Heidegger e l’«ultimo metafisico dell’Occidente»

Dialoghi Filosofici

Heidegger recupera l’eterno ritorno nietzscheano e lo pone in correlazione con la volontà di potenza, pensandolo come tentativo metafisico di effettuare il controllo del divenire nel circolo eterno: preludio al dominio della tecnica contemporanea.

Heidegger e l’«ultimo metafisico dell’Occidente»

di Antonio D’Alonzo

Heidegger recupera l’eterno ritorno nietzscheano e lo pone in correlazione con la volontà di potenza, pensandolo come tentativo metafisico di effettuare il controllo del divenire nel circolo eterno: preludio al dominio della tecnica contemporanea. Il superuomo nietzscheano diventa così il signore della terra – che orfano di un Dio, ormai morto – con le armi della tecnologia si avvia a dispiegare il vecchio sogno baconiano di dominio totale sulla natura.

Negli ultimi anni, precedenti il crollo di Torino e i cosiddetti «biglietti della follia», Nietzsche era consapevole di essere diventato un uomo illustre. Il suo pensiero pur continuando ad essere ignorato dalle accademie, cominciava a trovare estimatori tra le avanguardie letterarie ed artistiche. Proprio nel 1989, lo storico della letteratura Georg Brandes, tenne su di lui all’Università di Copenaghen un corso monografico. Il mondo accademico, però, continuava a non scorgere alcun collegamento tra la sua opera e le grandi domande della filosofia occidentale: Nietzsche era, perciò, considerato uno scrittore e non un vero e proprio pensatore.

Dopo la «mitizzazione» operata da Ernst Bertram, un primo, seppure nefasto, riconoscimento dell’opera nietzscheana come corpus filosofico, si ha con l’ideologo del Terzo Reich, Alfred Bäumler. L’altro filosofo del nazionalsocialismo, Alfred Rosenberg, lo aveva inserito nella sua opera capitale «il mito del XX secolo», destinato a diventare il libro del regime, ma nel quale le radici del pensiero nietzscheano assumevano una valenza mitica (come per Bertram, che aveva dissolto la figura reale all’interno della «Leggenda Nietzsche»). Bäumler – titolare di una cattedra di «Pedagogia politica» a Berlino fondata appositamente per lui e che è stato il principale responsabile del rogo di libri «Non tedeschi, non ariani» sulla Alexander Platz nel 1930 – vede in Nietzsche un fautore del germanesimo, una sorta di «Cornuto Sigfrido» in lotta contro l’Occidente cristiano, sotto la benevola approvazione e il compiaciuto placito della «regina» dell’Archivio-Nietzsche di Weimar, Elisabeth Forster, sorella del filosofo, e del discepolo prediletto del fratello, ottimo decifratore della sua calligrafia, nonché musicista fallito, Peter Gast (pseudonimo di Heinrich Koselitz).

Per Bäumler, il «guerriero germanico» Nietzsche individua nella volontà di potenza il principio che deve necessariamente essere connesso con un volontarismo collettivizzato, rimanendo nello stesso tempo suprema affermazione vitale e massima espressione della forza transeunte ed irrazionale del divenire. Viceversa, l’eterno ritorno sarebbe soltanto una deviazione casuale dalla vera essenza del pensiero di Nietzsche (che è la volontà di potenza), una «eternizzazione dell’esistente» che in nessuna maniera può essere accordata con il fulcro essenziale del sistema nietzscheano, che per Bäumler è racchiuso nell’incompiuta, ancorché postuma Hauptwerk: lo scandaloso «Wille Zur Macht» edito da Elisabeth e Gast.

Il «pensiero più grave» sarebbe comunque assolutamente ininfluente ai fini e all’economia del «sistema-Nietzsche» che è celato negli ultimi scritti che precedono il crollo psichico di Torino, rimescolati dal duo Elisabeth-Gast. L’idea dell’eterno ritorno è solo una riaffermazione erronea e presto abbandonata, dell’eternità dell’Uno-tutto nel tempo ciclico della metafisica greca. Ma Nietzsche è il filosofo della lotta e del divenire, cioè della prospettica volontà di potenza che non può avere la sua essenza se non in se stessa; nella brama di potere infinita che il nazismo deve necessariamente interpretare come dominio incondizionato dell’übermensch ariano. La teoria dell’eterno ritorno dell’eguale, al contrario, per Bäumler, presenta un’intrinseca giustificazione dell’esistente, nella sua svalutazione di qualunque istanza di trasformazione e modificazione radicale dovuta all’illusoria caducità della praxis: tutto ritorna, anche gli ebrei e la loro contaminazione della purezza della razza ariana.

In questo contesto storico, Heidegger tuona contro tutti: contro i filosofi accademici che avevano etichettato l’opera nietzscheana come lebenphilosophie, esortando a leggere Nietzsche in parallelo con la Metafisica di Aristotele; contro Bäumler, non solo affermando che il superuomo non può essere sottoposto a delle grossolane riduzioni razziali, ma anche esplicitando il nesso intrinseco che rimanda la volontà di potenza e l’eterno ritorno ad una loro complementarità, se non addirittura ad una loro parziale identità.

Heidegger intraprende un estenuante corpo a corpo con il pensiero nietzscheano racchiuso nei frammenti postumi ordinati nel «Wille zur macht», peraltro non risparmiando critiche ad Elisabeth e a Gast per i superficiali criteri filologici adottati e cullando il progetto, subito abbandonato, di presentare una propria edizione critica. L’incessante rovello esegetico profuso nella rilettura incessante dei testi nietzscheani – pari soltanto a quello iniziale che Heidegger dedicò ad Aristotele e all’opera di Hölderlin – unita ad una caparbietà analitica unica, trascinarono il filosofo tedesco sull’orlo del crollo psicofisico («Nietzsche mi ha distrutto», avrebbe confidato in quel periodo alla moglie).

Inizia così un ciclo quadriennale di conferenze e lezioni universitarie dedicate a Nietzsche, le stesse che confluiranno nell’opera più mastodontica mai prodotta su Nietzsche. Anche per Heidegger sono totalmente irrilevanti le opere del primo periodo della cosiddetta «Metafisica d’artista», del giovane Nietzsche fervente wagneriano e schopenauriano. Come per Bäumler, solo gli ultimi scritti rivelano il nucleo essenziale del suo pensiero, che, però per Heidegger appartiene alla storia della metafisica occidentale come storia dell’oblio dell’essere nel suo progressivo velarsi, a favore dell’essente che l’essere lascia sussistere.

Nietzsche per Heidegger non sarebbe tanto un lebenphilosoph, uno scrittore di aforismi, un intellettuale «impazzito», ma un filosofo vero e proprio come Aristotele: più precisamente, egli è identificato come l’«ultimo metafisico dell’occidente». Il suo pensiero è il compimento della metafisica come culmine dell’oblio in cui «dell’essere come tale non ne è più niente, non ci sono che gli enti». Heidegger vede l’essenza del nichilismo nella storia della metafisica occidentale come progressivo sottrarsi della verità dis-velante dell’essere, fino al più completo oblio, nella contemporanea ipostasi dell’essente, cioè dell’ente-presente, a portata di mano, afferrabile. Questo atteggiamento ha inizio con i greci, precisamente con l’atteggiamento constatativo-descrittivo della theoria che nel suo tentativo di determinare l’essere lo riduce ad una sola delle sue dimensioni temporali, il presente, dimenticando di pensarlo anche in rapporto al passato e al futuro. L’atteggiamento teoretico, infatti, osserva e contempla soltanto ciò che è presente.

La metafisica della presenza, riducendo così l’essere ad una sola dimensione temporale, lo pensa equivocamente come ente: ma questo non da sempre. All’inizio della storia occidentale e prima della svolta metafisica, la verità dell’essere domina, nella pienezza e nell’unità delle sue articolazioni temporali, originariamente pensata come «svelatezza» (alètheia), ossia come carattere coestensivo dell’essere stesso.

Il mutamento che Heidegger trova emblematicamente rappresentato nel mito della caverna di Platone, conduce al predominio dell’idea che la verità non è tanto un carattere dell’essere stesso, quanto l’esattezza (orthòtes) dello sguardo che fissa l’essere nel suo essere-presente. L’addestramento graduale e progressivo dell’occhio del prigioniero permette di passare dalla visione delle ombre a quella delle essenze, fino a quella suprema, l’idea del bene in sé. Da questo preciso istante, l’essere si ritrae e nell’orizzonte che tale ritrarsi apre, si determina il primato dell’essente. Nasce così la metafisica occidentale in cui si impone progressivamente l’atteggiamento fondamentale che Heidegger designa come «soggettità», l’imporsi del primato dell’uomo nel mezzo dell’ente nel contemporaneo oblio dell’essere: ovvero il progetto di padroneggiamento teoretico e pragmatico dell’intera terra che ha storicamente inizio con i greci e conduce fino all’essenza del «gestell», la tecnica moderna. La storia della metafisica è allora storia dell’oblio dell’essere in favore dell’essente e in quanto tale è nichilismo:

«L’essenza del nichilismo è la storia nella quale dell’essere stesso non ne è più nulla» (M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1995, p. 812)

Questa dimenticanza non dipende da una colossale svista umana – consapevole o no – alla quale si può ovviare, ma è piuttosto un «erramento» (ereignis) che appartiene alla struttura-destino dell’essere stesso, inteso come «dis-velamento» che nell’illuminazione del suo av-venire si ritrae e sottrae, lasciando sussistere l’essente (una concezione similare può essere rintracciata nella mistica cristiana ed islamica: in particolare si confronti il «dis-velamento» heideggeriano con la Nube primordiale di cui parla Ibn ‘Arabî). Heidegger tenta di pensare il misterioso susseguirsi delle epoche storiche dell’Occidente, internamente all’illuminazione-apertura dell’essere, inteso come il suo ritrarsi e il suo darsi insieme: unione di non-verità che si sottrae e verità che appare come «invio» (ereignis) della prima. La «grecità», la «romanità», il «mondo medioevale», la «modernità» sono periodi storici che appartengono all’orizzonte epocale dell’essere; essere che, nella sua «svelatezza», lascia avvenire il suo oscuramento, occultandosi in altrettante determinazioni fondamentali dell’ente: «idea» (Platone), «energeia» (Aristotele), «ens creatum» (cristianesimo), «soggetto» (Descartes), «monade» (Leibniz), «spirito» (Hegel), «volontà di potenza» (Nietzsche), «gestell» (tecnica).

È nel rappresentare (in tedesco vor-stellen, «porre-innanzi»), che Heidegger identifica il modo di darsi dell’essere nell’età del compimento della metafisica, che storicamente ha inizio, come abbiamo visto, con Platone. Attraverso il susseguirsi delle varie epoche della storia Occidentale, il soggettivismo metafisico incomincia lentamente, ma progressivamente, a dispiegarsi, spostando la «messa a fuoco» dell’occhio speculativo dalla contemplazione della semplice presenza dell’essente all’essere-rappresentato, cioè dall’oggetto osservato al soggetto conoscente. In tal senso lo sviluppo raggiunto dalla scienza contemporanea testimonia con l’applicazione del metodo empirico l’affermarsi di procedure metodiche di accertamento, dove assume grande rilievo la manipolazione sperimentale che permette al soggetto gnoseologico di introdurre sempre nuove tecniche di controllo e dominio sull’ente. D’altronde, la stessa tecnica occidentale è con la modernità un destino che «compie» la metafisica. Identificando l’essere con l’essere-rappresentato, essa pone-di-fronte un camuffato oggettivismo dove l’oggetto si dà solo in relazione ad un soggetto attraverso l’uso di procedure tecnico-scientifiche che desacralizzano la Natura e rendono l’uomo il nuovo consapevole signore della Terra. È nella metafisica della presenza e nel suo predominio dell’ente che ha origine, per Heidegger, la modernità.

Diventano, quindi, esemplari le ultime tre figure della storia della metafisica, come storia dell’oblio dell’essere: Hegel, l’ultimo greco, nella cui metafisica della soggettività assoluta viene a compimento la sostanza aristotelica; Nietzsche, il platonico più sfrenato, che capovolge la dottrina platonica dei due mondi e concepisce tutto l’ente come volontà di potenza – intrinsecamente connessa con l’eterno ritorno dell’uguale (rispettivamente «essentia» ed «existentia» dell’essere pensato come valore) – e come «soggettità»; infine nel gestell, l’impianto della tecnica moderna, nel quale il padroneggiamento conoscitivo ed operativo dell’essente (o ente) è ormai totale. È l’epoca del compimento del nichilismo: l’essere dell’ente è totalmente ed esclusivamente il suo esser-posto dal progetto dell’uomo produttore ed organizzatore, dalla sua strategia di dominazione di tutta la terra. Non ci sono che gli enti (o essenti). Il gestell non è un prodotto della ingegnosità umana, ma è il compimento del destino della metafisica e dell’invio errante (ereignis) dell’essere nel suo darsi, che è nel contempo un ritrarsi. Si dimentica non solo l’essere ma anche il pensiero della differenza fra essere ed ente, la differenza ontologica. Attraverso un progetto globale di dominazione planetaria tutto l’essente viene calcolato, pianificato, programmato:

«L’uomo sta per slanciarsi su tutta la terra e nella sua atmosfera, sta per impadronirsi da usurpatore del regno segreto della natura – ridotto a forze – e per sottoporre il corso della storia ai piani e ai progetti di una dominazione planetaria» (M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, da Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1996, p. 348).

Nietzsche è quindi per Heidegger l’ultimo metafisico dell’Occidente, non un distruttore della ragione, bensì il profeta della diffusione planetaria della tecnica che smaschera le «favole» del platonismo-cristianesimo, l’antesignano di una razionalità totalizzante e tecnocratica destinata a trionfare nel gestell. Ciò che Nietzsche porta alla luce è il «fatto» che «Dio è morto» e con lui tutto un sistema di valori e di credenze che avevano il loro centro di irradiazione in un al di là, in un «vero mondo» contrapposto al mondo sensibile, copia imperfetta del primo. Il «mondo vero» è il mondo sovrasensibile del platonismo e del cristianesimo, che dissolverà la magnificenza della storia umana, adattandola alla sua concezione escatologica del tempo lineare, come tempo perituro. «La morte di Dio» e il tramonto dei valori affermati dalla morale platonico-cristiana – valori del «gregge» perché generano un depotenziamento dell’atteggiamento affermatore e volitivo della «morale dei signori», che «dice di sì» alla vita e al suo infinito divenire – rendono necessaria la riappropriazione feuerbechiana della proiezione dell’essenza umana sublimata nel divino, per rendere a sua volta possibile l’attraversamento del «deserto che cresce» del nichilismo. Ma questa auto-consapevolezza può essere possibile solo in un uomo radicalmente diverso dall’uomo di prima: l’übermensch, il superuomo. L’übermensch è colui che vuole il mondo come volontà di potenza ed eterno ritorno dell’uguale: con questa figura – il cui milieu è il moderno mondo del gestell – si conclude la storia della metafisica occidentale, come storia dell’oblio dell’essere. Essa era iniziata con l’identificazione dell’essere con l’essere-presente, proseguita con la riduzione dell’essere-presente all’essere-rappresentato, per culminare, infine, nell’apoteosi trionfalistica del potere incontrastato del soggetto che pone-dinnanzi l’ente, manipolandolo.

Per Heidegger, tuttavia, l’uomo della tecnica non è nemmeno in questa era completamente solo, nel suo potere, di fronte all’ente: non si dà alcuna relazione soggetto-oggetto se non all’interno dell’orizzonte illuminato dell’essere. Qualunque prometeica ipotesi futura, di un dominio gnoseologico assoluto del tecnocraticismo occidentale, è da considerare come ineluttabilmente conchiuso all’interno dell’apertura della verità dell’essere. In altre parole, il dominio della tecnica moderna è un destino aperto e voluto dalla stessa alètheia, dall’essere.

Anche il rapporto manipolante-accertante, la conclamata relazione soggetto-oggetto, si dà come invio oscuro della verità dell’essere. L’età liberata e liberante della tecnica moderna è, paradossalmente, quella del massimo assoggettamento del soggetto che, ipostatizzando nel suo-porre-dinnanzi l’ente all’asservimento del suo dominio, ne oblitera il rapporto essenziale con l’illuminante-custodente raccoglimento dell’essenza della verità: come nella hegeliana figura del servo-padrone, l’uomo si ritrova sottomesso a ciò che pretende di dominare. Il «deserto che cresce» è il trionfo della ratio che traspone progressivamente il fondamento dell’ente dal suo «totalmente altro» (l’idea platonica, l’energheia di Aristotele, il Dio della Scolastica) al solipsistico perseguimento dei suoi scopi. Nell’era della tecnica, il soggetto nell’altro riconosce soltanto se stesso. Siamo nel Crepuscolo della trascendenza:

«È caduta la notte. Da quando i “tre che sono uno”: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio”» (Cfr. M. Heidegger, Perché i poeti, da Sentieri Interrotti, op. cit. p. 247).

E ancora: «Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza» (ivi, p. 247).

Il pensiero di Nietzsche, secondo Heidegger, non è soltanto il pensiero del compimento della metafisica, ma anche quello dell’autoconsapevolezza antropologica. È il pensiero epocale dell’ormai raggiunta maturità dell’uomo che, finalmente, si emancipa definitivamente dai residui platonici di una trascendenza che si è rivelata favola: l’inizio di una nuova era. Nietzsche ricerca, nella sua fuga dalle «sabbie» del nichilismo, un oltrepassamento antropocentrico della metafisica occidentale, da lui identificata nel platonismo. Ma questo oltrepassamento, secondo Heidegger, fallisce completamente: la trasvalutazione si rivela un irretimento nella medesima metafisica che Nietzsche pretenderebbe di oltrepassare. Esemplare, in questo senso, è l’interpretazione che Heidegger effettua – nella prima parte di Che cosa significa pensare? – della liberazione dallo «spirito di vendetta» nietzscheana, che nelle intenzioni originarie dell’autore avrebbe dovuto significare liberazione da ciò che è avverso alla volontà: il tempo e il suo «così fu». Nietzsche caratterizza l’«ultimo uomo» come quell’uomo tradizionale che ancora conserva l’essenza umana tramandatagli dalla storia, che per lui significa cristianesimo, platonismo, «morale degli schiavi», spirito di risentimento contro la vita e i suoi valori alti e nobili propugnati dagli spiriti forti. Dovendo oltrepassare l’ultimo uomo e la sua essenza per andare oltre, verso un altro tipo di uomo più elevato, Nietzsche si domanda quale sarà il ponte che consentirà tale passaggio, credendo di ravvisarlo nella liberazione dallo spirito della vendetta, il ressentiment dell’uomo tradizionale:

«Giacché che l’uomo sia redento dalla vendetta, questo è per me il ponte verso la speranza suprema e un arcobaleno dopo lunghe tempeste» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra , Adelphi, Milano, 1991, p.119).

Ma qual è lo spirito di vendetta e perché? Avendo Nietzsche annunciato lo scoccare l’ora della «morte di Dio», si trova nella ineluttabile necessità antropocentrica di porre la volontà umana come ricerca di potere, un voler-diventar-più-forti. Ma la volontà che a questo punto è solo umana – non può volere a ritroso, contro il suo «e così fu». Il volere è da sempre proiettato nel futuro, ma niente può rispetto ad un passato che non si può cambiare e condiziona, riducendo prepotentemente il raggio di possibili scelte a disposizione per l’avvenire. Appare quindi chiaro che cosa è la vendetta: «L’avversione della volontà contro il tempo e il suo così fu» (ivi, p. 171). La liberazione dallo spirito di vendetta è la redenzione dal tormento del divenire del tempo, come sintomo di «salute degli spiriti forti che riescono a «dire sì» al flusso, sentendolo perfettamente coincidente con il senso della propria vita e rimanendo fedeli alla Terra. Il mondo senza fine, né scopo, ma eternamente ritornante cosi com’è: è questo l’eterno ritorno dell’eguale. La liberazione dallo spirito di vendetta, è interpretata da Heidegger, come apoteosi finale della metafisica, in quanto attraverso la dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale, Nietzsche attribuisce al divenire il carattere ipostatico dell’essere. Nietzsche è, per Heidegger, un filosofo vero e proprio, che – sotto il velo di Maya di tematiche solo apparentemente esistenziali – pensa la domanda-guida della grande tradizione metafisica occidentale, la domanda su che cosa sia l’essere:

«Imprimere al divenire il carattere dell’essere è questa la suprema volontà di potenza» (Cfr. F. Nietzsche, Frammenti Postumi vol. VII, Adelphi Milano, 1991 fg. 54).

La metafisica pensa l’essere al di fuori di ogni immanente legame con la temporalità. In questa prospettiva lo spirito di vendetta è l’insofferenza per lo scorrere del divenire, per la temporalità:

«La volontà dell’eterno ritorno delle stesse cose libera il volere dalla possibilità di scontrarsi con ciò che le è avverso. Giacché la volontà dell’eterno ritorno delle stesse cose vuole sin dall’inizio e nella sua totalità l’indietro, cioè il cammino a ritroso e il ritorno» (Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, Sugarco Edizioni, Milano, 1988, p.97).

La volontà supera l’avversione contro il divenire se essa desidera persistentemente il venire e l’andare di tutte le cose, il circolo eterno. La volontà volendo l’eterno ritorno di ogni «così fu», si libera dal risentimento per ogni «così fu». Heidegger sottolinea che l’eterno ritorno dell’eguale è l’apoteosi finale della metafisica della presenza che vuole eternamente il suo stesso volere; giacché in questo orizzonte epocale, la volontà appare come la determinazione essenziale in cui lo «svelante-custodimento» dell’essenza della verità si dà all’interno della «soggettità». L’essere dell’essente viene a coincidere con la volontà che, volendo l’eterno ritorno delle identiche cose, perpetua eternamente il suo volere nel ritorno: la volontà vuole il ritorno perenne del suo volere. La redenzione dalla vendetta è il mutamento essenziale che segna il passaggio della volontà dall’avversione contro il «così fu» al volere il ritorno eterno delle stesse cose – e in questo volere – volere se stessa come auto-fondamento. Heidegger sottolinea che imprimere al divenire il carattere dell’essere – che è volontà di potenza per Nietzsche – significa che il divenire è possibile soltanto se è fondato sull’essere in quanto essere:

«che tutto ritorni è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione» (Cfr. ivi, fg. 54).

La dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale è quindi, nella lettura heideggeriana, essenzialmente connessa con quella della volontà di potenza. Fin dall’inizio, l’eterno ritorno e la volontà di potenza sono intrinsecamente concepite come determinazioni fondamentali dell’ente nel suo insieme. La volontà di potenza dice che cos’è l’ente, la sua essentia, mentre l’eterno ritorno come esso è, l’existentia. La volontà di potenza esprime la «stabilizzazione della sopraelevazione, cioè del divenire». L’eterno ritorno dell’uguale «porta davanti a sé la sua essenza come la più costante stabilizzazione del divenire di ciò che è costante». I due pensieri pensano la stessa cosa:

«la costante stabilizzazione del divenire di ciò che diviene, in quella unica presenza del ripetersi dell’identico» (M. Heidegger, Nietzsche op. cit. p. 547).

In effetti, secondo Heidegger, Nietzsche non pensa veramente il divenire, giacché ciò che diviene è l’uguale, lo stesso che perpetua se stesso nella fallace diversità dell’altro: nell’uguale si dà la presenza diveniente dell’identico. Pensare, quindi, la volontà di potenza in connessione con l’eterno ritorno, non significa soltanto – contro Bäumler e la sua teorizzazione di un «sistema Nietzsche» fondato sulla esclusione dell’idea del ritorno – confutare una volta per tutte l’idea di una ricaduta del pensiero di Nietzsche nell’ammirazione per l’antichità. Non è il tentativo di cogliervi i primi sintomi della mancanza di lucidità intellettuale, quasi un presagio della demenza incombente. Significa pensare metafisicamente la cosa più essenziale: la stabile stabilizzazione dell’instabile. Imprimere al divenire la forma dell’essere, significa, «dare al divenire la forma dell’ente, in modo che in quanto diveniente venga mantenuto e abbia consistenza, cioè sia» (ivi, p. 387).

Da ciò consegue che, «la trasformazione del diveniente in ente – la volontà di potenza nella sua forma suprema – è nella sua essenza più profonda, istantaneità, cioè eterno ritorno dell’uguale. […] La volontà di potenza è, nell’essenza e secondo la sua più intima possibilità, eterno ritorno dell’uguale» (ivi, p. 387).

Il superuomo, in questa prospettiva, è colui che va oltre l’uomo tradizionale, perché coglie l’intimo legame della volontà di potenza con l’eterno ritorno, preparandosi ad estendere il potere tecnocentrico nella sua dominazione planetaria. L’übermensch, il prometeico campione della ragione tecnocratica, è il nuovo e incontrastato signore della terra. Il suo è il pensiero della volontà d’organizzazione totale del mondo. Possiamo affermare che l’essenza della tecnica moderna è il costante ritornare di tutte le cose in perenne rotazione. L’übermensch, il superuomo, è la sigla metaforica che designa l’umanità nella nuova era del padronato terrestre.

Zarathustra insegna la dottrina del superuomo nella sua relazione essenziale con la volontà di potenza e l’eterno ritorno, perché storicamente la metafisica pensa l’essere dell’essente in rapporto all’essenza umana. D’altronde, secondo Heidegger, essa è, celatamente, «soggettità» antropocentrica. Così anche l’espressione nietzscheana del «deserto che cresce» è pensata da Heidegger nel suo nesso essenziale con l’epoca del gestell, in cui la ragione non è più specchio della natura, ma rigorosa capacità di programmazione tecnico-industriale. La critica contemporanea ha sovente – nello sforzo di sottrarre l’opera di Nietzsche alla lettura heideggeriana – tentato di contrastare questa interpretazione dell’idea del ritorno, funzionale, in prospettiva ideologica, ad un’apologetica dell’esistente.

In Italia è stato in particolare Gianni Vattimo ad avvicinare il pensiero rammemorante heideggeriano all’idea nietzscheana dell’eterno ritorno, ambedue volti non alla nostalgia delle origini o al culto acritico del passato, ma al radicale oltrepassamento della metafisica. Vattimo si propone una rilettura dell’ontologia heideggeriana alla luce del nichilismo nietzscheano. Il prospettivismo di Nietzsche – che è da Vattimo associato alla constatazione nichilistica della crescita delle sabbie del deserto – conduce alla pluralità dei punti di vista e delle interpretazioni ermeneutiche. Il risultato è che la pluralità prospettica, introdotta da Nietzsche, mette in questione la perentorietà delle teorie assertive, ponendo un limite alla radicalità del pensiero scettico o negativo. Inoltre, sempre per Vattimo, l’«amor fati» che scaturisce dall’accettazione del ritorno di tutte le cose, conduce al superamento di qualunque scansione ritmica prestabilita, di qualsiasi edificazione progettuale del soggetto danzante nel giogo metafisico dell’esistenza. Questa interpretazione ritornerà sovente nel post-strutturalismo francese degli anni settanta. Tuttavia, la lettura proposta da Vattimo non convince del tutto, specialmente nel passo in cui Nietzsche parla del «grande stile» come di un tentativo di dare forma al caos, esprimendo così forse più un bisogno metafisico di ipostatizzare il flusso, che un reale desiderio di liberazione dalle strutture apollinee a favore della leggerezza dell’esistere.

Ritornando all’interpretazione heideggeriana, negli «Holzwege» il nichilismo è interpretato, non come una dottrina filosofica o un movimento storico creato da qualcuno, ma come il movimento fondamentale della storia occidentale, la logica interna in seno al destino dei popoli. Per Nietzsche, il nichilismo significa che i valori supremi si svalutano. L’annuncio della «morte di Dio» non vuole essere una dimostrazione metafisica della sua non esistenza o un wagneriano fantasticare su di un nibelungo crepuscolo mitico. Intende, al contrario, essere preso alla lettera come l’annuncio di un evento: la constatazione che nell’hic et nunc del «deserto che cresce», le idee legate al mondo sovrasensibile, la morale platonico-cristiana, la credenza feticistica nell’immortalità dell’anima e nel trionfo escatologico sull’inferiore mondo sensibile e terreno, perdono la loro validità, si annullano. È ancora possibile – anacronisticamente – credere a questi valori ormai dissolti nel tempo, giacché continuano a persistere come parvenze rilucenti di stelle spente da millenni. Questo nichilismo, dischiuso dall’onestà scientifica, è la verità inerente alla storia secondo la quale tutti i valori finora validi tendono ineluttabilmente a cadere. Si afferma, quindi, la necessità di una nuova posizione dei valori che si ponga come alternativa ai decadenti e anacronistici valori-guida del platonismo-cristianesimo: Nietzsche chiama questa nuova posizione dei valori, «nichilismo attivo», o anche «nichilismo classico». Nietzsche, secondo Heidegger, designa la propria metafisica con questo nome e la concepisce come il contro-movimento che si oppone ad ogni altro finora esistito. Il nichilismo classico diviene liberazione da tutti i valori finora esistenti, in quanto tale è da pensarsi anzitutto come trasvalutazione degli stessi. Un duplice effetto si produce ineluttabilmente: la scomparsa del «posto» dei valori finora validi, e la necessità di una nuova posizione che rinneghi qualunque proiezione ultraterrena e sovrasensibile, nella venale dedizione e fedeltà alla terra. La nuova posizione dei valori non può avere il suo fine altro che nell’ente, in quanto volontà di potenza nel costante auto-superamento del divenire non può più trascendersi in un’escatologica proiezione millenaristica. Deve, viceversa, costantemente ritornare nel vortice del suo potenziamento, avere il suo fine in sé stessa e in nulla altro al di fuori di sé stessa. La nuova posizione di valori quindi non può essere altro che la volontà di potenza finalmente accettata e vissuta come tale in piena consapevolezza:

«l’uomo di fino ad oggi, pur essendo la sua essenza determinata dalla volontà di potenza quale tratto fondamentale di ogni ente, non ha tuttavia ancora riconosciuto e assunto tale volontà di potenza in ciò che essa è […] l’uomo che va al di là dell’uomo attuale assume invece la volontà di potenza come quel tratto fondamentale che essa è, e vuole in tal modo se stesso come volontà di potenza» (M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto» , da Sentieri Interrotti, op. cit., p. 233).

L’uomo moderno è ormai maturo per la consapevolezza feuerbachiana che riconosce i valori non come dati assiologici e metastorici – in questo caso «impotenza di potenza» – ma come antropologica fondazione della volontà di potenza, finalmente smascherata e amata come tale. La metafisica è per Heidegger antropomorfismo dissimulato; la metafisica della volontà di potenza pone l’uomo, come mai prima d’ora, nel ruolo incontrastato di misura unica di tutte le cose. Il superuomo si lascerà alle spalle il deserto crescente del nichilismo passivo, ponendo l’affermazione della sua essenza nella reiterata potenza del progetto tecnocentrico; riappropriandosi della sua essenza rimossa attraverso la disalienante autocoscienza finale del nichilismo classico.

Tuttavia Heidegger respinge il tentativo di superamento del nichilismo passivo, costruito sulla constatazione del processo fondamentale di svalutazione: il nichilismo per Nietzsche significa che i valori supremi si svalutano. Il superamento nietzscheano non solo non supera veramente il nichilismo, ma è esso stesso – secondo Heidegger – nichilismo autentico. Nietzsche pensa il superamento come nuova posizione dei valori, ed in questo senso, per Heidegger, pensa l’ente in quanto ente, mentre gli resta preclusa ogni possibilità di accedere all’essere in quanto essere. La trasvalutazione e la nuova posizione dei valori come volontà di potenza – nella sua correlazione essenziale con l’existentia dell’ente, l’eterno ritorno – non intende legittimare l’ipostasi di una volontas nella sua metafisica regalità, quanto piuttosto la sua disgregazione atomistica in una miriade di centri di potere che determinano prospettivisticamente l’ente come giudizio di valore, ovvero «punto di vista per». L’essere è dissolto e parcellizzato nella osservazione monadica della soggettività, mero punto di vista posto dalla posizione dei valori dei centri di forza: «Alles ist Kraft». L’essere è pensato come valore e quindi progettato partendo dai centri di potere, cioè dagli enti, come una condizione determinata dalla volontà di potenza. Nietzsche tiene quindi saldo il riconoscimento dell’ente in quanto ente, ma al tempo stesso con il «cappio» dell’interpretazione dell’essere come valore, non riesce a pensare l’essere in quanto essere. Ancora una volta, per Heidegger, dell’essere non ne è niente: la metafisica di Nietzsche non è di conseguenza un superamento del nichilismo, ma è un irretimento nella medesima. Il nichilismo attivo di Nietzsche è, di conseguenza, il compimento del nichilismo autentico. Fino a quando l’essenza del nichilismo non sarà pensata partendo dall’oblio dell’essere, il pensiero si troverà sempre preclusa la possibilità di accedere alla sua dimensione autentica, cioè alla storia «nella quale dell’essere stesso non ne è più niente» (M. Heidegger, Nietzsche , op. cit. p. 812). È questo il pensiero rammemorante di cui parla l’ultimo Heidegger, che allude alla possibilità – riservata ad una ristretta cerchia di pensatori – di superare l’erramento della storia della metafisica per svelarne l’essenza (oblio dell’essere) ed iniziare così un tentativo di oltrepassamento della stessa. Per Heidegger, la consapevolezza dell’oblio dell’essere è già il preludio ad un nuovo rapporto dell’uomo con l’essere in quanto ereignis («evento»), anche se questo ormai si dà solo all’interno dell’impianto (gestell). È nell’epoca del gestell, che Heidegger vede la possibilità di un nuovo inizio, che conduce fuori dell’oblio.

Per Heidegger ogni metafisica è in sé teologia, in quanto pensiero sull’ente supremo. La metafisica di Nietzsche sarebbe, secondo Heidegger, una teologia negativa che cerca di cogliere l’assoluto nel modo più puro possibile, prescindendo completamente da qualunque proiezione antropocentrica. Anche il termine «caos» è una nozione negativa che esprime l’impossibilità di deliberare e asserire qualunque cosa sull’ente in quanto ente: una teologia negativa senza il Dio biblico. Per Nietzsche, secondo Heidegger, nella sua concezione dell’eterno ritorno come «Circulus vitiosus Dei», la totalità delle cose che sono (l’essente) diventa mondo a partire da Dio. Ma il Creatore è come trattenuto in un orizzonte di radicale problematicità dalla tragedia del mondo che eternamente ritorna. La visione dell’universo può anche essere il motivo del ritornello di una canzonetta – come nell’oscuro passo «della visione e l’enigma» da parte degli animali di Zarathustra – ma la visione rimane profondamente enigmatica. La fusione estatica nell’istante delle due infinità del tempo passato e futuro è una concezione che eccede la sciaradica semplificazione di una sua riduzione minimalistica all’idea del ritorno. Nel passo suddetto la puntuale lettura heideggeriana ci introduce all’accorto simbolismo metafisico che aleggia con intrinseca pervicacia su ogni figura dello Zarathustra. L’aquila volteggia in larghi cerchi nel cielo: secondo Heidegger è un esplicito richiamo all’anello dell’eterno ritorno, come d’altronde il serpente che è inanellato al suo collo. Essi simboleggiano anche, rispettivamente, l’orgoglio e la prudenza. Il loro andare in ricognizione testimonia la selettiva ricerca del solitario, di colui che ha attraversato i deserti, nella più «solitaria delle solitudini» (ivi, p. 245). Il nano, che sorretto dalle spalle di Zarathustra arriva di fronte alla porta carraia del tempo, é colui che non prende sul serio il pensiero più terribile, che pur scorgendone le potenzialità non riesce a trarne le conseguenze. Anche gli animali di Zarathustra cadono nello stesso atteggiamento, si accovacciano dinanzi al circolo contemplandolo passivamente e descrivendolo con «le immagini più belle». Ma l’eterno ritorno non può essere ridotto a mero ritornello e chiacchiera: Nietzsche ricerca la distanza tra sapere autentico e comprensione superficiale. Il nano e gli animali di Zarathustra esemplificano due particolari atteggiamenti di disimpegno che conducono ad un generale senso di rassegnazione ed impotenza: se tutto ritorna, se tutto è necessario, l’azione e il pensiero sono inutili, anzi impossibili. Nel mondo vi è solo posto per la meditatio mortis. Ma che cosa mai fu e che cosa ritornerà? Ritornerà – questa la risposta di Nietzsche – ciò che sarà fatto nel prossimo attimo. Se in questo momento sono egoista, debole, angosciato tutto ciò ritornerà ineluttabilmente e sarà ciò che già fu. Ma se nel prossimo attimo, «e così di ogni altro, tu farai un attimo supremo e ne registrerai e fisserai le conseguenze, esse ritorneranno e saranno ciò che già fu […] ma questa viene decisa nei tuoi attimi e soltanto lì ed in base a ciò che tu stesso ritieni dell’ente e a come ti tieni in esso; in base a ciò che tu vuoi e puoi volere da te stesso» (ivi, p. 332).

Questa è la metafisica di Zarathustra, traslata in una metafora esistenzialistica dell’idea dell’eterno ritorno che dissimula la vera interpretazione sull’existentia dell’ente, il «come è». Nel prosieguo de «La visione e l’enigma», un «greve serpente nero» – antitetico rispetto al serpente di Zarathustra – attacca un giovane pastore addormentato strisciandogli in bocca, simboleggiando così il nulla tetro e disperato del nichilismo che sorprende chi non è all’erta (Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zaratrustra , op. cit., p.193). Zarathustra grida al giovane di staccare la testa del rettile con un morso. Il nichilismo non può essere superato con un attacco esterno, sostituendo semplicemente altri valori al posto dei vecchi. Nemmeno Zarathustra può aiutare il giovane pastore afferrando la coda del serpente: solo decapitandolo nella sua bocca, l’aggredito avrà salva la vita. Il nichilismo può essere superato soltanto mediante un attacco che comincia dalle fondamenta, dalla testa. In questo contesto, secondo Heidegger, il morso che oltrepassa il nichilismo partendo dal suo fondamento stesso è l’eterno ritorno. Zarathustra, il maestro dell’eterno ritorno, non pensa veramente, fintantoché il serpente non ha attaccato il giovane pastore e questi non si è difeso, decapitandolo con il morso. Anche l’esaltazione nietzscheana del dionisiaco è vista da Heidegger – differenziandosi, in questo, dai poststrutturalisti francesi che intravedono nel dionisiaco l’energia che provoca il superamento e la ribellione al potere consolidato – come sostanzializzazione del divenire e ricerca della forma come espressione di potere e culto «cesareo» della stabilità. L’arte sana, contrapposizione «vitale» a quella romantica – che ha la sua manifestazione paradigmatica nel dramma wagneriano, espressione diretta del nichilismo come conseguenza di un generale sentimento di insoddisfazione per l’esistenza che genera ressentiment e spirito di vendetta – è quella che Nietzsche chiama il «grande stile» e che l’esegesi heideggeriana identifica con lo stile severo, classico. L’ebbrezza dionisiaca è per Nietzsche, secondo Heidegger, la più chiara vittoria della forma. L’ebbrezza non è l’esaltazione del caos ribellistico, foriero di disordine sociale utile alla destrutturazione del campo sapere-potere, né l’enfatico dissolvimento nel dionisiaco, funzionale ad una rinascita della cultura tragica, propugnata da Wagner. L’ebbrezza è una forza creatrice di forme:

«dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma: a diventare logico, semplice, univoco, matematica, legge: è questa qui, la grande ambizione» (Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi, op. cit. p. 37).

Il «grande stile» è il progetto in cui la volontà di potenza pone aprioristicamente le cose che sottostanno alla sua incontrastata giurisdizione, nell’orizzonte in cui si determina l’«allevamento» delle nuove razze umane che dominano l’ente, emancipandosi da teleologismi ultramondani. Il «grande stile» è il dispiegamento antropocentrico del dominio terrestre. Anche il famoso proclama nietzscheano che inneggia trionfale al «vivere pericolosamente» è, secondo Heidegger, un ulteriore incitamento perché il superuomo riconosca la sua essenza nella volontà di potenza ed attraversi con passo sicuro e impavido – senza guardarsi indietro – le insidie della notte, lasciandosi deserti in crescita dietro alle spalle. Si ricerca un’equivalente distanza tanto dall’omologazione totalizzante determinata dalla rigida uniformità della legge, quanto dalla dispersione contaminante del caos in cui rischia di disintegrarsi il corpus sociale e psichico del soggetto: caos e legge sono sottoposti, ora, ad un giogo, il cui disporre è simmetricamente distante tanto da un irrigidimento formale di tipo pedante, quanto pure dall’estatico delirare nella trance dionisiaca. La volontà di potenza realizza la sua forma più perfetta nella volontà creatrice dell’artista non romantico, precludendosi perpetuamente allo sguardo decadentemente oppiaceo del sognatore bayreuthiano. La creativa «salute» dionisiaca, tipica di chi si è lasciato deserti alle spalle, è funzionale alla velata trasposizione simbolica della concezione energetistica della realtà. La battaglia incessante dei centri di potere fra loro, esprime non tanto il carattere cruento della lotta, quanto l’artistico gioco ermeneutico in cui ciascun centro interpreta il tutto partendo dalla sua posizione prospettica:

«il mondo è divenuto ancora una volta infinito, in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che racchiuda in sé infinite interpretazioni» (Cfr. F. Nietzsche, La Gaia Scienza, Adelphi, Milano, 1991, p. 298) «il mondo non ha un senso dietro di sé, ma innumerevoli sensi» (Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi, op. cit. Vol. VIII p. 300).

Volontà d’artista, appunto. Anche nel tema biblico dell’«attraversare i deserti» si può cogliere una non riuscita emancipazione del pensiero nietzscheano, secondo Heidegger, dalle «sabbie» del platonismo-cristianianesimo, che puntualmente si ripresenta emblematica, nella ambigua riaffermazione dell’ideale ascetico, della «volontà di deserto», di colui che fuoriesce dal «gregge», lo «spirito libero». Può essere che Nietzsche, figlio di un pastore protestante, non sia mai riuscito ad emanciparsi dalla spiritualità cristiana. Nei suoi testi vi sono costanti richiami all’ascesi, che rinviano, involontariamente, non solo al cristianesimo, ma anche al buddhismo. Del resto alcuni teologi, tra i quali proprio Overbeck, pensavano che il crollo di Nietzsche fosse dovuto al mancato superamento del cristianesimo e alla volontà di incontrare di nuovo Dio. Forse l’eterno ritorno esprime proprio questo desiderio di trascendenza e serve a compensare «la morte di Dio». Comunque, l’ascetismo di Nietzsche, nella Genealogia della morale, è un espediente volto all’accumulazione dell’energia e del potere, in vista della trasvalutazione di tutti i valori. La dissoluzione dell’identità è perseguita solo nella prospettiva di una radicale e superiore rifondazione, che si strutturi su un terreno radicalmente diverso da quello ormai consunto del platonismo-cristianesimo. Così Nietzsche paragona la danza alla marcia del soldato, risultato di lunghi ed estenuanti esercizi; così la «lezione di forza» non è l’atto dell’immediatezza affermatrice ma ricerca di persistenza:

«danzare in catene, fare le cose difficili e poi stendervi sopra l’illusione della facilità» (Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo Umano II, Adelphi, Milano, 1994 p.131).

Ancora una volta per Nietzsche si tratta di dare forma al caos: questa è l’essenza del grande stile. In questa prospettiva, la parola «giustizia» indica l’essenza della verità, il modo in cui essa si dà nell’era del compimento della metafisica. La «giustizia» è l’essenza della verità dell’ente pensato come volontà di potenza. L’übermensch è la prospettiva di un pensiero post-umano ormai maturo per vivere la giustizia come volontà di potenza e non come attesa millenaristica. D’altronde, per Nietzsche, l’arte – che è una forma della volontà di potenza – è il contro-movimento esemplare del nichilismo, cioè dei valori deprezzati del platonismo-cristianesimo. Si ricordi la condanna platonica dell’arte come manifestazione del mondo sensibile, copia sbiadita di quello «vero», cioè il sovra-sensibile mondo delle idee o essenze. La filosofia di Nietzsche, secondo Heidegger, è un costante rovesciamento: rovesciare il platonismo significa rovesciare la gerarchia metafisica dei valori, portare in basso il mondo «vero» sovra-sensibile, e innalzare il mondo sensibile. Ora il mondo sensibile diventa l’ente vero e proprio, la verità, mentre il sovra-sensibile si dissolve nella perdita del vertice gerarchico. In conformità all’assiologia platonica dei valori- ripresa e perfezionata più tardi dal cristianesimo – le forme somme del mondo sovra-sensibile sono sempre state la religione, la morale, la filosofia, mentre il sensibile ha la sua rappresentazione nell’arte: «la nostra religione, morale, filosofia, sono forme di decadenza dell’uomo; il contromovimento: l’arte». (Cfr. F. Nietzsche, Frammenti Postumi, op. cit. p. 56).

In questa prospettiva l’arte diventa l’assenso al sensibile, alla parvenza, a quello che non è il «vero mondo» del platonismo, cioè che non è la «verità». La «verità» è qui la volontà del «mondo vero», nel senso di Platone e del cristianesimo, il soprasensibile, l’ente in sé. L’arte è la volontà della parvenza, ossia del sensibile. Dato che questo mondo è il mondo reale e l’unico vero mondo, Nietzsche può concludere che «l’arte vale più della verità» (ivi).

La verità platonica è concepita da Nietzsche come un tenere-per-vero, come mera fissazione del caos e di ciò che diviene, quindi rinnegamento di ciò che fluisce e scorre: fissazione che restando conchiusa al mondo apparente (che per Nietzsche è il platonismo, in quanto fissazione del caos) si esclude dall’accordo con l’autentica realtà di ciò che diviene. L’arte, viceversa, «in quanto trasfigurazione apre possibilità, lascia libero il diveniente nel divenire e si muove così nel mondo “vero”». (Cfr. M. Heidegger, Nietzsche , op. cit. p. 507).

Il mondo «vero» ora è ciò che diviene, il mondo apparente ciò che è fisso e stabile. Il rovesciamento del platonismo è riaffermato nell’antitesi di verità e arte, che non è però semplice contrapposizione. Nietzsche può affermare che «la verità è una specie di errore», in quanto tenere-per-vero, mera fissazione del flusso del divenire. L’errore è però, in questo, scarto parziale rispetto all’essenza della verità del divenire, e in quanto iato irriducibile è accordo con la verità. La verità ha quindi, per Nietzsche, un’essenza bifronte: la verità come errore e fissazione del caos nell’ente, e la verità come accordo con ciò che diviene. Si determina, quindi, un duplice significato. Da un lato la verità-errore che fissa l’ente, dall’altro la verità-accordo con il divenire. Tuttavia, l’accordo con il divenire che si realizza nell’arte è una parvenza, dapprima come illusione di non potere mai tenere-per-vero il divenire nell’opera, successivamente con la constatazione dell’apparire di nuove possibilità che la parvenza rende possibile in quanto parvenza. Come la verità-errore rimanda alla verità-accordo, così la parvenza-possibilità rimanda alla parvenza-illusione. La verità come errore rimane comunque un valore necessario, così come è «utile» il principio di non-contraddizione della forma mentis collettiva, pronto a dissolversi in caso di mutate condizioni biologiche. Il primato spetta comunque all’arte-parvenza che è apertura di nuove possibilità-illusioni (riconosciute come tali e quindi sintomo di salute) rispetto al caos del divenire. Ma la filosofia di Nietzsche non è solo un rovesciamento del platonismo. La critica della contemporaneità coinvolge anche Darwin: la vita non è soltanto impulso all’auto-conservazione, come asseriva Darwin, ma è auto-affermazione, brama di potere. Nello stesso tempo, quindi, Nietzsche conserva e rovescia il darwinismo. Lo conserva perché come Darwin pone il fine del vivente non estrinsecamente in un telos millenaristico, ma nella lotta per la sopravvivenza. Lo supera perché ogni cosa non vuole solo conservarsi, ma diventare più forte, più potente. Un altro luogo comune da sfatare è individuato da Heidegger, nell’interpretazione ricorrente che avvicina, quando addirittura non risolve integralmente, la filosofia di Nietzsche in quella di Eraclito. Ma l’«eraclitismo» di Nietzsche, secondo Heidegger, è solo apparente: non è la ri-affermazione moderna dell’ineluttabilità del divenire, ma «la redenzione dal flusso perenne». Questa redenzione non è neanche una restaurazione ipostatica di una «ben rotonda verità» relativa ad un qualsiasi Uno parmenideo, ma la liberazione dall’effimero «e così via». Il controllo non totalitaristico ed irrigidente del divenire mediante la sua spazializzazione, per opera dell’essere. Secondo Heidegger, l’eterno ritorno nietzscheano, porta ad una forma di controllo «morbida» dell’essere sul divenire, in quanto imprigionamento del flusso nel circolo perenne. Nietzsche con questo stratagemma non ha neppure bisogno di annullare totalmente il divenire nell’essere, in quanto il cerchio dell’eterno ritorno lascia sussistere il flusso del tempo, ma si limita a depotenziarlo, eliminando la sua irreversibilità, il suo «e così sia».

Anche nei confronti di Schopenhauer, la filosofia di Nietzsche si pone come rovesciamento. L’arte è, per Nietzsche, il grande eccitante della vita: niente di più contrapposto e distante della concezione quietistica dell’arte come liberazione dal Wille schopenhaueriano, la tirannica e ciclopica volontà di vivere. Ma è soprattutto nei confronti dell’integrale trasvalutazione dei valori intelligibili del platonismo che l’arte si afferma – in antitesi radicale al sobrio comando dell’auriga dell’anima razionale – come espressione del corpo. La trasvalutazione in quanto affermazione del sensibile, ha il suo veicolo privilegiato nel corpo: secondo Heidegger non come liberazione dionisiaca (ed è questo uno dei punti di maggior contrasto con i «nietzscheani»), ma come persistente e paziente modellamento plasmante. Heidegger all’interno della storia lineare della metafisica dell’oblio, si sofferma a confrontare la posizione di Descartes con quella nietzscheana. Descartes è una figura fondamentale nella progressiva rivelazione, in quanto venire alla luce, della determinazione essenziale della proiezione antropocentrica della soggettità, l’impulso di dominio della terra. Per Descartes, la verità si configura come certezza in quanto rappresentazione dell’uomo che pone il fondamento di essa nel subjectum, ovvero nella indubitabilità del Cogito. Nella rappresentazione del rappresentante, cioè del subjectum, è posto il fondamento di Descartes. Nietzsche, alla ricerca di una decostruzione dell’io dell’ultimo uomo che possa agire da ponte per il superuomo, ritiene che, viceversa, il soggetto e la coscienza siano postulati dell’attività del pensiero. La posizione metafisica cartesiana è assunta da Nietzsche a condizione di una sua reinterpretazione psicologistica, che operi una radicale traslazione della «volontà di verità» nel disgregante prospettivismo dei centri di potere perennemente in lotta fra loro. La dimensione umana è per Descartes contrassegnata dalla certezza dell’egoità ottenuta attraverso il Cogito e la garanzia di un Dio che non inganna. Per Nietzsche, viceversa, l’io è un centro solo a partire dagli istinti, dalle passioni e pulsioni ataviche: dal «rimosso» in termini freudiani. L’identità è fondata soltanto attraverso l’«autocoscienza» della radicale frantumazione ontologica: l’io è solo un rapporto di forze. Soltanto in quanto è già da principio, niente più che una finzione, un «fascio di differenze». La nuova umanità deve saper domare il caos interiore – prodotto dal nichilismo, che le menzogne del platonismo-cristianesimo genera – plasmando dal disordine nuove forme di potenza, in corrispondenza con l’avvento dell’era della pianificazione totale della terra. Heidegger ci mostra come ad ogni epoca della metafisica occidentale si correla una corrispondente nuova determinazione dell’essenza umana. La storia della metafisica non ammette la pluralità. Essa si concede, dis-velandosi nella sua erranza che nel darsi si ritrae, solo per un singolo pensatore. I comuni mortali di pensieri ne hanno tanti. Il pensatore è l’eletto, «il pastore dell’essere» , colui che pensa un pensiero solo. Negli ultimi anni della sua vita Heidegger confidava spesso a suo figlio di avere l’impressione che il pensiero parlasse attraverso di lui. Se la metafisica occidentale ha privilegiato, nel suo fraintendimento, la dimensione visiva, la capacità di mettersi all’ascolto dell’essere è il veicolo sensitivo essenziale per un pensiero che si proclama ultrametafisico. L’ultimo Heidegger è stato spesso, a ragione, accusato di misticismo. Il pensiero per Heidegger – che sentenzia «la morte della filosofia» – deve avvicinarsi non alla scienza, ma alla poesia. È nella poesia di Hölderlin in particolare, che Heidegger cerca le tracce del cammino che dovrà percorrere il pensatore che si assumerà la responsabilità dell’eredità del pensiero. Senza, tuttavia, azzerare la differenza fra il pensiero e la poesia, come mostra questo passo, che cito in chiusura del mio articolo: «il poeta nomina il sacro, il pensatore dice l’essere» (Cfr. M. Heidegger Il detto di Anassimandro, Sentieri Interrotti, op. cit. p. 347).

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Bibliografia Essenziale

F. Nietzsche, Opere, edizione italiana diretta da G.Colli e M.Moninari, Adelphi, Milano 1964; Lettere, edizione italiana diretta da G.Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1976.

M. Montinari, Nietzsche, Editori Riuniti, Roma, 1996.

M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1995.

M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, sugarco Edizioni, Milano, 1988.

M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1996.