Armonistica – parte 1

Scienza del Suono

Dorme una melodia in tutte le cose che ininterrottamente sognano,
e il mondo comincia a cantare appena ne cogli la parola magica. 

Armonistica – parte 1

di Roberto Fondi 
saggio tratto dal sito www.estovest.net previa autorizzazione dell’autore alla pubblicazione

Ringraziamenti 

L’autore desidera ringraziare l’amico Dr. Ivan Dalla Rosa e la Prof.sa Maria Franca Frola, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, per i preziosi scritti su Kayser e l’armonistica generosamente messigli a disposizione. 

Informazioni di ordine bibliografico 

Il saggio è stato pubblicato sia nel n° 3 (anno 2000), pp. 59-89, della rivista Il divano morfologico (edita da “Il Capitello del Sole” di Bologna), sia – in versione più ridotta – nel volume n° 1 (1998), pp. 255-300, della rivista Systema Naturae (2 soli volumi editi dalla PeQuod di Ancona; poi la rivista, per mancanza di fondi, continuò per un certo periodo a pubblicare on line nel sito www.biologiateorica.it ). 

Armonistica

Il ponte di collegamento tra la natura e la psiche, sponde complementari della realtà 

Sommario: Introduzione – L’antica scuola pitagorica e le esperienze con il monocordo – Risultati delle ricerche moderne sulla fisiologia dell’udito – Johannes Kepler e l’armonistica dell’universo – Albert von Thimus e la riscoperta del “ lambdoma” neopitagorico – Hans Kayser e l’armonistica dei regni naturali – L’armonistica applicata – Analogie tra il lambdoma dei pitagorici, l’antico sistema oracolare cinese e il codice ereditario dei sistemi viventi – Implicazioni dell’armonistica sulla visione del mondo 

Dorme una melodia in tutte le cose che ininterrottamente sognano,
e il mondo comincia a cantare appena ne cogli la parola magica. 

Joseph von Eichendorff 

Introduzione 

Perché la terza e la nona sinfonia di Beethoven risvegliano potentemente, in chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità, tutta la gamma emotiva connessa a sentimenti sublimi ed eroici? Perché le assolate distese marine evocate da La Mer di Debussy destano in ciascuno di noi quel tumulto di impressioni e quella tavolozza di colori quali nessuno prima di lui aveva saputo ricavare da un’orchestra? E perché le composizioni di Sibelius riproducono in tutti coloro che le ascoltano le medesime emozioni suscitate dal paesaggio scandinavo, con le sue foreste coperte di neve, le sue paludi nebbiose, i suoi lunghi inverni illuminati dal pallido Sole di mezzanotte e le sue brevi estati durante le quali antiche e forti comunità umane celebrano le loro feste? 

Essendo i suoni realtà fisiche concrete e misurabili, queste domande non possono essere ritenute oziose. Evidentemente, deve esistere un profondo legame tra l’ambito esteriore delle cose misurabili e l’ambito interiore delle emozioni esperibili. D’altra parte, un fatto ormai constatabile nel dominio della scienza, è dato dalla crescente diffusione dell’idea di un universo ricco di informazione e di creatività o, come lo definisce l’astronomo Fred Hoyle [1], “intelligente”: nel quale cioè la psiche, per usare le parole del fisico Paul Davies, “non è un carattere insensato e fortuito della natura, ma un aspetto assolutamente fondamentale della realtà” [2]. 

Ma se si ammette l’importanza del ruolo svolto dalla psiche nella struttura stessa della realtà (e per psiche dobbiamo qui intendere, ovviamente, non tanto quella individuale e soggettiva, quanto essenzialmente quella collettiva ed oggettiva, vale a dire comune a tutta l’umanità), diviene conseguente riprendere nella più seria considerazione le ricerche di Carl Gustav Jung e della sua scuola circa gli Urtypen operanti da un più elevato o profondo livello di realtà e i loro ambiti “proiettivi”, o manifestazioni particolari, nel livello di realtà ordinario. D’altra parte gli archetipi di Jung, come già quelli di Goethe (di cui Jung, fra l’altro, si considerava discendente), non fanno altro che rappresentare da un punto di vista scientifico moderno ciò che le idee di Platone e le forme di Aristotele – successivamente riprese da Karl von Linné e da Georges Dagobert de Cuvier nelle loro opere naturalistiche – rappresentavano nel pensiero del mondo antico. Anche soltanto da un punto di vista teorico e generale, ci sembra perciò di fondamentale importanza stabilire punti di contatto sicuri – ossia basati su procedimenti scientifici rigorosi e controllabili – tra la dimensione fisico-biologica e quella psichica del mondo in cui viviamo. 

In questo senso, siamo profondamente convinti che un punto di contatto sicuro possa essere indicato nell’armonistica [3] del libero docente tedesco Hans Kayser (1891-1964), nonostante questa sia praticamente sconosciuta al di fuori dei paesi di lingua tedesca, ed anche in questi ultimi sia stata finora considerata più come una sorta di divagazione da cultori di musica che non come una seria costruzione di natura scientifica. L’armonistica prende il suo nome dal greco harmonikós (“armonico”), aggettivo che ha le sue radici nel verbo   (“ordinare, disporre”) ed il cui significato originario includeva perciò, al medesimo tempo, sia l’aspetto quantitativo inerente alla misura delle proporzioni esistenti nelle cose, sia l’aspetto qualitativo implicito al senso di coerenza, efficacia e bellezza che tali proporzioni appunto trasmettono all’anima. 

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1. Fred Hoyle, The Intelligent Universe, Dorling Kindersley, London 1983 (tr. it. di Giovanni Paoli e Roberto Morelli: L’universo intelligente, Mondadori, Milano 1984). (torna al testo)

2. Paul Davies, The Mind of God, Orion, London 1992 (tr. it. di Marcello D’Agostino e Alessandra Gulotta: La mente di Dio, Mondadori, Milano 1993, p. 7). (torna al testo)

3. Poiché Kayser ha introdotto il termine Harmonik impiegandolo nello stesso senso di Physik (“Fisica”), Optik (“Ottica”), Akustik (“Acustica”), Ästhetik (“Estetica”) e Musik (“Musica”), ossia come sostantivo indicante una determinata disciplina o ramo dello scibile, riteniamo opportuno – anche per non confonderlo con quello indicante l’omonimo strumento musicale – tradurlo con “Armonistica”. (torna al testo)

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L’antica scuola pitagorica e le esperienze con il monocordo 

Nelle culture dell’Era Antica era molto diffusa l’idea, ripetutamente espressa e drammatizzata da simboli e da miti, che il mondo non soltanto era stato generato da suoni, ma poteva sussistere unicamente in quanto composto da suoni. A partire dal VI secolo a. C., con l’uso sempre più diffuso del pensiero logico-filosofico, nell’ambito culturale greco questa idea trovò la sua più compiuta espressione nella corrente pitagorica [4]. In base ad esperienze acustiche e a relazioni analogiche, infatti, Pitagora ed i suoi seguaci erano giunti alla conclusione che esisteva una stretta concordanza tra le leggi della natura, dell’uomo e della musica: nel senso che le regole numeriche che presiedono alle composizioni musicali, e che producono precisi e particolari effetti nell’animo umano, sarebbero riscontrabili anche nella più svariate espressioni della natura. 

Pitagora di Samo, che visse appunto nel VI secolo a.C., a detta di Diogene Laerzio trascorse la maggior parte della sua giovinezza viaggiando a Creta, in Egitto e nel Vicino Oriente ed iniziandosi a tutti i riti misterici con i quali poté venire in contatto. Dai sacerdoti egiziani, il filosofo greco sembra aver ripreso il celebre teorema che porta il suo nome; mentre da Ferecide di Siro, uno dei sette savi contemporaneo di Talete, pare abbia ricevuto nozioni di provenienza orientale quali la reincarnazione e l’origine di tutte le cose da un’unità triadica: Kronos (il tempo), Chthonos (la terra, cioè lo spazio) e Zeus (il principio formativo o datore di leggi). A 40 anni, allorché a Samo il tiranno Policrate si impadronì del potere, Pitagora abbandonò definitivamente la sua patria e fece vela per l’Italia meridionale, ove operò principalmente a Crotone riunendo intorno a sé un gruppo di allievi e fondando una scuola propria. Nonostante che alcuni pitagorici occupassero posizioni assai influenti nella società greca di quel tempo, il carattere chiuso ed esclusivo della scuola non mancò di suscitare sospetti, invidie ed ostilità, le quali culminarono nell’attentato ordito da alcuni crotoniati capeggiati da Chilone. Temendo che Pitagora volesse diventare tiranno della loro città, questi incendiarono la casa di Milone, nella quale i pitagorici si erano riuniti, uccidendo una quarantina di persone. Secondo alcune versioni Pitagora non sopravvisse a quell’attentato, mentre secondo altre riuscì a sfuggirvi per terminare successivamente i suoi giorni a Metaponto. L’attentato di Chilone, in ogni caso, segnò l’inizio di una persecuzione generale contro i pitagorici, la quale si esercitò non soltanto nell’Italia meridionale, ma in tutti i territori colonizzati dai Greci. 

Poiché la conoscenza delle dottrine connesse ai teoremi sui quali si basava l’insegnamento di Pitagora era riservata ad un ristretto gruppo di iniziati, allorché qualcosa di esse veniva messo per iscritto, ciò avveniva o da parte di persone che non appartenevano alla cerchia pitagorica, o da pitagorici che con tale operazione intendevano velare ancora di più il segreto delle loro conoscenze. E poiché soltanto nei primi secoli dopo Cristo emergeranno di nuovo insegnamenti, la cui provenienza pitagorica non può essere posta in dubbio, diviene obbligatorio prendere in considerazione la tesi che per lungo tempo essi siano stati tramandati oralmente. Nicòmaco di Gerasa e Teone di Smirne sono i principali rappresentanti di questo neopitagorismo, del quale tracce più o meno consistenti hanno potuto spingersi fino al Medioevo. Non sembra, in ogni caso, che sia possibile pensare ad una trasmissione orale ininterrotta, giacché il successivo rilancio del pensiero pitagorico potrà aversi soltanto con l’Umanesimo e il Rinascimento, e ciò grazie essenzialmente ai contatti con personalità di altissima rilevanza intellettuale dell’Oriente europeo quali Giorgio Gemisto Pletone, grande rivitalizzatore del pensiero platonico negli ultimi anni dell’Impero d’Oriente nonché fondatore di un cenacolo esoterico a Mistrà, l’erede medioevale dell’antica Sparta, all’interno del quale si conservavano testi dell’antichità e si celebravano addirittura veri e propri riti di origine pagana. Di Pletone, la cui figura e funzione rimangono tuttora assai poco note, ci si limita generalmente a citare la partecipazione al Concilio di Firenze e l’istituzione dell’Accademia Platonica Fiorentina che ebbe sede nella villa di Careggi, concepita da Cosimo il Vecchio e realizzata da Lorenzo il Magnifico; ma la sua influenza dovette essere ancora più ampia ed interessante, considerati i suoi stretti legami, ad esempio, con Sigismondo Pandolfo Malatesta, Signore di Rimini, e perciò, sia pure indirettamente, anche con l’Accademia Romana di Pomponio Leto e con il principe Francesco Colonna, Signore di Palestrina, entrambi propugnatori del ritorno ad un “romanesimo nazionale antico”. Si può dunque intravedere come l’apporto della corrente sapienziale reintrodotta in Italia da Pletone si fosse incontrato col retaggio di una tradizione antichissima, mantenutosi nel corso dei secoli presso alcune famiglie nobiliari italiane [5]. 

I teoremi tramandatici come “pitagorici” dall’antichità consistono per lo più in allusioni e circonlocuzioni relative a regole armoniche stabilite per mezzo del monocordo: un semplice apparato che, pur potendo fungere da strumento musicale, è però molto più adatto per effettuare esperimenti acustici. Come risulta dalla sua denominazione, lo strumento consiste in una corda tesa tra due perni fissati su un piano armonico o di risonanza. Sul medesimo piano è disposto un cuneo rigido, o ponticello, un po’più alto della corda ed in grado di scorrere avanti e indietro al di sotto di questa, così da variarne il tratto di lunghezza che si vuole mettere in vibrazione (l’altro tratto va smorzato con un panno o altro mezzo affinché non vibri). Poiché, a seconda della posizione, il ponticello stacca dalla corda lunghezze di volta in volta differenti, facendo vibrare queste ultime si ottengono suoni di differente altezza. Più in particolare, si nota che ad ogni dimezzamento della corda attiva corrisponde un raddoppio della frequenza vibratoria. 

Già mezzo millennio prima dell’era cristiana era noto che, dividendo la corda esattamente a metà (e mantenendone costante la tensione), si ottiene un suono più acuto ma talmente simile a quello prodotto dalla corda intera, che molti scambiano l’uno per l’altro, ed anche gli ascoltatori più allenati devono ammettere che entrambi rivelano come una “aria di famiglia”. Per indicare che i suoni sono simili seppure non identici, se chiamiamo il primo suono A, potremmo chiamare A’quello ottenuto con metà corda. D’altra parte, se prendiamo la corda divisa a metà e la dividiamo a sua volta in due, avverrà di nuovo la medesima cosa: si produrrà, cioè, un suono ancora più acuto ma sempre simile a quello ottenuto con la corda divisa in due. E se continuiamo a dividere ogni metà in due, ci accorgiamo che il procedimento può essere ripetuto indefinitamente, ottenendo tutta una serie di suoni del tipo A: A’, A’’, A’’’, A’’’’, ecc. 

Procedendo allo stesso modo, se prendiamo una corda di differente lunghezza rispetto a quella con cui avevamo ottenuto il primo A, e la chiamiamo B, otterremo una nuova famiglia di suoni, diversi dalla famiglia A, ma aventi analoga corrispondenza tra loro: B’, B’’, B’’’, B’’’’, ecc. 

Per dare un nome ai suoni impiegati in musica, gli antichi greci ricorsero appunto al metodo delineato, designando tutti i suoni di una famiglia con una medesima lettera alfabetica. In tal modo, essi si accorsero che occorrevano solo sette differenti lettere, perché quando si passava all’ottavo suono, esso risultava identificarsi con quello prodotto dalla metà della corda che aveva dato il primo suono. In altre parole, se i differenti suoni erano chiamati A B C D E F G, per quello immediatamente successivo non occorreva una nuova lettera, poiché si sarebbe dovuto chiamarlo A’, così come era stato fatto dividendo A per metà. L’intero sistema tonale, pertanto, poteva essere schematizzato in questo modo: A B C D E F G A’ B’ C’ D’ E’ F’ G’ A’’ B’’ C’’ D’’ E’’ F’’ G’’… ecc. 

Sebbene A’e A” non abbiano lo stesso suono di A (in quanto caratterizzati da differenti frequenze vibratorie), è tuttavia utile chiamarli con la stessa lettera in modo da contenere l’alfabeto musicale entro dimensioni agevoli. Rispetto a qualsiasi altro suono di partenza (cioè prodotto dall’intera lunghezza di una corda), l’ottavo suono è chiamato “ottava”. La scala musicale costituita dai sette suoni o note fondamentali, denominata “naturale” o “diatonica”, nei Paesi di lingua anglosassone viene ancora oggi indicata per mezzo di lettere: C – D – E – F – G – A – H. In Italia e in tutti i paesi latini, invece, fu introdotta fin dal Medioevo la solmisazione, cioè il sistema basato sull’impiego di sillabe: Do (anticamente Ut) – Re – Mi – Fa – Sol – La, cui in seguito si aggiunse il Si. Con l’aggiunta dei semitoni diesis ( # ) e bemolle ( b ), la scala musicale passa da sette a dodici suoni, prendendo il nome di “cromatica”. 

Ricapitoliamo, allora, quanto finora è stato detto. Secondo la tradizione, fu lo stesso Pitagora ad accorgersi che, assunta come tonica, o suono di partenza, la nota prodotta dall’intera corda (Do), allorché quest’ultima era attivata solo per metà lunghezza si otteneva la medesima nota, però trasposta di un’ottava ( Do’). Si aveva, cioè: 

con lunghezza la nota Do 
“ “ 1/2 “ “ Do’
“ “ 1/4 “ “ Do’’
“ “ 1/8 “ “ Do’’’
“ “ 1/16 “ “ Do’’’’

Per contro, quando la corda era attivata per un terzo, si otteneva la quinta nota dell’ottava di ordine superiore a quello della tonica. Si aveva cioè, al medesimo modo: 

con lunghezza 1/3 la nota Sol’
“ “ 1/6 “ “ Sol’’
“ “ 1/12 “ “ Sol’’’

Se invece la corda era attivata per un quinto della sua lunghezza, si otteneva la terza nota dell’ottava di ordine due volte superiore a quello della tonica. Similarmente, quindi: 

con lunghezza 1/5 la nota Mi’’
“ “ 1/10 “ “ Mi’’’

Infine, allorché la corda era fatta vibrare per un settimo della sua lunghezza, si otteneva la sesta-settima nota alterata (o semitono) dell’ottava di ordine due volte superiore a quello della tonica. Per cui: 

con lunghezza 1/7 il semitono La #’’(o Si b’’) 
“ “ 1/14 “ “ La #’’’(o Si b’’’) 

Considerazioni di natura teorica portano a supporre che, quando una corda vibra, vengono prodotti suoni con lunghezze d’onda che stanno fra loro nel rapporto semplice 1/2, 1/3, 1/4, 1/5, e così via; per cui il suono complessivo prodotto dalle vibrazioni della corda potrebbe essere ottenuto dalle vibrazioni simultanee di una serie di diapason le cui frequenze fossero appunto nei rapporti suddetti. Ora, facendo uso di opportuni strumenti quali i risuonatori di Helmholtz o i moderni analizzatori di suoni, è possibile accertare sperimentalmente che avviene proprio così. Quando, ad esempio, la corda di un violino suona un Do di frequenza 256 (ottava centrale dello strumento), per risonanza si metteranno a vibrare unicamente i risuonatori corrispondenti alle frequenze 256, 512, 768, 1024, 1280, 1536, 1792, 2048, ecc., e non gli altri. Fra i vari toni emessi dalla corda vibrante, quello di minore frequenza (256, nel caso del violino) è detto “fondamentale”, mentre gli altri – che pure sono come “fusi”, per così dire, nel suono complessivo della corda – sono detti “armonici superiori” (o “suoni parziali” o “ipertoni”). Più in particolare, mentre il tono fondamentale è detto “primo armonico”, quello di frequenza ad esso più vicino è chiamato “secondo armonico”, e così via. 

Per i primi tredici ipertoni, le frequenze indicate corrispondono alle seguenti note: 

10 11 12 13 
256 512 768 1024 1280 1536 1792 2048 2304 2560 2816 3072 3328 
Do Do’Sol’Do’’Mi’’Sol’’Si b’’ Do’’’R e’’’Mi’’’Fa #’’’Sol’’’La’’’

È questa una legge naturale, da secoli familiare ai compositori di musica, ma sul cui significato più profondo poco finora ci si è soffermati: qualunque suono, prodotto in qualsiasi modo, genera spontaneamente altri suoni, secondo un ordine successivo costante. Poiché salgono progressivamente di frequenza, gli armonici escono ben presto dal campo delle vibrazioni percepibili dall’orecchio umano; per cui, una volta messa in vibrazione una corda, è facile udire il primo e il secondo armonico, mentre raramente si riescono a cogliere i successivi, che pure egualmente risuonano. Ne deriva che è per noi impossibile ascoltare un suono puro, ancorché lo si voglia, in quanto non esiste suono che non generi un complesso di suoni secondari, i quali sicuramente lo condizionano e ne rappresentano, in un certo senso, la progenie specifica: progenie ove, in ogni caso, il posto di ciascuna creatura nei confronti di tutte le altre è rigorosamente preordinato. 

D’altra parte, dobbiamo anche tener conto del fatto che una stessa corda può vibrare in moltissimi modi, a seconda del punto in cui venga sollecitata. Un pizzico deciso al centro, ad esempio, darà un tono fondamentale molto forte, mentre alla distanza di 1/4 da una sua estremità genererà un notevole contributo dell’ipertono di frequenza doppia, e in punti distribuiti a caso uno spettro sonoro ricco di ipertoni di differente intensità. E con ciò diviene chiara la ragione del perché percepiamo in modo diverso un medesimo tono, se suonato su strumenti musicali differenti: si tratterà sempre dello stesso tono, ma con contributi differenti degli armonici superiori suscettibili di produrre una sfumatura, o “timbro”, specifici. 

Operando con un doppio monocordo, infine, i pitagorici potevano stabilire con la più alta evidenza la ricetta-base dell’armonia classica, ossia il fatto – constatabile da chiunque – che due note prodotte simultaneamente generano una sensazione di “naturale gradevolezza” soltanto quando le lunghezze delle corde ad esse relative sono in rapporto tra loro come piccoli numeri interi. Se il rapporto è di 1 : 1/2 ( Do-Do’) si parla, come si è visto, di “accordo di ottava” (diàpason) ; se è di 1/2 : 1/3 ( Do’-Sol’), si parla di “accordo di quinta” (diàpente); se è di 1/3 : 1/4 ( Sol’-Do”), di “accordo di quarta” (diatèssaron) ; se è di 1/4 : 1/5 (Do”-Mi”), di “accordo di terza maggiore”; se è di 1/5 : 1/6 (Mi’’-Sol’’), di “accordo di terza minore”. Ogni volta che le frequenze delle oscillazioni sonore non possono venire rappresentate da questi rapporti semplici, la sensazione di armonia si perde e si avverte “disaccordo” o dissonanza. 

Si vede, così, come i rapporti di frequenza di tutti gli accordi puri, maggiori e minori, che si trovano all’interno di un’ottava, siano esprimibili attraverso il senario, ovvero la serie di numeri da 1 a 6: 

Do Do’Sol’Do’’Mi’’Sol’’
 ottava  quinta  quarta  terza maggiore  terza minore 

I pitagorici, pertanto, ne concludevano che la creatività della natura si manifesta interamente nell’ambito del senario, mentre il numero 7 significa il riposo o pausa necessaria prima di riprendere, con il numero 8, il nuovo ritmo. 

La cordatura di un pianoforte comprende sette ottave complete, da sinistra a destra così denominate sulla tastiera: “dopo-controttava”; “controttava”; “ottava grande”; “ottava piccola”; “ottava centrale”; “1ª ottava”; “2ª ottava”; “3ª ottava”; “4ª ottava”. Mentre la frequenza del Do più basso è di circa 33 hertz, quella del più alto è di circa 4.180 hertz. Esisteva il problema di come dividere le ottave: cioè quali intervalli tonali introdurre per soddisfare la condizione di avere a disposizione frequenze che si trovassero in rapporti il più possibile semplici tra loro e, al medesimo tempo, distribuite in intervalli regolari (poiché solo in tal caso sarebbe stato possibile suonare una medesima melodia in tono diverso, cominciando cioè da qualsiasi nota o punto della tastiera). A partire dalla fine del XVII secolo, tale duplice e contraddittoria condizione è stata generalmente soddisfatta ricorrendo al cosiddetto “ordine temperato”, ossia dividendo ogni ottava in 12 intervalli uguali: appunto il numero dei suoni della scala cromatica. Ognuno di questi intervalli sarà pari a 2 1/12 = 1,059, e perciò il rapporto fra due toni vicini sarà pari a questo valore. Avremo così: 

1) 2 1/12 = 1,059 4) 2 4/12 = 1,260 7) 2 7/12 = 1,498 10) 2 10/12 = 1,782 
2) 2 2/12 = 1,122 5) 2 5/12 = 1,335 8) 2 8/12 = 1,587 11) 2 11/12 = 1,888 
3) 2 3/12 = 1,189 6) 2 6/12 = 1,414 9) 2 9/12 = 1,682 12) 2 12/12 = 2,000 

Operando aritmeticamente in questo modo, insomma, l’ottava risulta divisa in intervalli rigorosamente uguali e, al medesimo tempo, il rapporto fra molti toni si mantiene vicinissimo a quello tra numeri semplici. Troveremo infatti la quinta (7), la quarta (5) e la terza maggiore (4) poiché approssimativamente 1,498 equivale a 3/2, 1,260 a 5/4 e 1,335 a 4/3. Le cose risulteranno ottimali anche per gli altri casi, dove la differenza non supererà l’1%: 1,414 equivale a circa 7/5; 1,122 a 9/8; 1,587 a 8/5; 1,682 a 5/3; 1,888 a 17/9. Solo il primo intervallo, 1,059, corrispondendo a circa 18/17, darà una dissonanza; d’altra parte, una piccola deviazione dalla scala pura sarà poco percepibile. 

Questi risultati, ottenuti in modo rigorosamente sperimentale e ben noti ad ogni musicista, si basano sulla legge fondamentale dell’armonia precedentemente esposta: proporzioni metriche e suoni “naturalmente gradevoli” (o meno), stanno fra loro in relazione precisa ed inscindibile. O, per dirla in altri termini, il dato fisico-quantitativo e il dato psichico-qualitativo formano una complementarità differenziata e indissolubile. Quantitativamente, infatti, gli intervalli fra il 3 e il 4 e fra il 4 e il 5 – per esempio – sono del tutto equivalenti; mentre qualitativamente non lo sono affatto, perché nella serie degli armonici superiori l’intervallo fra il 3 e il 4 ( Sol’-Do”) corrisponde ad una quarta, mentre quello fra il 4 e il 5 (Do”-Mi”) corrisponde ad una terza maggiore. 

La sorgente originaria di tutte le scienze naturali, cioè il riconoscimento che alla base delle umane percezioni vi sono leggi esprimibili matematicamente, è dunque da indicare proprio nei semplici esperimenti effettuati al monocordo dai pitagorici e da altri analoghi nuclei culturali del mondo antico. D’altra parte, se quantità e qualità, ovvero valori fisici e rispondenze psichiche, non sono tra loro separabili, dovranno anche essere reversibili. Per i pitagorici, cioè, quantunque risultasse fondamentale trasformare l’udibile (qualità) in numero (quantità), doveva essere egualmente importante impegnarsi nell’operazione inversa. E poiché le forme materiali, le proporzioni delle cui parti si esprimevano con rapporti tra valori quantitativi differenti (lunghezze di corde), si traducevano nella sfera psichica con valori o significati qualitativi egualmente differenti (accordi o disaccordi musicali), ne seguiva che doveva necessariamente esistere un legame ambivalente ed indissolubile tra il mondo “esterno” e quello “interno”, tra il numero e il valore, tra la dimensione fisica e quella psichica della realtà. 

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4. Si vedano le accurate opere di Vincenzo Capparelli, La sapienza di Pitagora (2 voll.) e Il messaggio di Pitagora (2 voll.), CEDAM, Padova 1944 (ristampa anastatica delle Edizioni Mediterranee, Roma 1988-1990, con prefazione di Piero Fenili). (torna al testo)

5. Renato del Ponte, Il movimento tradizionalista romano nel novecento, SeaR Edizioni, Scandiano R.E. 1987. (torna al testo)

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Risultati delle ricerche moderne sulla fisiologia dell’udito 

Fin dalla lontana antichità si è ritenuto che l’anima umana, in quanto predisposta per sua natura a reagire in modo attivo, valutandoli positivamente, agli accordi musicali, doveva in qualche modo contenerne gli archetipi. È perciò significativo, a questo riguardo, che Kayser abbia ritenuto particolarmente importante affrontare in maniera scientifica il problema di tale predisposizione, prendendo senz’altro l’abbrivio dalla teoria degli archetipi di Jung. In effetti, le più moderne ricerche sulla fisiologia dell’udito non hanno fatto altro che rafforzare le già solide base della disciplina armonistica. 

È risaputo come, dal punto di vista anatomico, l’orecchio umano consista in una parte esterna, una parte intermedia e una parte interna. La parte esterna include il padiglione auricolare ed il meato uditivo conducente alla membrana del timpano. L’orecchio medio è caratterizzato da tre ossicini – il martello, l’incudine e la staffa – articolati fra loro ad arco rampante tra la membrana timpanica e la finestra ovale del cranio. Quanto all’orecchio interno, esso è costituito dal labirinto membranoso – che include i tre canali semicircolari, l’utricolo, il sacculo e la coclea – e dalle terminazioni nervose conducenti direttamente al cervello. 

Esistono motivi tali da far supporre che la catena dei tre ossicini dell’orecchio medio abbia non soltanto la funzione di trasmettere le vibrazioni sonore convogliate dal padiglione al meato uditivo e quindi alla membrana del timpano, ma anche quella di consentire all’orecchio interno di percepire adeguatamente vibrazioni giuntegli direttamente tramite le ossa craniali ed i liquidi endolinfatici del labirinto membranoso. Così, ad esempio, per quanto concerne le intensità dei suoni, di fronte ad una variazione di pressione dei liquidi medesimi dovuta ad un suono troppo forte, il muscolo della staffa produrrebbe una spinta verso l’esterno del blocco incudine-martello, dando luogo automaticamente ad un rilassamento della membrana timpanica. Per quanto concerne, invece, le frequenze dei suoni medesimi, la struttura adibita a selezionarle risiederebbe essenzialmente nella coclea, vero e proprio paraboloide di rivoluzione racchiudente al suo interno il complicatissimo organo di Corti: i suoni più gravi si concentrerebbero nella parte apicale della coclea, mentre quelli più acuti si distribuirebbero nella parte più svasata della medesima. 

Le ricerche sulle modalità di oscillazione della membrana basilare effettuate da von Békésy nella prima metà di questo secolo, pur essendo state decisive per la conoscenza del funzionamento dell’organo di Corti, non sono però riuscite a spiegarne la particolare selettività di frequenze sonore unicamente sulla base di processi meccanici semplici. Tra il 1950 e il 1960, ancora von Békésy poté dimostrare che la massima parte dell’energia elettrica del cosiddetto “effetto microfonico cocleare”, generato essenzialmente dalle cellule acustiche esterne di tale organo, non derivava affatto dall’energia meccanica prodotta da stimolazioni acustiche. Soltanto nel 1978, comunque, si è potuto avere la dimostrazione definitiva, ad opera di Kemp, dell’esistenza di vere e proprie emissioni otoacustiche spontanee (OAS) da parte dell’orecchio interno. Si è visto, cioè, che quest’ultimo, anche in assenza di qualsiasi stimolo, emette spontaneamente vibrazioni sonore, le quali possono essere raccolte, misurate ed identificate tramite un microfono altamente sensibile introdotto nel meato uditivo e collegato ad apposite apparecchiature di analisi [6]. 

Sebbene le OAS possano essere singole o multiple, monolaterali o bilaterali, esse si presentano in ogni caso come rigorosamente sinusoidali ed oscillano, con fluttuazioni estremamente limitate, in un campo compreso per oltre il 90% fra i 1.000 e i 2.000 hertz. “Il reale motivo per cui sia questo il campo di frequenza maggiormente coinvolto ancora oggi appare oscuro”, scrivono G.M. Mattia e G. Cianfrone. D’altra parte, “la stabilità complessiva delle OAS sia nel breve che nel lungo termine (sono ormai disponibili follow-up che rasentano i 109 anni) è veramente rimarchevole e soprattutto la loro caratterizzazione in frequenza le rende assai simili a vere e proprie impronte digitali, o a veri e propri ‘segni caratteristici’permanenti” [7]. Infine, misure sperimentali effettuate nella prima metà degli anni’80 hanno dimostrato che le OAS “… sono formate da toni puri, onde sinusoidali come quelle di un diapason! Siamo in presenza di un sistema fisiologico che emette toni puri!” [8]. Anzi, esse rappresentano addirittura “l’unico esempio biologico di generazione di toni puri!” [9], e la dimostrazione definitiva di questo fatto è fornita dal fenomeno dell’aggancio in fase (phase lock) con una sinusoide esterna alla stessa frequenza: un fenomeno che in fisica è possibile unicamente fra toni puri. 

La scoperta delle OAS mostra che non è completamente appropriato paragonare la membrana basilare dell’organo di Corti e le fibre giacenti in essa alla tavola armonica e alle corde di un pianoforte a coda, come faceva anche Sir James Jeans [10]. Il suono, essendo formato da onde di data frequenza, è simile alla luce: per cui l’orecchio, come l’occhio, può percepire soltanto quelle onde la cui frequenza è compresa entro i limiti di un determinato campo (nel caso dell’uomo, da 20 a 12.000 hertz circa). E poiché è ben noto che le onde sonore, attraversando l’aria e giungendo alla tavola armonica di un pianoforte, fanno vibrare per risonanza le corde che hanno frequenza uguale alla loro, viene naturale ipotizzare che un fenomeno analogo si verifichi anche per le vibrazioni che attraversano il liquido cocleare ed agiscono sulle fibre della membrana basilare. Come si è visto, però, l’orecchio è dotato di una proprietà che l’occhio non possiede, in quanto è in grado di creare per proprio conto onde di frequenze differenti da quelle che lo sollecitano. Per tale motivo, il cervello può udire suoni la cui frequenza non compare affatto tra le note che gli vengono dall’esterno.

Poiché le cellule dell’organo di Corti non percepiscono in modo passivo ma emettono addirittura suoni puri propri, e poiché il timpano non è equiparabile ad un semplice diaframma simmetrico come la pelle di un tamburo o la lamina di un telefono, l’orecchio non trasmette al cervello i toni così come gli pervengono, con la loro particolare frequenza, bensì vivificando quest’ultima con l’aggiungervi spontaneamente la relativa ottava con tutti gli altri ipertoni naturali. D’altra parte, già nel secolo scorso Helmholtz aveva potuto dimostrare che quando due o più toni puri vengono suonati simultaneamente ed in modo intenso, l’orecchio, sempre spontaneamente, non solo vi sovrappone le loro ottave, ma vi aggiunge anche i “toni-somma” e i “toni-differenza” con le frequenze che a loro sono proprie. Ad esempio, se vengono emesse simultaneamente e con forte intensità tre toni puri di frequenza p, q, r, l’orecchio li percepisce seguiti, con minore intensità, dai rispettivi secondi armonici (2p, 2q, 2r) e dai loro primi toni-somma (p+q, q + r, p + r) e toni-differenza (p-q, q-r, p-r). Subito dopo potranno essere percepiti, seppure con intensità di gran lunga minore, i terzi armonici (3p, 3q, 3r) e i loro secondi toni-somma (p+q+r, 2p+q, 2q+p, 2q+r, 2r+q, 2r+p, 2p+r) e secondi toni-differenza (p-q-r, 2p-q, 2q-p, 2q-r, 2r-q, 2r-p, 2p-r). Pertanto, se i suddetti toni fondamentali p, q ed r fossero rispettivamente – poniamo – il quarto, il quinto e il sesto armonico del Do dell’ottava grande della medesima tastiera, nonostante un tale Do non compaia, provvederebbe l’orecchio medesimo ad aggiungerlo, assieme a tutti i suoi armonici superiori, fino al diciottesimo [11]. 

In conclusione, qualora due o più toni puri suonati simultaneamente fossero soltanto alcuni armonici di un determinato tono fondamentale, l’orecchio aggiungerebbe spontaneamente ad essi anche quest’ultimo e numerosi altri armonici. Allo stesso modo, qualora i toni puri iniziali fossero soltanto gli armonici dispari di un medesimo tono fondamentale, l’orecchio aggiungerebbe spontaneamente ad essi tutti i pari. Questi fatti, messi in rilievo con particolare efficacia e con tanto di supporto matematico da Heinrich Husmann [12], rivestono enorme importanza in ogni ramo dell’acustica pura ed applicata, in quanto dimostrano che l’orecchio è sede centrale attiva di complesse interferenze, differenti e caratteristiche per ogni accordo sonoro, dalle quali emerge di nuovo come soltanto gli accordi basati su proporzioni numeriche intere rimangano quelli privilegiati dall’udito. 

I teorici greci avevano dunque ragione. La convinzione pitagorica di una complementarità o coincidenza fra gli accordi musicali e la mente dell’uomo aveva basi veritiere, come oggi possiamo scientificamente dimostrare in base alla straordinaria complessità psico-fisica del nostro apparato uditivo. D’altra parte, e proprio per questo fatto, è ovvio che le manifestazioni musicali delle più svariate culture umane, ben lungi dall’avere assunto la configurazione che sappiamo in seguito a circostanze puramente casuali, non potranno che essersi imposte e sviluppate in stretta conformità con le leggi che presiedono alla fisiologia dell’orecchio umano. E infatti, ad essere particolarmente privilegiata dall’udito (in quanto richiama i cinque migliori accordi di una comune tonalità di base: l’ottava, la quinta, la quarta, la terza e la sesta) non è soltanto la nostra scala musicale maggiore, ma anche la scala principale della musica indiana, la vedica sa-grâma, che, abbracciando l’ottava con una gamma di sette note in ordine discendente, non differisce dal modo dorico dell’antica musica greca. Né è privo di significato che alla radice delle culture musicali di tutti i popoli figuri regolarmente questa scala, malgrado essa si presenti più o meno facilmente riconoscibile. Quali composizioni siano poi state eseguite sulla base di un tale comune fondamento, è tutt’altra questione: esse potranno risultare anche talmente diverse tra di loro, da apparire addirittura estranee l’una all’altra. Del resto, anche le basi della pittura, cioè i colori, sono sempre state le medesime in ogni tempo ed in ogni luogo; ma che cosa con essi sia stato dipinto, costituisce un argomento di natura e portata completamente differenti. 

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6. Si veda il numero speciale di G. Rossi, G.M. Mattia & G. Cianfrone, Le otoemissioni acustiche: attuali possibilità e limiti di impiego nella pratica clinica, in “ Audiologia Italiana”, 6 (3), 1989. (torna al testo)

7. Op. cit., pp. 145, 146. (torna al testo)

8. Op. cit., p. 152. (torna al testo)

9. Op. cit., p. 145. (torna al testo)

10. James Jeans, Science and Music (tr. it. di Giulio Peluso: Scienza e musica, Bompiani, Milano 1941). (torna al testo)

11. S.S. Stevens, Fred Warshofsky & Redattori di “Life”, Sound and Hearing (tr. it. di Sem Schlumper: Il suono e l’udito, Mondadori, Milano 1967). James Jeans, Op. cit., cap. 7. (torna al testo)

12. Heinrich Husmann, Einführung in die Musikwissenschaft, Berlin 1958. (torna al testo)

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Johannes Kepler e l’armonistica dell’universo 

Fino agli albori dell’Era Moderna, l’idea di un ordine universale basato su leggi di natura musicale si manteneva generalmente diffusa tra gli studiosi, i quali vi si riferivano più volte e con una certa naturalezza; tuttavia nessuno di essi, con l’unica eccezione dell’astronomo e matematico tedesco Johannes Kepler, aveva avvertito la necessità di approfondirla. 

Sebbene oggi i meriti scientifici di Kepler [13] siano indicati essenzialmente nelle tre leggi relative alle orbite planetarie, le quali rappresentano una delle basi fondamentali della fisica newtoniana, pure si è completamente dimenticato che tali leggi non costituirono affatto l’obiettivo e l’interesse primario delle sue ricerche, ma ne furono una conseguenza secondaria, se non proprio marginale. In Mysterium Cosmographicum, pubblicato all’età di 26 anni, lo scienziato tedesco aveva, come Galileo, preso apertamente posizione in favore dell’idea copernicana e presentato l’universo come un’unità dinamica. Proponendo che i pianeti fossero tenuti in moto da una forza proveniente dal Sole, anzi, egli era stato il primo a parlare di gravità in termini di attrazione reciproca fra corpi legati da qualche affinità materiale. Al medesimo tempo, comunque, e allo stesso modo degli antichi pitagorici, Kepler era profondamente convinto che il mondo fosse un tutto coerente ed ordinato secondo criteri di armonia; e poiché di questa “armonia universale” si erano sempre avute, fino all’epoca in cui egli viveva, soltanto idee molto vaghe e confuse, dedicò lunghi e faticosi anni di lavoro a cercarne almeno una prova che fosse oggettivamente verificabile. 

Dopo aver tentato più volte, e sempre inutilmente, di mettere in relazione i raggi delle orbite planetarie con quelli delle sfere inscriventi e circoscriventi i cinque solidi platonici, Kepler riuscì finalmente a dimostrare, ormai quasi cinquantenne, che le orbite dei pianeti erano ellittiche anziché circolari, e che le velocità angolari orbitarie dei singoli pianeti al perielio e all’afelio stavano tra loro in rapporti semplici ed interi, corrispondenti con mirabile precisione agli intervalli musicali fondamentali. A partire dal centro del Sole, anzi, l’insieme orbitale dei sei pianeti conosciuti veniva a formare, a seconda che si prendesse in considerazione il perielio o l’afelio di Saturno, l’intera scala musicale maggiore o minore; per cui, sovrapponendosi i toni base dei singoli pianeti, ne risultava come un immenso accordo di contrappunto. Pur silenziosamente, insomma, il mondo emetteva la musica impartitagli dal suo Creatore. Esultante, Kepler rivelò al mondo la sua scoperta pubblicando a Linz, nel 1619, l’Harmonices mundi libri quinque (“I cinque libri dell’armonistica del mondo”), che segnò il trionfo ed il coronamento dell’opera di tutta la sua vita. 

Uno studioso odierno che si metta a sfogliare quest’opera – molto più simile ad un trattato di teoria musicale che di astronomia – non può che rimanere perplesso; eppure, proprio questo ne fa una pietra miliare della storia della scienza: non soltanto perché si tratta della prima teoria armonistica del mondo, ma perché le dimostrazioni di Kepler, nonostante siano trascorsi quasi tre secoli dalla loro formulazione, nulla hanno perduto della loro sostanziale validità. D’altra parte, la direzione successivamente imboccata dal pensiero scientifico ha fatto sì che le fatiche di Kepler – malgrado continuassero inizialmente ad influenzare alcune grandi personalità quali Leibniz e lo stesso Newton – venissero rapidamente perdute di vista, fino ad essere fraintese e addirittura derise [14]. Tutt’altra strada, infatti, ha percorso la scienza con Galileo e con Newton. 

Come per una specie di allergia, Galileo aveva respinto in blocco la concezione armonistica di Kepler, considerandola contaminata dalle medesime forze occulte che dominavano la visione aristotelica. “Stranamente, l’universo di Galileo è sprovvisto di forze, come se l’idea stessa di forza fosse da esorcizzare. Galileo analizza dei movimenti, e per lui, la spiegazione fisica consiste nel dimostrare che un movimento deriva da un altro. Al pensiero essenzialmente dinamico di Kepler, si oppone il pensiero fondamentalmente cinematico di Galileo. E in questo senso, il meccanicismo galileiano è molto più radicale” [15]. Quanto a Newton, le sue leggi differenziali esprimenti il principio deterministico non servivano a spiegare le orbite reali dei singoli pianeti, ma soltanto una serie di orbite possibili – formate da ellissi arrotondate o allungate, grandi o piccole – di cui quelle effettivamente esistenti non potevano che rappresentare altrettanti casi particolari. Nella logica di Newton, per sapere come mai le orbite dei pianeti sono proprio quelle che sono, e non altre, bisognerebbe conoscere esattamente le condizioni iniziali del sistema solare, allorquando cioè i vari pianeti vennero a formarsi; ma siccome ciò è impossibile, le orbite potrebbero benissimo essere quelle che sono per ragioni puramente fortuite. 

Kepler non avrebbe ragionato in questo modo. Se egli avesse conosciuto la meccanica newtoniana, l’avrebbe sicuramente accolta con lo stesso entusiasmo con cui accolse l’opera di Galileo. Anche così, però, egli avrebbe egualmente voluto dedicarsi alla ricerca ed alla scoperta di rapporti armonici tra le orbite dei pianeti. E ne avrebbe senz’altro concluso che, ciò che per Newton era frutto del caso, in realtà era opera intelligente e lungimirante del Creatore. 

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13. Su Kepler, si veda: Arthur Koestler, The Sleepwalkers, Hutchinson & Co, London 1959 (tr. it. di Massimo Giacometti: I Sonnambuli. Storia delle concezioni dell’universo, Jaca Book, Milano 1981); Angelo Maria Petroni, I modelli, l’invenzione e la conferma. Saggio su Keplero, la rivoluzione copernicana e la “New Philosophy of Science”, Angeli, Milano 1989. (torna al testo)

14. Spiace dover constatare anche in Koestler, cui si devono opere genuinamente anticonformiste e non di rado originali ed appassionanti, la più totale incomprensione del valore dell’opera di Kepler. Ecco quanto egli scrive, infatti, a proposito di quest’ultima: “L’importanza obiettiva della Terza Legge è quella di aver procurato a Newton gli indizi più preziosi: essa racchiude l’essenza della Legge della Gravitazione. La sua importanza soggettiva, invece, fu, per Keplero, di servire le sue chimere e nulla più… Non piccolo è il merito di Newton per aver individuato le tre leggi negli scritti di Keplero, in cui esse si dissimulano come non-ti-scordar-di-me in un giardino tropicale. Cambiamo ancora di metafora: le tre leggi sono i pilastri che sostengono l’edificio della cosmologia moderna, mentre Keplero vide in esse soltanto delle pietre tra le tante che gli dovevano servire a costruire un tempio barocco, opera di un architetto pazzo.” (Op. cit., pp. 388-389). (torna al testo)

15. Bernard Vinaty, Galileo e Copernico, in: Paul Poupard (a cura di), Galileo Galilei: 350 anni di storia 1633-1983. Studi e ricerche. Edizioni Piemme, Roma 1984, pp. 33-34. (torna al testo

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