Pierre Klossowski – fratello maggiore del celebre pittore Balthus – è da sempre una delle figure più sfuggenti e suggestive della cultura francese degli anni ‘60 e ‘70. L’opera di Klossowski si sottrae a qualsiasi inquadramento disciplinare e – ancora di più che per quella di Foucault – si potrebbe usare, per classificarla, la definizione jamensoniana di «teoria». Klossowski si è occupato di letteratura, di filosofia, e di pittura; la sua lettura nietzscheana risente delle pulsioni ateologiche di Bataille, scevra però della tensione esistenzialistica che permea il pensiero di quest’ultimo.
Le sue teorie influenzarono in particolar modo Deleuze e Foucault: si deve a Klossowski, l’introduzione nella cultura francese della nozione, elaborata proprio da Nietzsche, di «simulacro» come finzione. Nietzsche fin dai tempi di Umano, troppo umano , asseriva che la conoscenza è priva di verità, in quanto ogni forma di rappresentazione non è altro che una necessaria falsificazione del flusso di forze. Per Nietzsche la rappresentazione è solo una simulazione della realtà e questa è l’unica conoscenza concessaci. Per Klossowski nel simulacro viene a compimento la sostituzione delle norme e dei parametri – tipici della modernità e della metafisica – con la simulazione caratteristica dell’assenza di fondamento dell’era postmoderna. Per Klossowski non esiste più l’esperienza reale, quest’ultima si dissolve in un mondo virtuale di falsi, di simulacri, che cancellano l’istanza metafisica della presenza. Klossowski si occupa del pensiero di Nietzsche principalmente nel suo Nietzsche e il circolo vizioso [1]. Con il pathos tipico dei pensatori francesi, Klossowski si preoccupa soprattutto di completare la denazificazione di Nietzsche e di rovesciare la lettura fatta da Lukàcs, così, con un gesto grandioso, opera la subordinazione della volontà di potenza e del superuomo, all’eterno ritorno. La vera idea cardine del pensiero nietzscheano è – per Klossowski, come il poststrutturalismo – l’eterno ritorno. La volontà di potenza e il superuomo devono essere letti all’interno della tematica fondamentale dell’eterno ritorno e hanno comunque minore importanza che per Heidegger. Per Klossowski, l’idea centrale di Nietzsche deve essere connessa con la tematica fondamentale della malattia e della debilitazione mentale, che raggiungono il culmine negli atti allucinati sulle piazze di Torino. I «biglietti della pazzia» non sono il segno di una demenza ormai manifesta, ma il vero punto di partenza del pensiero nietzscheano. L’euforia di Torino non sarebbe dunque la dissoluzione del pensiero del filosofo tedesco, ma, viceversa, il suo inveramento che getta una luce retrospettiva su tutto il corso della sua opera, e – soprattutto – sulla sua vita. L’apoteosi dell’intelletto nietzscheano, è per Klossowski, raggiunto nelle «sceneggiate» sulle piazze di Torino. Questo non nel senso che, secondo l’ipotesi di Nordau, Nietzsche non sarebbe mai stato sano e quindi la sua opera è frutto, fin dalle opere giovanili, della demenza latente che ne ha sconvolto la mente. Per Klossowski la follia di Nietzsche è fondamentale nell’evoluzione storica del pensiero europeo, perché porta a compimento il principio di realtà e il suo referente esistenziale, il principio d’identità. Questa duplice dissoluzione operata da Nietzsche rende possibile l’inizio della parodia, la fine della tragedia e l’inizio della vita come gioco, dove la leggerezza ludica può completare l’oltrepassamento della metafisica. Per questo Klossowski richiama l’attenzione sulla sostituzione nietzscheana della dicotomia «vero-falso» con quella di «malato-sano». Klossowski rileva che per Nietzsche la salute e la forza sono il risultato di stati patologici preliminari, in cui la malattia può essere foriera dell’energia, dunque del wille zur macht («volontà di potenza»), inteso come «volontà-di-fare». In effetti, tutta la storia della psichiatria insegna che il confine che divide follia e genialità è molto sottile. La follia come capacità di oltrepassare i margini del pensiero logico-deduttivo, fondamento del nostro essere sociale, deve necessariamente essere creativa, a condizione però che conservi dei barlumi di lucidità. Ma per Klossowski non si tratta neanche di porre l’accento sulla creatività della pazzia lucida, quanto di mostrare come nel delirio di Nietzsche venga a compimento la dissoluzione dell’identità e si apra lo spazio al gioco del simulacro. Il pensiero di Nietzsche, insomma, sempre secondo il pensatore francese, opera la sostituzione del reale con il surreale. Operare in questo modo la dissoluzione del principio di realtà-identità, significa però tramare contro l’esistenza, e, infatti, da subito il pensiero di Nietzsche prende la forma del complotto. Non si tratta tanto di rovesciare il sociale seguendo istanze rivoluzionarie, quanto di rendere palese che l’idea dell’eterno ritorno – il vero caposaldo del pensiero di Nietzsche – dissolve la stessa identità di chi pensa, aprendo così lo spazio all’autoaffermazione dello stato psicopatologico della «molteplicità» come vero reale. Se l’identità è radicata nel vissuto ed è articolata sulla durata lineare dell’esistenza, il ritorno del passato nel futuro, sradica dalla memoria, essendo questa diventata eventualità avvenire e non più vissuto. Se il mio Io è tale proprio perché ho vissuto il mio passato, il mio “viaggio” neoplatonico attraverso l’arco della vita, se questo passato viene a mancare e si riproietta come futuro av-venire, allora la mia identità ha perduto il suo supporto. Non vi è Io senza memoria. Ecco perché l’eterno ritorno dissolve l’identità, e con essa anche il freudiano principio di realtà. Il complotto di Nietzsche non è contro il «gregge», i filistei, o il cristianesimo, ma – inconsciamente, senza che lui stesso lo sappia – contro il mondo quale noi stessi lo viviamo, retto dal principio d’identità e di realtà. Anche la lotta che Nietzsche è convinto di intraprendere contro la cultura, nasconde, sempre secondo Klossowski, quella che è l’obiettivo inconscio del filosofo tedesco: l’analisi del dispiegamento delle forze sublimali che attraversano il corpo. Il rapporto dialettico hegeliano «servo/padrone» deve essere in Nietzsche riportato alla strutturazione di una cultura degli affetti, ovvero delle forze. Non vi è alcuna proiezione sociale in Nietzsche, neanche quando parla del wagnerismo o ironizza sui tedeschi. La sua kulturkritik è solo sovrastrutturale e sublimatoria riguardo al vero interesse per il comportamento delle forze che determinano l’individuo, che è servo o signore secondo la natura degli affetti che lo «abitano». Nel periodo di maggior sofferenza della vita di Nietzsche – quello che precede il ritiro definitivo dall’attività didattica a Basilea – il pensatore tedesco, sempre secondo Klossowski, assimila al dolore l’atto del pensare. Le sofferenze più atroci sono l’espressione psicosomatica di un linguaggio subcosciente che emerge dal rimosso, eludendo la sorveglianza del Super-Io. Nietzsche stesso è ben cosciente di questo, sempre secondo Klossowski, ed è puntuale nell’effettuare un tentativo di trasformare il dolore in energia, per effettuarne la decifrazione corrispondente. Il corpo, in fondo, è solo un codice di segni che viene costantemente contraffatto dalla ragione. Il corpo è un rapporto fortuito di forze, che si scontrano, s’incontrano, si eludono, fino a costituire l’equilibrio precario della coscienza. Klossowski ha ben assimilato la psicoanalisi, e ci ricorda che, secondo la ben nota metafora freudiana, la vita cosciente è solo la punta dell’iceberg. Il pensatore francese applica le sue conoscenze psicoanalitiche alla lettura del pensiero di Nietzsche e ci rivela che le pratiche genealogiche del filosofo tedesco hanno la loro origine nel corpo. Sono la trasposizione simbolica della ricerca dell’equilibrio precario delle compulsioni del corpo, che Nietzsche disperatamente effettua per arrivare a svelare l’enigma dell’origine del proprio essere lacerato. La convalescenza non è altro che il preludio ad altre ricadute, che sono articolazioni del modo in cui l’inconscio – o meglio, l’Altro – cerca di comunicare la sua essenza, il suo daimon hillmaniano. Il pensiero cosciente, per Klossowski, si dissolve interamente nel caos: «Gli altri, il prossimo, non sono che proiezioni del Sé attraverso le inversioni dello spirito […] Il Sé infine è nel corpo soltanto come un’estremità prolungata del Caos» [2]. La dissoluzione della coscienza in favore del caos, è però, in Klossowski, volta alla ricerca di un intelletto alternativo a quello cosciente, piuttosto che ad una totale apertura al nulla. Apparentemente Klossowski sembra più influenzato dalle teorie junghiane sul «principio d’individuazione» del Sé, come equilibrio-scontro tra io ed inconscio, che a quelle lacaniane dell’ascolto dell’Es. Tuttavia per Klossowski non vi è una reale dicotomia conscio-inconscio, ma soltanto dei flussi d’intensità che provocano nel soggetto una periodica alternanza tra silenzio e loquacità. La coscienza – che Klossowski chiama supporto – possiede l’atto del pensare solo in virtù delle fluttuazioni di resistenza delle compulsioni che attraversano l’io, in rapporto al codice dei segni. La stato di veglia della coscienza dipende dalle relazioni di scambio tra compulsioni e segni del codice quotidiano. La pulsione agisce sui segni del codice, che possiedono, a loro volta, una certa carica d’energia pulsionale. Quest’ultima è soggetta a delle fluttuazioni quando i segni cercano di articolarsi nel pensiero: se si esaurisce la pulsione primaria che costituisce lo stimolo iniziale, essa si annulla totalmente nell’inerzia dei segni. Questo sarebbe, secondo Klossowski, la coscienza. Viceversa l’inconscio è prodotto dalle pulsioni che eccedono la fissità dei segni e si proiettano oltre i loro momenti di stasi, quando questi non sono impegnati a strutturare il pensiero. Si viene così a determinare, secondo Klossowski, uno stato paradossale del soggetto che pensa, nel quale, non solo non vi è correlazione tra pensato e formazione dell’atto del pensare, ma tale atto deve restare necessariamente occultato a qualsiasi introspezione. Klossowski, quindi, annulla le distinzioni Io-Es, dentro-fuori: il soggetto è solo il risultato di una progressione di stati discontinui in relazione al codice dei segni istituzionale. Il linguaggio, ma anche il pensiero, è solo un tentativo di ipostatizzare il flusso. Nietzsche, secondo Klossowski, è colui che ha scoperto che il linguaggio è essenzialmente finzione, un tentativo iniquo di immobilizzare il caos: per questo quando si serve dei concetti della ragione dianoetica è ben conscio della loro arbitrarietà e del loro carattere convenzionale. D’altronde per Nietzsche, sempre secondo Klossowski, il codice semiotico è solo una riduzione dei movimenti compulsivi del corpo. La stessa volontà di potenza nietzscheana, per Klossowski, non è altro che un impulso dello stesso ordine del mondo inorganico, quindi impersonale e puramente energetico. Il wille zur macht deve essere pensato come un’energia che non-può-non-crescere, lo stesso Nietzsche ha rifiutato il linguaggio come impostura ed ipostasi del flusso energetico ed irrazionale. Definire una direzione per l’energia – ogni crescita è pur sempre un moto verso qualcosa – significa ricadere all’interno dell’illusione discorsiva, cercare ancora una volta di catturare il flusso, restare nell’abbaglio. Il volere qualcosa è conseguenza dell’irrompere di uno stato d’eccitazione nel supporto: non è frutto di una scelta della coscienza umanistica, ma è una reazione meccanica e passiva ad uno stimolo esterno. Cade quindi al di fuori del soggetto morale. Nella chimica del corpo, secondo Klossowski, come risposta ad una stimolazione, i segni operano sulle compulsioni sospendendole, ma solo temporaneamente. Questo stato provvisorio è per Nietzsche, secondo Klossowski, il volere: «Ora per il supporto, ignorare la lotta da cui ha origine il suo pensiero è una condizione di esistenza: il “soggetto” non è affatto un’unità vivente, ma “la lotta impulsionale che vuole conservarsi”»[3]. Lo scopo di Nietzsche è di ricostruire genealogicamente l’evolversi delle forze inconsce del corpo, anche se queste non possono essere orientate verso un fine, né possono provenire da un’origine. Il suo obiettivo, per Klossowski, è di strutturare una nuova semiotica delle compulsioni. La volontà di potenza non è quindi altro che un tentativo, riuscito solo parzialmente, di definire, nominandola, l’essenza del cerchio dell’eterno ritorno. Si tratta di una proiezione antropologica – e questo proprio perché è ancora legata al vecchio umanesimo della volontà – di qualcosa che non è ancora del tutto definito nel pensiero di Nietzsche. La nozione di volontà di potenza, che anticipa la scoperta nell’estate del 1881 a Sils-Maria dell’eterno ritorno, è solo una prima imperfetta “messa a fuoco” dell’idea capitale di Nietzsche. La sua proiezione energetistica connessa con l’anima del circolo deve solo assicurare il dispiegamento delle molteplici identità possibili, che come vedremo, è il risultato dell’inabissamento dell’io all’interno del cerchio eterno. La volontà di potenza non è quindi un’affermazione solipsistica, ma una dissoluzione verso la pluralità, verso l’altro, la differenza. La potenza non è potere, ma energia che conduce, inesorabilmente, all’autodisintegrazione dell’io, all’interno del circolo. L’esercizio della volontà di potenza, nella versione klossowskiana, è un dissiparsi, non un concentrarsi. Un decostruire l’io, non un rafforzarlo: è un moto centrifugo ed eccentrico verso i molteplici doppi che abitano in noi. La volontà di potenza deve essere connessa con l’eterno ritorno, perché questo è un vortice che – sradicando l’Io dai suoi vissuti – ne dissolve la memoria nell’oblio dell’identità personale, che appare ora senza storia. L’eterno ritorno deve, per Klossowski, rendere possibile tutte le altre identità possibili, perché il ritorno del vissuto può innestare l’attuarsi delle possibilità che il soggetto non ha ancora scelto, e quindi condurre ad esiti diversi. Ma nel circolo la perdita dell’identità personale non è permanente, anzi: il soggetto può riavere il suo io attuale, solo percorrendo tutta la serie degli altri io possibili. La consapevolezza dell’eterno ritorno porta alla necessità di ripercorrere tutto il vissuto, e quindi a vivere altre identità ed altre vite, proprio come condizione necessaria alla restaurazione dell’io attuale. Secondo Klossowski, il soggetto una volta resosi conto dell’ineluttabilità del circolo, sa che la sua identità sarà presto sottratta dal vortice del tempo; ma sa anche che se accetta di liberarsi di essa, dopo che il cerchio sarà chiuso, la riavrà indietro. Ma secondo Klossowski, vi è una condizione a questo ritorno a sé, ed è quella dell’oblio. Solo dimenticando l’attimo in cui ha scoperto la legge dell’eterno ritorno, il soggetto fuoriesce dal suo io e si avvia, nel circolo, all’incontro con i suoi doppi. Se non dimentico l’eterno ritorno, m’incammino nel viaggio verso gli altri me stesso ricordandomi sempre che, comunque, a percorso esaurito, riavrò indietro il mio io, e questo ricordo di com’ero prima d’essere altro, costituisce un residuo, quasi un prolungamento al di fuori di me, della mia identità. Si riaffermerebbe così un io – quello che ha scoperto l’eterno ritorno – che sarebbe più autentico degli altri. Ma l’oblio livella tutti gli io possibili e rende possibile il circolo. Per riavere al più presto indietro il mio io, mi devo abbandonare all’oblio: è forse questa, per Klossowski, la decisione che Nietzsche vedeva connessa all’eterno ritorno. Il significato del circolo è nella sua intensità, nella sua stessa esistenza. Il significato è che non vi è nessun significato, il senso è nel non-senso. «Il Circulus vitiosus deus […] non asserisce […] che l’essenza vera delle cose è un’affabulazione dell’essere che si rappresenta le cose, e che senza di essa non potrebbe rappresentarsi nulla?» [4]. Nietzsche, secondo Klossowski, è colui che rovescia la sentenza parmenidea ed infrangendo il principio di realtà, fa apparire irreale tutto ciò che può essere pensato. Niente non avviene per caso: anche la scoperta dell’eterno ritorno avviene fortuitamente, o meglio nell’istante incantato in cui il caso e la necessità s’incrociano sotto lo scudo del fatum. Per Klossowski, ogni punto del circolo racchiude in sé il suo principio e la sua fine: è bandita dal giro eterno qualsiasi tensione escatologica. Si capisce come la Volontas del wille zur macht si annulli nell’eterno ritorno, perché se l’identità scompare nel circolo, anche la volontà non ha più il suo io anelante. La volontà di potenza, privata del suo supporto antropocentrico, diventa soltanto un mero impulso primordiale, puramente fisiologico. Secondo Klossowski, con la scoperta da parte di Nietzsche dell’eterno ritorno è venuto meno anche il concetto di volontà: forse essa può sussistere solo come mero anelito all’auto-disintegrazione dell’io nel circolo. In un secondo tempo Klossowski afferma che se la potenza, non più prometeica, può essere pensata solo come un impulso che provoca una serie di rotture nell’equilibrio dell’identità, allora l’eterno ritorno può essere interpretato come una metafora del wille zur macht. Quello che importa veramente al pensatore francese, non è tanto annullare la volontà di potenza, quanto piuttosto privarla del suo substrato umanistico, «germanico»: ridurre il wille zur macht, all’energia. «Questa volontà doveva avere come unico oggetto la potenza, energia priva di qualsiasi senso e scopo. L’energia non sopporta nessun equilibrio perché il movimento del Circolo che la designa glielo impedisce» [5]. La mancanza di senso del circolo vizioso, riduce la stessa potenza all’insignificanza. In questa prospettiva, l’annuncio nietzscheano della morte di Dio, non è l’annuncio della crescita delle sabbie del nichilismo, ma un’allegoria dal duplice significato correlato. Da una parte simboleggia la morte del principio d’identità, dell’io, essendo Dio soltanto una feuerbachiana proiezione antropocentrica. Ma, sempre per Klossowski, l’annuncio della morte di Dio. indica anche la rottura del punto massimo di equilibrio che il nome «Dio», sembra racchiudere. Sotto il nome di «Dio» si nasconde un momento d’inerzia nell’equilibrio ipostatico delle forze, che la potenza dell’energia può ribaltare rapidamente. Infatti, nessun equilibrio nell’economia delle forze, può essere mantenuto in modo stabile all’interno del flusso del caos. L’energia oltrepassa sempre lo scopo, perché il solo scopo e il solo fine è il girare tautologico del circolo dell’eterno ritorno. Ecco perché l’identità personale non può non essere concatenata da un numero finito di doppi all’interno del circolo. Se le individualità possibili all’interno dell’eterno ritorno fossero infinite, il movimento energetico sarebbe illimitato, ma il movimento circolare del ritorno implica che esse siano finite, pena l’impossibilità di conchiudere il cerchio. Klossowski riesce anche a decifrare perfettamente la tensione dell’ultimo Nietzsche di Ecce homo, che si esprime nell’ormai celebre ed enigmatica ingiunzione del «diventare ciò che si è». All’interno dell’eterno ritorno nietzscheano, si può voler «diventare ciò che si è», solo attraverso la consapevolezza – subito obliata secondo il meccanismo che abbiamo esaminato sopra – della necessità di dover percorrere una serie di individualità differenti, per ritornare infine all’io attuale, che ha scoperto il circolo e l’ha subito dimenticato, insieme a se stesso. Sotto questo profilo per Klossowski, l’idea nietzscheana del superuomo è irrilevante, non è nient’altro che un simulacro di dottrina. Il problema è che per Klossowski, Nietzsche non sempre è lucido nel mettere a fuoco il pensiero, anzi non lo è quasi mai. Il filosofo tedesco si muove sotto l’effetto di compulsioni inconsce che gli fanno elaborare teorie, che rappresentano altrettanti spostamenti, sublimazioni, proiezioni, delle tensioni originarie. Nietzsche è convinto sul piano conscio di stare attuando la progettazione di un complotto contro la cultura del tempo, i filistei, il gregge. Ma in realtà le sue pulsioni lo stanno conducendo non verso il superamento del nichilismo passivo, ma verso la disintegrazione del suo io, nel delirio del circolo eterno. Ecco che il superuomo, viene elaborato da Nietzsche solo nel momento della rimozione, quando è convinto della necessità di uno scopo, di un oltrepassamento della morale platonico-cristiana, e non si rende conto che se l’ übermensch («oltreuomo») è colui che deve vivere l’eterno ritorno – che è completamente privo di senso, nel girare perenne del cerchio – diventa egli stesso un fantasma. Il superuomo è quindi per Klossowski una temporanea digressione nel pensiero di Nietzsche, un camuffamento artificioso, un simulacro. Se il circolo vizioso del ritorno, annulla completamente il principio di realtà e quello di identità, figuriamoci se nel pensiero di Nietzsche può esserci posto per un superuomo, ovvero per uno scopo supremo ed una super-identità antropocentrica. Nietzsche raggiunge il culmine del suo pensiero, sempre per Klossowski, nei «biglietti della pazzia» e nelle sceneggiate fatte nelle piazze di Torino: si può benissimo dire che questo è il momento di inveramento di tutta la sua esistenza. È come se qui Nietzsche si liberasse da tutte le sovrastrutture del suo pensiero e approdasse a quello che ne è l’essenza: il delirio, l’autodisintegrazione del sé nel circolo. L’apice di Nietzsche, una volta sprofondato nell’abisso luminoso del circolo – ed avendo dissolto il principio d’identità dell’io ed il suo correlato ontologico, il principio di realtà – non può non essere la follia, dove la conoscenza è soltanto, per Klossowski, una potenza non confessata di mostruosità. Nietzsche, nelle strade di Torino, rinuncia alla ragione per diventare pura emotività, dissolve il suo intelletto per far posto al ritorno del rimosso, al caos. Forse l’apertura dell’io all’eterno ritorno, la sua decisione, il suo oblio, non conducono nemmeno al ritorno dell’identità personale dopo aver percorso tutti i doppi possibili, dove il doppio è in realtà l’altro, la differenza. Forse la legge del ritorno per essersi impressa profondamente nell’organismo di Nietzsche, per una misteriosa forma d’espiazione di fronte al cosmo, richiede, per Klossowski, la disintegrazione dello stesso “veicolo” che per primo l’ha concepito: la mente di Nietzsche. Forse la legge del circolo per essere annunciata agli uomini, aveva bisogno del linguaggio insano del folle, del dissennato: la ragione non è adatta per esprimere la sua ombra, il non-senso, l’assenza. Nelle ultime lettere di Nietzsche, nei «biglietti della pazzia», il filosofo tedesco si appropria di altre identità, identificandosi con esse. È l’apice dell’eterno ritorno, l’inizio del viaggio nel circolo: Nietzsche incomincia ad identificarsi con Cesare, il crocefisso, Dioniso. Secondo Klossowski è il crocefisso che diventa, per Nietzsche, l’emblema del complotto: la logica paranoica rovescia sempre la prospettiva della vittima nel carnefice. Per Klossowski, il crocifisso simboleggia nella fase paranoide della mente di Nietzsche, il simbolo della persecuzione, di cui egli stesso si è sentito oggetto quando in Germania i wagneriani, gli antisemiti, i signori dello stato imperiale, hanno incominciato ad emarginarlo sempre di più. Ecco perché ora Nietzsche s’identifica con il crocefisso: il perseguitato che complotta per abbattere i suoi persecutori, anche se con il messaggio dell’amore e non con le armi. Dioniso rappresenta per Nietzsche, sempre secondo Klossowski, una proiezione difensiva contro la rappresentazione paranoide, una compensazione inconscia alla prospettiva del complotto simboleggiata dal crocefisso: Dioniso ne è da sempre il grande avversario, nelle varie maschere che assume nella storia, ora Satana, ora Lucifero o Urizen. Quindi per Klossowski, Dioniso rappresenta qui lo sbarramento difensivo dell’io di Nietzsche, nell’ultimo disperato tentativo di resistere alla sua disintegrazione. Nell’ultimo Nietzsche è presente anche una fase libidinale molto accentuata che si esprime nell’ultimo biglietto a Cosima Wagner: «Arianna ti amo. Dioniso». Cosima rappresenta, nella mente di Nietzsche, l’immagine del prestigio: era una donna molto colta ed intellettualmente dotata, oltretutto vedova del suo grande rivale Wagner. Forse, sempre per Klossowski, è un richiamo al passato, al periodo in cui era docente di filologia a Basilea e frequentava il milieu dei coniugi Wagner. Il viaggio di Nietzsche verso l’alterità si conclude quando incomincia a fermare i passanti per le strade di Torino, annunciando di essere Dio. Eternando con il nome di «Dio», il movimento del circolo, Nietzsche si dissolve completamente all’interno di questo: ora egli è tutte le identità possibili in uno scambio infinito. Secondo la magistrale lettura che Klossowski ci regala dell’ultimo Nietzsche, questo è il momento in cui, forse per la prima volta, il filosofo tedesco, getta veramente lo sguardo dentro l’abisso – come non gli era riuscito nel periodo iniziale della metafisica d’artista – e scorge finalmente il fondo primordiale, che è poi un’assenza di fondamento. O, ancor più esattamente, una discontinuità d’intensità che s’intrecciano in fluttuazioni senza fine. __________ Note1. P. Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso , Adelphi, Milano 1981. (torna al testo) 2. Id. p. 63. (torna al testo) 3. Id. pp. 83-84. (torna al testo) 4. Id. p. 105. (torna al testo) 5. Id. p.171. (torna al testo) |