a rinforzare l’idea del principio della vita di cui l’echino era l’ideogramma decretato.

Nel 1899 Gustave Chauvet, presente durante certi scavi che si svolgevano sul tumulo di Poiron a Saint-Amand-Sur-Sevre, scrive sulla sua rivista archeologica: “Sul tumulo fu praticato un foro di circa due metri di larghezza, e al suo interno, ad una profondità di circa venti metri fu rinvenuta soltanto una piccola cassa costituita soltanto da sei pietre di roccia scistosa, pietra molto friabile dalla quale si ricava il quarzo, lunghe poco più di venti centimetri, nel mezzo delle quali era stato racchiuso un echino fossile. (Non si tratta di un fatto isolato, un tumolo bretone portato ala luce da M. du Chatellier non conteneva nient’altro che un echino fossile, e non mi dilungo ad elencare i tanti altri casi di echini fossili ritrovati). Alcune credenze vive presso i Galli lo indicavano come un talismano molto ricercato, per loro aveva il potere di far vincere i processi pubblici; credenza condivisa anche dai romani.

Plinio racconta di un cavaliere del paese di Voconzi, località narbonese vicina agli attuali dipartimenti dell’Isère in Francia, che portava un echino sotto la tunica durante un processo e fu, senza nessun altro motivo se non questo, fatto condannare a morte dall’imperatore Claudio.

L’uso emblematico e multisecolare dell’echino era ed è l’ancestrale simbolo dell’Ovum anguinorum del Druidi, come immagine misteriosa del principio della vita, del germe divino di sopravvivenza per via della resurrezione che per il cristiano s’identifica con il Cristo. La chiesa cattolica non ha conservato all’echino fossile la sua emblematica ufficiale fino ai nostri giorni, tuttavia il suo abbandono non ha impedito ad alcuni gruppi esistenti al suo interno, ed al suo margine, di conservarlo come uno dei simboli dell’idea di resurrezione e del verbo divino, creatore e vivificatore di tutte le cose viventi e dell’intera legge universale.

I Catari mediterranei del XII secolo di filiazione manichea avevano conservata la tradizione che identificava nell’echino vivente l’immagine del Verbo fatto uomo: il corpo celato dal guscio raffigurava la divinità nascosta di Cristo; il guscio era invece il suo involucro umano, mentre i 7 lunghi aculei che, come frecce, lo coprivano con disposizione irradiante, simboleggiavano l’espansione della sua parola nel mondo.

L’interpretazione catara dell’echino si riveste anche di un altro aspetto, puramente ascetico, fondato sulla particolarità della sua apertura inferiore pentagonale posta al centro del suo organismo, chiamata lanterna di Aristotele. Essa è provvista di cinque denti trancianti e proporzionalmente al corpo più grandi di quelli osservati in tutti gli altri animali. Questa particolarità corrisponde simbolicamente al primo grado dei tre dell’antico ascetismo manicheo riguardante il governo della bocca, il Signaculum Oris, esso imponeva l’interdizione assoluta di tutte le parole impure. Questa disciplina si trovava in perfetto accordo con lo spirito dell’epistola di San Giacomo che dice: “Se qualcuno non pecca con la parola allora è un uomo perfetto”. Il secondo grado, Signaculum manum, condannava qualsiasi tipo d’attività destinata a rendere il nostro temporaneo soggiorno terreno più gradevole; il terzo grado, Signaculum sinus, riservato ai puri, catharos, vietava qualsiasi soddisfazione dei sensi. La forma pentagonale dell’orifizio dell’echino ricordava loro i cinque sensi dell’uomo e nei cinque denti i generi di sacrificio che s’imponevano per diventare perfetti: sacrificio dei piaceri della vista, dell’udito, dell’odorato, del gusto e del tatto. Non possiamo sapere fino a che punto i Catari abbiano adottato quest’atroce ascetismo manicheo, sappiamo soltanto che la loro disciplina era estremamente severa.

La grande attenzione che il simbolismo archetipo pone alla forma pentagonale, che si manifesta nella disposizione delle linee sulla superficie e nella forma dell’apertura inferiore dell’echino, potrebbe essere la testimonianza di una forma d’ideale provenuta da lontano. La sua forma evoca singolarmente il pentagono stellato di Pitagora, il più misterioso dei simboli pitagorici, ovvero il pentagramma che i discepoli del Maestro di Samos si esercitavano a tracciare con un solo tratto: potremmo chiederci se Pitagora non abbia preso in prestito il suo pentagramma dall’interpretazione druidica dell’Ovum anguinum sacro ai Galli, di cui egli era sicuramente a conoscenza.

Il pentagramma o stella a cinque punte, la stella fiammeggiante della massoneria, è anche un pantacle: anzi è uno dei più completi che si possa immaginare. I suoi significati sono tanti ma tutti si riferiscono all’idea primordiale dell’alleanza del quaternario con l’Unità. Senza voler parlare in maniera completa di questa figura, che rappresenta soprattutto l’essere umano: il punto superiore indica la testa, gli altri quattro punti le sue membra, come pantacle suggerisce, richiama alla mente, i cinque sensi. Come accennato in precedenza, nella descrizione dell’echino, posso indicare alcuni usi di questa figura pentagonale. I maghi si servono, per agire sugli spiriti, del pentagramma con la testa rivolta verso l’alto, gli stregoni dello stesso pentagramma con la testa rivolta verso il basso.

Il pentagramma con la testa rivolta verso l’alto (a) indica l’essere umano la cui volontà–testa conduce al dominio dello spirito sulla materia, essendo l’idea spirito, rappresentata dal numero tre e la materia dal numero due che decomposta rappresenta il dominio dello spirito sulla materia.

Il pentagramma con la testa rivolta verso il basso (b) indica l’essere umano limitato dal cerchio demiurgico che lo confina, ma anche il viaggiatore risvegliato che presa coscienza della sua realtà anela alla ricongiunzione con lo spirito universale, posto al di la del cerchio, alla liberazione del suo spirito individuale dalla materia corporale che lo limita. È la rappresentazione sia della dodicesima Lama dei Tarocchi, che la richiesta fatta da Gesù all’apostolo Giuda, come possiamo leggere nel vangelo gnostico intitolato a suo nome, affinché lo aiuti ad uccidersi in modo da uscire dal suo corpo fisico che lo limita. In questo vangelo la figura di Giuda viene rivalutata: è la stella più lucente, e lo chiama, in modo sibillino, il tredicesimo apostolo perché tra di loro c’è “la discepola che Gesù amava”.

Al tempo degli albigesi si raccoglievano devotamente nei castelli di Francia gli echini fossili che i Crociati riportavano dalla Palestina, ed ai quali erano attribuite virtù particolari, a questi echini era dato il nome di “pietre di Giudea”.

L’ermetismo meglio informato identificava nell’echino marino l’immagine emblematica dell’emisfero settentrionale della terra, il solo di cui gli antichi erano a conoscenza: le linee che scendevano dalla sommità lungo tutta la sua superficie erano considerate come dei meridiani che discendevano dal polo, mentre la base era la linea equatoriale: due echini congiunti per la loro base formavano l’immagine del globo terrestre.Questo tema sull’echino, rilevato da René Guénon su uno dei più antichi libri massonici (Lettre à l’auteur, 12 luglio 1925), sarebbe pervenuto all’ordine antico proprio da questa prospettiva ermetica.

Il simbolo del pentagramma descritto magistralmente nelle opere di Eliphas levi è, fra tutti, quello che suggerisce più modi di energia creativa: ricorda la forza molteplice della mano e delle sue cinque dita, ed ha una portata micro-macrocosmica quale insegna massima del potere magico-sacerdotale.

Nell’iniziazione taoista sono assunti come elementi fondamentali del simbolo i cinque enti (acqua, fuoco, metallo, legno e terra), legati dal concetto della supremazia che ciascuno ha sul successivo e dell’ultimo sul primo. Infatti l’acqua spenge il fuoco, il fuoco fonde il metallo, questo taglia il legno, il legno doma la terra ed è nel seno della terra che hanno origine le acque. Così dalla successione di una prima contemplazione del mondo sotto gli auspici del pentagramma cioè:

Acqua, fuoco, metallo, legno, terra…

si può passare alle facoltà o capacità umane: … portamento, vista, udito, parola, pensiero…

e alle loro desiderabili perfezioni: … modestia, chiarezza, distinzione, convenienza, perspicacia….

ed infine alle qualità che il maestro aspira: … dignità, discernimento, prudenza, ordine, saggezza.

Yin Yan e l’uovo cosmico (fiaba taoista)

Secondo gli antichi Cinesi, la storia della creazione inizia con la presenza di due grandi forze: Yin, la potenza del buio e dell’ombra, e Yang, la potenza del sole e della luce. Yin e Yang ebbero un bambino, un dio chiamato Pan Gu, e fu proprio lui a formare il mondo così come lo conosciamo. Pan Gu nacque in un enorme uovo. Dentro l’uovo c’era l’oscurità più completa. Per diciottomila anni Pan Gu visse nel buio dell’uovo, diventando ogni giorno più grande. Alla fine era cosi grande che l’uovo non poteva più contenerlo. Nel guscio apparvero le prime crepe, sempre più vaste, finché l’uovo si ruppe. Le parti chiare e leggere dell’uovo volarono in alto a formare i cieli, le parti scure e pesanti dell’uovo sprofondarono in basso a formare la terra.

A quel punto Pan Gu si liberò del guscio e si mise in piedi, alto e diritto. Per impedire che cielo e terra si confondessero un’altra volta continuò a crescere, e ogni giorno spingeva per allontanarli sempre più. Passarono cosi altri diciottomila anni. Alla fine, stremato dal grande lavoro, Pan Gu si distese a terra e si preparò a morire. Il suo respiro formò le nuvole e il vento, la sua voce rombante divenne il tuono. L’occhio destro divenne la luna e l’occhio sinistro il sole. I capelli e i baffi divennero le stelle nel cielo. Pioggia e rugiada nacquero dal suo sudore mentre fiumi e montagne, piante e alberi, rocce e gemme preziose scaturirono da tutto il suo corpo.

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Note

1. Cagliostro afferma qui la sua avvenuta unione con l’Essere Assoluto: Dio, per cui avrebbe acquisito infinità ed eternità. (torna al testo)

2. Intendasi: io sono ora tutt’uno con l’essere assoluto, poiché solo Dio è ( Ego sum qui sum e sum fui ero ); solo Dio è infinito ed eterno, al di sopra del tempo e dello spazio. Gli individui singoli non sono, esistono, cioè sono sottoposti a tempo e spazio, al divenire (nascita, crescita, morte), e la loro autonomia e indipendenza dall’Essere è mera illusione. (torna al testo)

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