Teologia degli antichi sacerdoti Catari – Parte 17

Storia NascostaLa chiamata dei due primi discepoli

L’anonimato costituisce un tratto caratteristico del sacerdozio eucaristico. Il primo “Innominato” si incontra ai versi 35 e ss. del primo capitolo di Giovanni che, pur così preciso nell’indicare i protagonisti del suo racconto, e nel fissare l’ora degli accadimenti, in un momento tanto solenne qual è la chiamata dei primi due discepoli, si trattiene dal nominare di uno di loro.
Sarebbe stato in qualche modo accettabile se entrambi fossero rimasti anonimi, ma indicare l’uno e tacere l’altro pare incomprensibile, oppure una segnale lasciato al lettore. Rimane indubbio che l’omissione sia voluta.

Teologia degli antichi sacerdoti Catari – Parte 17

di Luigi G. Navigatore
a cura di Athos A. Altomonte

La chiamata dei due primi discepoli

L’anonimato costituisce un tratto caratteristico del sacerdozio eucaristico. Il primo “Innominato” si incontra ai versi 35 e ss. del primo capitolo di Giovanni che, pur così preciso nell’indicare i protagonisti del suo racconto, e nel fissare l’ora degli accadimenti, in un momento tanto solenne qual è la chiamata dei primi due discepoli, si trattiene dal nominare di uno di loro.

Sarebbe stato in qualche modo accettabile se entrambi fossero rimasti anonimi, ma indicare l’uno e tacere l’altro pare incomprensibile, oppure una segnale lasciato al lettore. Rimane indubbio che l’omissione sia voluta. Infatti, nel descrivere il colloquio al quale partecipano i due personaggi, l’evangelista annota (v.40): «…uno dei due…era Andrea fratello di Simone», citando quindi non solo il nome proprio, ma anche il loro rapporto di parentela; specificando che quest’ultimo era il “ton idion” cioè un suo “speciale” fratello. Ciò detto, tace dell’altro e lo lascia nell’ombra senza che ricompaia mai più nel suo racconto.

Verosimilmente, l’identificazione va cercata nella logica della dualità in uso nell’Antico Testamento e poi nei Vangeli. Poiché il nome “Andrea” ha come radice “andr” che significa uomo, e “rea” che corrisponde a “terra”, ha i requisiti per essere la rappresentazione dei gentili, mentre la figura del secondo discepolo potrebbe nascondere un personaggio speciale, discendente di Abramo: un’anima risvegliata dalla circoncisione che viene chiamato “Eletto”, che si potrebbe riconoscere con Giuda (eponimo della tribù che si vantava formata da “Eletti” da Dio).

In Giovanni (18,15.16) nel passo si narra che «…venivano dietro a Gesù, Simone e un altro discepolo. Quel discepolo era conosciuto dal Sommo Sacerdote…»; precisazione questa, che viene ripetuta due volte. Ma perché Giovanni non lo ha nominato?

La risposta a questo interrogativo è fornita dai tre sinottici dai quali ricaviamo che solo Giuda era conosciuto dai sacerdoti, avendo contrattato con loro la consegna di Gesù. Ciò spiega come un discepolo del tanto odiato Gesù, potesse impunemente entrare in una casa ostile; ed ancora perché mai la serva, senza alcun apparente motivo, considerasse Pietro, a lei sconosciuto, un seguace di Gesù. Evidentemente lo deduceva da chi lo accompagnava, e cioè da Giuda.

Il Grande Innominato

Nel IV vangelo troviamo più volte ripetuta, e sempre in contesti di alto valore teologico (Gv.13,23-26; 19,26 ss; 20,2-10; 21,7.20.23.24), una espressione singolare che non viene né chiarita né commentata: “matetes on egapa Iesous” tradotta con: il discepolo che Gesù amava. Solo in 20,2 il verbo “agapao” viene sostituito da fileo”.

È improbabile che Gesù abbia “amato” solo due persone; mentre è ragionevole pensare che a questo “amore” debba riconoscersi un contenuto squisitamente teologico.

La prima considerazione attiene alla struttura della formula, che si presenta chiaramente unidirezionale. In pratica Gesù ama il discepolo; ma non si può dire che quest’ultimo ami Gesù. Il IV vangelo afferma che: «Dio ama il mondo ma…». Questo, allora, diventa il profilo del personaggio anonimo e del suo indefinito corrispondere all’amore di Gesù. Una situazione presente anche nel racconto di Marco, dove l’allontanarsi del “giovane ricco” non manifesta una rottura con Gesù, ma che in quel momento egli non riesce a seguire la nuova strada che Gesù gli propone.

La seconda considerazione attiene al momento nel quale il misterioso personaggio compare per la prima volta. Il contesto è quello della Cena e da quel punto che diventa protagonista di eventi di fondamentale importanza perché lo rendono destinatario di un grande mandato attestato solennemente da Gesù. L’ingresso in scena non è anticipato in alcun modo. Lui compare mentre viene annunciato «…uno di voi mi consegnerà…». E questo dato finisce per collegarlo con l’eucarestia, che si configura nella consegna sacrificale di Gesù.

È significativo che al suo comparire Giuda si dilegua, ricomparendo solo nell’Orto degli Ulivi per compiere il gesto della “consegna sacrificale”. I due non possono stare in scena insieme perchè rappresentano i due volti di uno stesso personaggio.

In Giovanni, però, la presenza di Giuda nell’orto viene narrata in forma indiretta, e senza alcuna relazione con quello che Gesù stava facendo. Di lui si scrive che conosceva il luogo (ton topon), che venne con uomini in armi muniti di lanterne, e che stava con quelli venuti a prendere Gesù. Il passo è strutturato con sapienza. Rivela che l’unico autentico attore dell’Eucarestia è Gesù, che liberamente si consegna, e non chi materialmente lo consegna, anche se “conosce” il “ton topon” (ton t. opon “La perfetta Linfa”) il valore del suo sangue-vita.

Dopo la rappresentazione dell’orto Giuda non compare più; Giovanni omette di riferire il successivo incontro con i sacerdoti per restituire il danaro, e neppure narra la sua morte. Sicché, leggendo solo il IV vangelo, ci si formerebbe una idea del diversa di Giuda e del suo destino. Ne consegue che il personaggio individuato come il “discepolo che Gesù amava” resta da solo in scena, e fino alla fine. Nato dal nulla, diventa il protagonista degli eventi importantissimi, descritti in tutti i testi fondamentali.

Riassumendoli:

– il 13,23 l’annuncio del tradimento di Giuda:

“Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava, seduto, vicino al petto di Gesù…”;

– il 19,26 la morte di Gesù:

“E Gesù vedendo la Madre e, di fianco a lei, il discepolo che amava, dice alla Madre…”;

– il 20,2 l’esperienza del sepolcro:

“Allora (Maria di Magdala) corre e va da Pietro e da quell’altro discepolo che Gesù amava”;

-il 21,7 l’apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade:

Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: è il Signore…”;

-il 21,20 nello stesso contesto:

“Pietro, voltatosi, vede venire dietro quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si chinò sul suo petto e disse: Signore chi ti tradisce?…”.

La “formula”

I verbi usati da Giovanni per indicare il vincolo di amore sono Agapao e poi Fileo (una sola volta). Che senso possono avere queste parole ?

Si ricorre all’Antico Testamento per spiegare i vangeli.

Agapein viene usato da Gen.22, 2 e ripreso in 24,67; 25,28 (due volte); 29,19. Questi testi si riferiscono a Isacco e Giacobbe e permettono di tracciare la figura di un sacerdozio eucaristico.

L’espressione “sacrificami tuo figlio che è l’amato, che tu ami” rendeva Isacco figura del Cristo e del suo sacerdote; l’altra: Entrò Isacco nella tenda di sua madre ed amò Rebecca” allude all’ingresso di Gesù nella Rivelazione del Vecchio Testamento (tenda di Sara) dove si congiunge con la sua sposa (la Chiesa).

Quando si dice che “Isacco amò Esaù” si attesta che il Cristo sarà unito ai gentili nella Chiesa; e quando si afferma: “Rebecca amò Giacobbe” si profetizza l’amore che la Chiesa “Madre” avrà per il sacerdote. Infine, l’espressione “Giacobbe amò Rachele” attesta che la comunità gentile accetterà il sacerdote straniero perchè è da esso amata.

Filein connota l’eucarestia sotto il profilo operativo. Quando Isacco dice: “Portami (o Esaù ) un cibo come io lo amo” indica l’agnello pasquale che diventa l’eucarestia della Chiesa (Rebecca). Ed è proprio questo “cibo” che Gesù desidera, e chiede ai discepoli di preparare. Esso è un cibo che “Il Padre ama grandemente”.

Quando Rebecca prende “due agnelli” (un pasto eccessivo per un solo commensale) per la cena che “egli amava” indica che l’eucarestia è l’incontro tra due fratelli; la congiunzione di corpo e anima che si offrono a Dio.

Isacco “mangia e beve il vino” e poi dice a Giacobbe, creduto Esaù: “Accostati ed amami o figlio”. “E lo amò”.

Come la Madre a Cana, anche la Chiesa, simboleggiata da Rebecca, è colei che costruisce l’eucarestia (il “cibo amato”) e rinsalda i due fratelli facendo rivestire Giacobbe dei panni di Esaù; cioè facendolo diventare greco con i greci e giudeo con i giudei.

Discepolo e non “apostolo”

Matetes” (discepolo) nel greco del I secolo d.C. faceva intendere: che il sacerdote sarebbe diventato un’anima immateriale “attraverso di Me (reso) invisibile”, Moi atetos (teaomai) che sarebbe stato un “vivente”. “Ad opera mia non c’era morte”, concetto identico a quello esposto lungo il mare di Tiberiade che dette luogo alla tradizione dell’immortalità promessa al discepolo amato Moi a-teta es (“teta” “tanatos” indica la morte ed indica i condannati a morte) ed infine che avrebbe goduto della sapienza del divino (eucarestia), come quel Giuda che “sapeva” la “Perfetta linfa” (T opon): era apprendimento dell’ottavo (giorno)”. Mat’ eta es, riferito a “Matos” che indica l’apprendimento e la scienza ed “eta” il numero otto.

Dunque per “discepolo” può intendersi colui che si muove nella direzione della Vita; che, ove mai segua una via sbagliata è “morte” (“a-teta” dando ad “alfa” un valore intensivo).

Ciò posto, nei personaggi chiamati con tale nome si sperimenta la grande prova della fede, vive cioè un momento decisivo della sua storia, e perciò non è possibile riferirgli un “Nome” che lo connoti in maniera definitiva. Non potrà essere chiamato né Episkopoi Presbuteroi, cioè, né “apostolo” e cioè “mandato”, né “diacono” che equivale a “servo” “che guarda in basso”.

Pur facendo parte di una stessa funzione, sacerdozio eucaristico ed episcopato sono due cose distinte.

Il termine matetes è presente solo in tre passi del A.T.; di essi il più significativo è quello di Ger. 13,21 laddove dice «Gerusalemme…tu stesso li hai istruiti perché imparassero la lezione contro di te». Questa affermazione è paradigmatica:

a) da un verso, Dio avrebbe indottrinato Giuda, accordandogli la propria Rivelazione; e proprio servendosi di essa ed in nome di essa che lui consegnerà Gesù-Verbo e lo farà morire;

b) in altro verso l’espressione rende una realtà diversa: è Gesù, nella cena eucaristica, ad indicare ai propri discepoli come mandarlo misticamente a morte. Così l’espressione “discepolo che Gesù amava” si lega ancora di più all’eucarestia “il cibo che Gesù amava”

Questa traduzione del tutto corretta, si riferisce all’espressione greca On egapa Iesous”. E nulla ci sarebbe da aggiungere se non fosse che restano nascosti i motivi e le modalità di questa preferenza. Analizzando la sequenza fonetica, si scopre che nasconde qualcosa di interessante e dà ragione della formula e del rapporto interpersonale da essa indicato. Onegapa indica compiacimento e pena; One g’ apa indica una specie di croce e delizia; On ega pa indica che pazientemente egli sopportava (come un padre).

L’anonimo è l’evangelista Giovanni?

v.24: «Questi è il discepolo che attesta queste cose e che le ha scritte e sappiamo che la sua testimonianza è vera…».

Dunque il “discepolo” sarebbe un “apostolo” e verosimilmente Giovanni. Questa è la tesi corrente, tanto ripetuta da diventar de fide definita. Ma proviamo a verificare se possa considerarsi certo che l’estensore del IV vangelo sia stato davvero l’apostolo Giovanni.

Proprio basandosi su questa tesi si è concluso che “il discepolo che Gesù amava” fosse Giovanni. Ma la cosa non è per niente certa, perché:

a) l’attribuzione del IV vangelo all’apostolo Giovanni è incerta. C’è una tradizione in tal senso, ma si parla del suo autore come “Giovanni il presbitero” che “guarda lontano” per le motivazioni già esposte.

b) Non si ritrovano ragioni che giustifichino una speciale predilezione di Gesù per Giovanni; legarla alla verginità di Giovanni è solo una delle tante deduzioni ancillari, infatti Pietro era sposato e tuttavia Gesù lo preferisce tanto da farne il capo della Chiesa;

Eliminato il “sesso” in quanto dimensione esistenziale, si può risalire al racconto genesiaco nel quale i progenitori, ancora in dimensione animica perciò incorporea, non sperimentano i propri corpi “non fanno da marito e moglie”. Erano “vergini” non nel senso di casti, ma perchè nello stato animico, non avevano nessun attributo fisico che consentisse la pratica sessuale conseguente allo stato materiale. Uno stato superiore, dunque, che prescinde da quello inferiore. Il personaggio poteva essere amato da Gesù in quanto “anima”, cioè nello stato in cui si trovano i sacerdoti al momento dell’eucarestia. Questo stato di grazia, di cui la castità fisica è solo una rappresentazione, viene riferita a Giovanni attraverso allusioni ma senza su alcun dato certo.

Ioannen

1. – La sequenza fonematica Ioannen si traduce con Giovanni identificando un apostolo.

Ioan nen ” indica “Una ruggine sconsiderata” ovvero il Sacerdote eucarestia (il ferro forte) che si è “fatto debole” perchè si è coperto di sangue;

2. – Giovanni era fuggito insieme agli altri apostoli ed i Vangeli, sottolineando che “tutti” abbandonarono Gesù, non fanno alcun cenno ad una sua resipiscenza.

3. – La sua presenza sotto la croce insieme alla madre di Gesù è improbabile, poi, stante il pericolo di essere catturato dai Giudei, un gesto di audacia di Giovanni sarebbe stato segnalato quanto meno perché contrastava con l’unanime abbandono del Maestro.

4. – La formula, ripetuta senza variazioni, non si riferisce ad un “apostolo” ma ad un “discepolo”; termine, quest’ultimo, assente nell’Antico Testamento.

5. – Non si comprende la ragione per cui l’apostolo avrebbe taciuto il suo nome, quando questo poteva avvalorare la sua testimonianza. Era, infatti, l’unico a poter vantare di essere stato testimone oculare della passione di Gesù. Tutti gli altri riportano solo quello che avevano sentito di seconda o terza mano.

Leggendo senza pregiudizi si è liberi di concludere che attribuire all’apostolo Giovanni l’estensione del IV Vangelo non è sostenuto da alcun dato certo, se non la fede.

Nel corso della storia ecclesiastica una parte del clero avrà probabilmente considerato che l’estensore, chiunque esso sia: Giovanni l’Apostolo, l’Evangelista, il Presbitero, Il discepolo che Gesù amava, ha inteso rivelare qualcosa di importante, e cioè che la predicazione resta all’E letto come suo antico e specifico ministero, o privilegio. Ciò non è stato per i Catari, che ben sapevano che Giuda apprenderà non solo a servire alla tavola del Pane di Vita, ad uscire nel mondo dove è stridore di denti, ma anche a non essere “ladro della borsa” (le Olle della tradizione ermetica).

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