Le principali fonti di documentazione di Goethe per la figura di Elena sono la tragedia di Euripide e il dizionario di Benjamin Hederich Gründliches mythologisches Lexicon nella edizione di Lipsia del 1770, che ha un lemma HELĔNA, æ, Gr. Ἑλένη, ης, [1] nel quale sono riportate le vicende della regina di Sparta, con esaustiva catalogazione delle fonti storiche e letterararie.
Zu zweifeln ist, ob sie die rechte sei. C’è da dubitare se sia quella autentica. Le principali fonti di documentazione di Goethe per la figura di Elena sono la tragedia di Euripide e il dizionario di Benjamin Hederich Gründliches mythologisches Lexicon nella edizione di Lipsia del 1770, che ha un lemma HELĔNA, æ, Gr. Ἑλένη, ης, [1] nel quale sono riportate le vicende della regina di Sparta, con esaustiva catalogazione delle fonti storiche e letterararie. Hederich, che Goethe aveva sul tavolo in constante consultazione, cita la tragedia di Euripide solo alla fine del lemma, al decimo ed ultimo paragrafo, informando che essa è tra quelle che ci sono pervenute e sostiene che Elena non è mai andata a Troia. Insieme ad esse, fonti utili per la parte classica dell’ispirazione, è da considerare, sul versante tedesco, la Historia von D. Johann Fausten, dem weitbeschreyten Zauberer unnd Schwartzkünstler (Storia del Dottor Faust, famigerato incantatore e negromante) titolo intero del Faustbuch edito nel 1587, che ha come antesignano il manoscritto di Wolfenbüttel, composto dopo il 1572. È probabile che Goethe abbia assistito durante il soggiorno a Strasburgo a una rappresentazione della Lepper-Ilgenische Truppe, una compagnia teatrale che aveva in repertorio il Doctor Faust. Tutti e tre i filoni concorrono a formare il sustrato dal quale Goethe parte per innovare, come suo solito, ogni rivisitazione mitologica. Euripide pone la questione dell’immagine che costituisce di fatto un doppio, il dizionario di mitologia informa dettagliatamente delle fonti classiche e delle molteplici trattazioni della figura nella letteratura antica, il Faustbuch del Cinquecento tedesco presenta l’evocazione per magia di una figura del passato e utilizza a sua volta le poche informazioni della tradizione gnostica. Tutte le fonti suggeriscono il dilemma intorno all’autenticità della Regina di Sparta e il brivido del dubbio percorrerà per un tratto la Elena di Goethe. Nella Elena, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 412 a. C., Euripide, avvalendosi della seconda palinodia di Stesicoro, scagiona la protagonista dalla taccia di donna poco onesta, facendone un modello di fedeltà muliebre. Per difendere Elena dal ratto di Paride, Era, la dea della sacralità matrimoniale, irata per la sconfitta patita nel giudizio del figlio di Priamo, che, nella contesa con Afrodite e Atena, non aveva asseganto a lei la palma della bellezza, non concede a Paride Elena stessa (δίδωσι δ᾿οὐκ ἔμ᾿,) (v. 33) [2] bensì un simulacro, un’immagine a lei simile, dotata di pneuma, composta con l’aria del cielo (εἴδωλον ἔμπνουν οὐρανοῦ ξυνθεῖσ᾿ ἄπο) (v. 34). Ermes preleva la Elena in carne ed ossa, quella che di norma viene definita la vera Elena, nelle pieghe dell’etere avvolta in una nube (vv. 46-47) e la porta nella casa di Proteo in Egitto, dove ella rimane per ben 17 anni, i dieci della guerra di Troia e i sette delle peregrinazioni in mare di Menelao nel viaggio di ritorno dalla Frigia in Grecia. Proteo e quindi gli egiziani sanno di avere presso di sè la Elena nella sua fisicità. Anche i Greci, così come lo era Paride, quando il simulacro di Elena si trovava a Troia, sono convinti di avere presso di sè Elena in persona. Elena dichiara che solo per il suo nome (τὸ δ᾿ὄνομα τοὐμόν) (v. 43) e non per lei stessa hanno lottato Greci e Frigi. Proteo muore e Teoclimeno, suo figlio, desidera Elena in sposa. Per sfuggire alle sue insistenze Elena si rifugia presso la tomba del re e lo prega di salvare il suo matrimonio. Se in Grecia il suo nome è disonorato, che almeno il suo corpo (τὸ σῶμά γ᾿) (v. 67) non subisca infamia. Elena dunque scompone se stesssa in corpo e nome e sa di avere un simulacro concesso in vece sua al figlio di Priamo, condizione che la porterà talvolta a identificarsi con il simulacro stesso. Abbiamo allora una Elena fisica, donna di casti costumi, e la pessima fama del suo nome acquisita tramite la sua immagine (εἴδωλον), forgiata da Era. Nel corso della tragedia la duplice Elena è oggetto delle perplessità e dello sconcerto di tutti coloro con i quali lei verrà in contatto, sensazioni che si espliciteranno in una serie di termini che tenteranno di definirla. Teucro, il primo naufrago greco, che si imbatterà in lei, è convinto di trovarsi di fronte all’immagine (εἰκὼ) (v. 73) di colei che ha rovinato lui e tutti gli Achei e augura sventura a Elena e buona fortuna alla donna che gli sta davanti, che è identica a lei nel corpo, ma non nell’animo (δ᾿ὅμοιον σῶμ᾿ ἔχουσ᾿ οὐ τὰς φρένας) (v.160). Forse, aveva insinuato Elena, si trattava di una visione, (δόκησιν) (v. 119) mandata dagli dei. Leda è morta per la fama vergognosa della figlia (αἰσχρὸν ὤλεσεν κλέος) (v. 135), la quale è causa di tante morti e il cui nome è causa di tanto dolore (vv. 198-199). Elena vorrebbe essere cancellata come una statua (εἴθ᾿ ἐξαλειφθεῖσ᾿ ὡς ἄγαλμ᾿) (v. 262) e prendere di nuovo un aspetto più brutto al posto di quello bello. È stato il suo corpo, la sua figura (τὸ δ᾿ἐμὸν δέμας) (v. 383) a distruggere la rocca di Pergamo. Menelao, giunto naufrago a sua volta in Egitto, ha lasciato in una grotta, in custodia ai compagni superstiti, Elena, (quello che a sua insaputa è il simulacro). Apprende dalla vecchia sulla porta del palazzo reale la presenza in esso di Elena. Forse in Egitto vive un’altra donna che porta lo stesso nome (ὄνομα) (v. 487), oppure gli hanno portato via la moglie dalla grotta? Menelao crede di mirare una visione (ὄψιν) (v. 557), di non aver mai visto un corpo, una figura (δέμας) più simile. (559). Elena riconosce Menelao. Lui ha ben maggiori difficoltà e invoca Ecate, di mandargli fantasmi benevoli (πέμπε φάσματ᾿ εὐμενῆ) (v. 569). Questo è l’unico verso in tutta la tragedia in cui Elena venga accomunata ad una espressione che può essere resa con fantasma, essendo Ecate dea infera. Elena, la Elena in persona, nega prontamente che Menelao veda in lei una notturna ministra (νυκτίφαντον πρόπολον) (v. 570) di Enodia. Dunque neppure la Elena reale ha commercio con divinità tenebrose. A Troia non è andata Elena bensì una sua immagine (εἴδωλον) (v. 582). Un corpo (σώματ᾿) (v. 583) può essere da un dio animato con l’aria. (αἰθήρ) (v. 584). Elena si trovava contemporaneamente in Egitto e a Troia perchè il nome può stare ovunque, il corpo no (v. 588). Il dilemma è sciolto dal messagggero; la sposa di Menelao se ne è andata fra le pieghe dell’aria; levatasi in alto è sparita, nascosta nel cielo, ha lasciato la grotta sacra (σεμνὸν ἄντρον) (v. 607), dichiarando che sia i Greci sia i Troiani erano morti per colpa sua a causa degli intrighi di Era. Essi credevano che Paride avesse una Elena che non aveva. Elena è rimasta il tempo necessario per adempiere quanto stabilito dal destino ed ora tornerà in cielo dal padre. L’infelice figlia di Tindaro ha cattiva fama (φήμας… κακὰς) (vv. 614-615) senza motivo e per un inganno degli dei. Troiani e Greci avevano fra le mani il sembiante di una nuvola (νεφέλης ἄγαλμ᾿) (v. 705). Teonoe, la profetessa, usa un’ulteriore e più sottile definizione, un termine platonicamente evocativo, anche se capovolto nel rapporto tra mondo sensibile e realtà sovrasensibile; il sembiante di Elena è una imitazione, una mimesi di lei (τοῦ τε σοῦ μιμήματος) (v. 875). Menelao trasportava sulle navi greche la sacra immagine, formata da Era (εἴδωλον ἱερὸν Ἥρας) (v. 1136). Anche Teoclimeno conosce l’esistenza del malanno mandato a Troia e ne chiede notizia alla stessa Elena, la quale ripete l’espressione del verso 705 (νεφέλης λέγεις ἄγαλμα;) (v. 1219). Del simulacro di Elena non si parla più fino all’esodo nel quale i Dioscuri intervengono per rabbonire Teoclimeno. Le sue nozze con Elena non erano previste. Elena tornerà a casa col marito ora che Troia è stata distrutta e che lei ha prestato il suo nome agli dei (καὶ τοῖς θεοῖς παρέσχε τοὔνομ᾿,) (v. 1653). I Dioscuri annunciano a Elena che lei stessa, quando avrà terminata la sua esistenza terrena, assugerà agli dei (vv. 1666-1669). L’immagine dotata di respiro composta da Era con l’aria del cielo è dunque d’aspetto così simile alla Elena in carne ed ossa da essere la sua imitazione. È il suo simulacro, il sembiante di nuvola. Torna al cielo dal padre. La grotta in cui ha soggiornato è detta sacra. L’immagine viene composta per volere di una dea, è sacra, tornerà al cielo, da dove proviene. La Elena in persona non è colpevole di nessuna delle sventure attribuite al suo simulacro. Dopo aver prestato il suo nome agli dei, perchè lo usassero per compiere il volere del fato, del destino, sarà a sua volta assunta fra le divinità. Il simulacro torna al cielo dal quale è stato foggiato, è di per sé celeste. Elena, quella che ha soggiornato in un corpo fisico, vi assurge. Il termine εἴδωλον ha diversi usi e significati. Può indicare anime dei defunti, sogni inviati dagli dei, immagini fittizie foggiate dagli dei, statue dedicate alle divinità, formazioni artificiali che assomigliano all’oggetto reale, apparenza, pura forma, immagini riflesse, effigi. Ci sono εἴδωλα privi di vita, privi di movimento e di pensiero, altri che possono presentarsi come viventi. [3] L’εἴδωλον di Elena, essendo dotato di pneuma, è anche vivente. Poichè a causa della modificazione semantica non è possibile rendere il termine εἴδωλον con idolo, sarebbe preferibile, per l’εἴδωλον euripideo di Elena, non usare neppure, come spesso accade, il termine fantasma, che come prima accezione rimanda al mondo infero, bensì utilizzare quello più idoneo di simulacro. I fantasmi infatti non tornano agli dei. E per quel che riguarda la “Elena vera“, sarebbe forse più acconcio parlare di Elena reale. Di ciò si accorgerà Goethe, il quale farà uso oculato dei termini, giungendo ad usare il calco Idol, per differenziare la natura di un semplice Gespenst (fantasma) da quella dello stato di temporanea, ma estrema privazione di identità della sua reinventata eroina e per presentare poi un essere vivo, dalla corporeità eterica ed evanescente. Ci si può chiedere quale delle due sia la Elena autentica. Elena nel corpo fisico o il suo simulacro vivente. Ci si potrebbe chiedere quale delle tre sia la Elena autentica: Elena in persona, ossia nel suo corpo fisico, il suo nome, o il suo eterico simulacro, che ha danneggiato il nome di lei. Oppure se il nome e il simulacro siano la stessa cosa. Oppure ancora, perchè si debba considerare vero, autentico o reale solo ciò che è anche fisico. Non tutte tali questioni sono di pertinenza della sofistica. Il dizionario mitologico di Hederich verrà usato come fonte tutte le volte che ciò sembrerà appropriato. Nel Faustbuch Elena compare ben due volte, o per meglio dire a Elena sono riservati due episodi, ambedue nella terza parte dell’opera, quella dedicata alle dimostrazioni pubbliche delle capacità del negromante. Il primo episodio è il numero 49 (51 nel manoscritto Wolfenbüttel) e reca il titolo Am weissen Sonntag von der bezauberten Helena (Della Elena evocata per incantesimo la domenica in Albis) il secondo è il numero 59 (60 nel manoscritto) e si intitola Von der Helena auß Griechenland, so dem Fausto Beywohnung gethan in seinem letzten Jahre. (Della Elena di Grecia che fu concubina di Faust nel di lui ultimo anno). Nell’episodio numero 49 (51) è domenica in Albis e gli studenti si recano a casa di Faust portando con sé cibi e bevande. Quando passano al vino cominciano a parlare di belle donne e uno di loro esprime il desiderio di vedere la bella Elena di Grecia, che aveva causato la distruzione di Troia. Il dottor Faust allora dichiara di essere disposto a portarla loro davanti affinché essi, personalmente, abbiano la possibilità di vedere il suo spirito, in form und gestalt, in forma e figura, così come era quando era in vita. La stessa cosa Faust aveva già fatto per desiderio dell’imperatore Carlo Quinto portandogli davanti l’imperatore Alessandro Magno e sua moglie. Faust poi proibisce agli studenti di aprir bocca, muoversi dal loro posto, e di osare salutarla. Quindi esce dalla stanza e rientra con Elena, la quale è vestita di nero e di porpora; i capelli d’oro le scendono fino alle ginocchia, ha gli occhi neri, le labbra minuscole e rosse come ciliegie, il collo bianco di cigno, le guance del colore delle rose. Poi il dottor Faust esce con lei dalla stanza. Gli studenti chiedono a Faust di farla nuovamente comparire davanti il giorno dopo, per poterle far fare il ritratto da un pittore. Ma il dottor Faust oppone un diniego dicendo di non poter risvegliare il suo spirito tutte le volte che vuole. Fa però pervenire loro un ritratto che gli studenti a loro volta potranno far ricopiare da altri pittori. Ma chi avesse fatto per Faust quel ritratto, non si è mai riusciti a saperlo. [4] La seconda comparsa di Elena nel Faustbuch avviene nell’episodio numero 59 (60). Nel ventitreesimo anno del suo patto con Mefistofele, svegliandosi a mezzanotte, Faust si sovviene della Elena di Grecia che, tempo prima, aveva risvegliato per gli studenti nella domenica in Albis. Perciò al mattino egli sollecita lo spirito a rappresentargli Elena in modo che potesse essere sua concubina. Ciò accade e questa Elena aveva la stessa figura di quella che egli aveva risvegliato per gli studenti, era graziosa e incantevole allo sguardo. Il dottor Faust, rapito al cuore, comincia ad amoreggiare con Elena, la tiene presso di sé come concubina, e apprende ad amarla a tal punto da non poterle stare un solo istante lontano. Ella gli da un figlio, che chiamano Iustus Faust. Quel bambino narrerà a Faust molte cose future che sarebbero accadute in tutti i paesi. Ma quando Faust morì, madre e figlio scomparvero contemporaneamente. Elena compare due volte, ma a distanza ravvicinata anche in The Tragedie of Doctor Faustus di Marlowe (probabilmente 1590). Nel primo secolo dopo Cristo Simon Mago, quel Simon Mago di cui si legge negli Atti degli Apostoli (VIII, 9-24), si faceva chiamare Faustus e accompagnare da una donna di nome Elena, conosciuta in un lupanare di Tiro, della quale sosteneva che fosse la prima concezione della sua mente. Era stata rinchiusa in un corpo umano e costretta a trasmigrare in differenti corpi di donna. Era stata anche quella famosa Elena, a causa della quale era stata combattuta la guerra di Troia. Se ne ha notizia da Ireneo e da S. Giutino martire. [5] Del rapporto fra Simon Mago e la donna di nome Elena si narra anche nel Panarion di Epifanio di Salamina, dove si legge che Simon Mago diceva di essere la Grande Potenza di Dio e la prostituta che lo accompagnava era chiamata anche Prunicos e Spirito Santo. Questa Elena sarebbe stata anche la stessa Elena antica per la quale avevano combattuto Greci e Troiani. [6] Della vita di Simon Mago, si parla nelle Pseudoclementine, attribuite a Clemente Romano, pervenuteci in due forme, Omelie e Ricognizioni. In ambedue viene descritta la trasformazione di Simon Mago in Faustus, padre di Clemente. La spiegazione del termine Zoroastro, come astro vivente, contenuta sia nelle Omelie, sia nelle Ricognizioni è presente nel prologo del manoscritto di Wolfenbüttel, ciò che permette di affermare che l’autore del Faustbuch conosceva le opere in questione. È possibile argomentare addirittura che il personaggio storico, tale Georg Sabellicus, che ispirò il Faustbuch e che si faceva chiamare Faust der Jüngere, Faust il giovane, avesse adottato quel nome in riferimento a Simon Mago. [7] Si può sostenere che questa sia la via attraverso la quale il mito di quella Elena che causò la guerra di Troia giunge nel mito di Faust. La Elena che compare nel manoscritto di Wolfenbüttel e nel Faustbuch, descritta come presente in Form und Figur, in forma e figura, è una evocazione magica ottenuta con l’ausilio di Mefistofele e si inquadra dunque nella categoria della magia nera e nella unanime condanna di quella pratica diabolica, ancora più evidente se inquadrata nella scia delle pratiche eretiche simoniane, anzi simoniache. Questa è la stratificazione culturale di cui Goethe dispone, formatasi in sessant’anni di gestazione, e iniziata quando da bambino assisteva alle rappresentazioni della storia di Faust nel teatro delle marionette ed era rimasto colpito dalla pretesa di Faust a Mefistofele di procurargli Elena come concubina. Nel Faust di Goethe Elena compare, o per meglio dire, viene citata, una prima e sola volta nel Faust I. Du siehst, mit diesem Trank im Leibe, / Bald Helenen in jedem Weibe. (vv. 2603-2604) Con questa bevanda in corpo, vedrai presto Elena in ogni femmina. [8] Benché recalcitrante, e per nulla convinto della bontà dell’idea, Faust è stato condotto da Mefistofele nella cucina della strega; grazie ad una pozione, a mo’ del buon vino, molto invecchiata, e alla recita di una tabellina che riproduce il quadrato magico dei numeri di Saturno, gli stanno per essere tolti almeno trent’anni di dosso. Faust, pur non avendo ancora bevuto il filtro, ha già visto in uno specchio fatato un’immagine celestiale. Goethe tiene qui nel vago l’identità di colei, nel cui corpo disteso Faust intuisce la quintessenza dei cieli. Ogni donna sarà una Elena. Non rinarrerermo qui quanto accade nella prima parte della tragedia. Il patto/scommessa con Mefistofele; Margherita, la sua condanna a morte per infanticidio, il rifiuto di lei di venire liberata dal carcere, liberandosi così da Mefistofele e dal male che egli rappresenta, il suo affidarsi al giudizio del Padre dei cieli. Elena pervade invece il Faust II con la sua presenza. La troviamo: Nel primo atto nella scena dal titolo Rittersaal, Sala dei Cavalieri. Nel secondo atto nella scena Laboratorium, Laboratorio; nelle scene della Klassische Walpurgisnacht, Notte classica di Valpurga: Pharsalische Felder, Campi di Farsaglia; Am oberen Peneios, Al Peneio superiore; Am untern Peneios, Al Peneio inferiore. Il terzo atto è interamente dedicato a Elena. Nel quarto vi sarà un’ultima, breve citazione, e poi l’eco di lei si farà sentire ancora lontana nel quinto. Potremmo dire che quanto accade nella seconda parte del Faust ha luogo in un ambito dell’essere che non è quotidiano, bensì si potrebbe situare ad un livello che è acconcio definire eterico. La magia che lo contraddistingue vorrebbe andarsi rimbiancando. Faust dopo una notte inquieta si sveglia all’alba. Ariele, spirito dell’aria, annuncia l’apparire tonante del sole nell’aurora eterica, che tracimerà in un mare di fuoco, con termini che indicano la sinestesia armonicale di luce e suono. La scena si sposta nel castello di un imprecisato imperatore per il cui sollazzo si rappresenta un carnevale al cui culmine Mefistofele inventa la carta moneta. Non pago di aver potuto risanare in tal modo le casse dello Stato l’imperatore esige ora di veder davanti a sé Paride e Elena in deutlichen Gestalten (v. 6186), in chiare figure. Elena però non è così facile hervorzurufen (v. 6197) da produrre, da far uscire, da suscitare, come il fantasma cartaceo dei fiorini. Mefistofele può fornire follie stregonesche, fantasmi spettrali, (Gespenst-Gespinsten, v. 6199, è il termine usato), nani gozzuti, ma le belle del diavolo non sono in grado di far le veci delle eroine. I pagani, sostiene Mefistofele, non sono di sua competenza, perché soggiornano in inferi a loro riservati, però un mezzo per raggiungerli ci sarebbe. È un alto segreto: dee troneggiano in solitudine. Intorno a loro non esiste spazio e tanto meno tempo, parlar di loro è smarrimento. Sono le Madri. Faust prova un istante di sgomento poi s’informa sulla via da percorrere. Non c’è via che vi conduca. Il luogo inesplorato è inesplorabile, non ci sono né serrature, né chiavistelli, da solitudini si viene trascinati. Mefistofele consegna a Faust una chiave che saprà individuare il luogo giusto per la discesa o la salita, che sono la stessa cosa, (rimando al motto di Ermete Trismegisto come in alto, così in basso) nel regno delle Madri. Un tripode ardente farà comprendere a Faust di essere giunto nel profondo del più profondo abisso. Al suo chiarore egli vedrà Le Madri. Alcune stanno sedute, altre sono in piedi, altre camminano. Formazione, trasformazione, eterno intrattenimento dell’eterno pensiero le circondano d’immagini di tutte le creature. Esse non vedranno Faust, perché esse vedono solo Schemen (v. 6290), ombre, apparenze, figure, fantasmi. Il rischio è grosso, ma Faust dovrà farsi cuore e toccare il tripode con la chiave; quando lo avrà portato fuori potrà richiamare dalla notte l’eroe e l’eroina, e sarà il primo che ne avrà avuto l’ardire. Dann muß fortan, nach magischem Behandeln, / Der Weihrauchsnebel sich in Götter wandeln. (6301-02.) Per magica azione il fumo di quell’incenso si tramuterà in dei. Molteplici sono i rimandi di questa scena ad un sostrato classico. È ormai assodato che il regno delle Madri non è invenzione di Goethe. Fu Rudolf Steiner a dimostrarlo, riconducendone all’inizio del secolo scorso l’ispirazione a Plutarco. [9] Plutarchesco è probabilmente anche il richiamo al tripode [10], oppure da ricondurre all’Iliade (XVIII, 368-379), nell’episodio in cui Efesto pone ruote d’oro sotto i piedistalli di venti tripodi. Mefistofele, pur non comprendendo nulla né degli inferi pagani, né di antichità classica, è in possesso di una chiave in grado di saldarsi al tripode al punto da costringerlo a seguire Faust come un servo fedele. Faust batte il terreno col piede e sprofonda per riemergere a distanza di un intero episodio, nel quale Mefistofele da solo corteggia e risana omeopaticamente le dame di corte. Primo atto: Rittersaal Sala dei Cavalieri, apparizione di Elena e di Paride.Adesso le luci delle sale si vanno affievolendo. Tutti si recano nella sala dei Cavalieri dove ogni cosa è apparecchiata per lo spettacolo. L’imperatore è seduto ormai e attorno a lui la corte. Squillano le trombe e la magia entra in azione. Attraverso magiche parole la ragione viene legata. Faust in abito sacerdotale e accompagnato dal tripode sale da un cripta cava, invoca le Madri, coloro che regnano nell’infinito, dove abitano eternamene sole eppur socievoli, attorno al cui capo aleggiano, pur senza vita, le immagini della vita. Tutto ciò che è esistito in luce e splendore si muove in quel luogo perché vuole essere eterno. Il dolce corso della vita ne afferra alcune, il mago ardito altre ne raccoglie. Die andern sucht der kühne Magier auf (v. 6436). In ricca elargizione e pienamente fiducioso il mago permette a ciascuno di vedere le meraviglie che desidera. Con la chiave rovente egli sfiora appena il bacile e una nebbia fumosa si diffonde nello spazio. Gli spiriti muovendosi producono musica, al loro passaggio tutto diviene melodia. Der Säulenschaft, auch die Triglyphe klingt,/ Ich glaube gar, der ganze Tempel singt. (vv. 6447-6448) Il fusto della colonna, il triglifo risuona, l’intero tempio canta. Che l’architettura possa essere definita musica congelata è concetto famigliare a Goethe, il quale ne fa uso in questa scena, [11] ed è presente anche a Hölderlin. [12] Poi la nebbia si dirada e compare Paride, accolto dall’ammirazione delle signore presenti e dall’invidia degli uomini. Poco dopo compare anche Elena, a sua volta ammirata dagli uomini, mentre le dame ne cercano i difetti. Goethe dichiara poco più avanti esplicitamente l’intento di richiamare alla memoria l’episodio dell’Iliade (III, 154-160) in cui gli anziani, seduti presso le porte Scee, simili a cicale, dicono di Elena, quanto ella somigli alle dee immortali. Qui però il primo ad esprimersi è Mefistofele, il quale sostiene che Elena è graziosa, ma non gli dice proprio niente. Poi nel mezzo dei commenti altrui raccomanda che si lasci das Gespenst, il fantasma (v. 6515), che, avvicinatosi a Paride, lo ha baciato, fare ciò che vuole. Il soffuso pettegolezzo continua. Elena è un’adescatrice, il suo gioiello è passato attraverso molte mani e la sua doratura è un po’ consunta, dal decimo anno di vita in poi non aveva più gran valore. Troviamo qui prime allusioni alla vita di Elena, che Goethe riprende e amplia in seguito nella narrazione di Chirone. Benjamin Hederich nel suo dizionario mitologico fra le molte informazioni, offre anche una lunga lista di pretendenti a Elena. Come fonte il dizionario dichiara il primo libro della Biblioteca di Apollodoro e la fabula 81 dei Miti di Igino. [13] Il dotto della corte medievale pronuncia la frase che a noi qui più interessa: Ich seh’ sie deutlich, doch gesteh’ ich frei: / Zu zweifeln ist, ob sie die rechte sei (vv. 6533-34). La vedo nitidamente, ma debbo ammettere che c’è da dubitare, se sia quella autentica. La stratificazione culturale ha qui già dato i suoi primi frutti: in questa domanda incomincia ad insinuarsi la questione fondante la Elena che, più tragicamente marcata, incontreremo nel terzo atto intorno alla identità della Regina di Sparta. Nel 1780 la Elena di Euripide esce a Zurigo tradotta da Felix Büscheler. Il termine εἴδωλον del verso 34 è tradotto con belebtes Phantom, fantasma dotato di vita. Nella traduzione di Christoph Martin Wieland uscita a Vienna nel 1814 allo stesso verso εἴδωλον è reso con beseeltes Luftgebild immagine animata fatta d’aria. In ambedue le traduzioni vi è piena coscienza della realtà che il simulacro è vivente. L’episodio continua. Sembra che Paride voglia rapire Elena. Faust, che è pur sempre l’autore del Fratzengeiserspiel (v. 6546), di quella buffonata di spiriti, si ribella, si affida alla chiave, che lo ha condotto dall’orridezza, dalle onde e dai flutti delle solitudini, alla spiaggia ferma, dove ci sono le realtà. Ora lo spirito ha licenza di disputare con gli spiriti. E il grande Doppelreich (v. 6555) il doppio regno, ossia i due regni, dei quali ha appena fatto menzione, quello delle solitudini e quello delle realtà, può essere apparecchiato. Faust si propone di salvare Elena, perché chi l’ha conosciuta non può più fare a meno di lei, invoca le Madri, la afferra, ma la figura diviene torbida. Faust rivolge la chiave verso Paride, lo sfiora, ma una esplosione getta Faust a terra e Die Geister gehen in Dunst auf (didascalia al verso 6563) gli spiriti si dissolvono in vapore. In questo episodio Elena è un Gespenst, un fantasma, sebbene non sia prelevato dagli inferi, dal mondo dei morti, bensì sia ottenuto dal regno delle Madri, e pur sempre con l’ausilio di Mefistofele. Non ha nulla in comune con il simulacro di Euripide dove l’immagine di Elena è fatta di cielo, d’aria, di etere ed è composto dagli dei. Secondo atto: Laboratorium LaboratorioDopo aver perduto i sensi per l’esplosione ora Faust giace sul suo letto nella stanza gotica dall’alta volta, la stessa nella quale nella prima parte del Faust ha luogo il noto monologo nel quale Faust elenca, in negativo e in positivo, le ragioni per le quali si è dato alla magia, monologo cui fa seguito l’invocazione reiterata, ed infine per pochi istanti ottenuta, dello Spirito della Terra, apice insuperato di raggiungimento spirituale. Adesso è Mefistofele a descrivere in un monologo la stanza, la penna d’oca nella quale è rimasta una goccia di sangue del patto/scommessa, la palandrana del professore piena di tarme. Mefistofele bussa alla porta del Laboratorio, nel quale in assenza di Faust, il famulus Wagner ha proseguito negli esperimenti di alchimia. Egli sta compiendo la Überzeugung, la creazione superiore, di un omuncolo, con un procedimento molto simile a quello descritto dalla ricetta fornita da Paracelso nel primo dei nove libri De natura rerum dal titolo Liber primus de generationibus rerum naturalium. [14] Impegnato fino allo spasimo nella tensione creatrice, Wagner non ha messo nel fornello una coppia innamorata. Il modo in cui avveniva la procreazione è ormai ridicolo. Il punto delicato dal quale originava la vita, quella soave forza, che scaturendo dall’interno e donando e ricevendo e appropriandosi di ciò che le è estraneo, era designata a disegnare se stessa, quella forza è destituita di ogni dignità; ci si divetono ormai solo gli animali. D’ora in avanti l’essere umano dovrà avere un’origine molto, molto più alta. Adesso una luce illumina la speranza di riuscita. La massa si muove, diviene sempre più limpida e la creazione superiore si dispiega. L’ampolla risuona di amabile violenza e una delicata figura vi compare all’interno, gesticolando. L’ampolla si muove, mostrando immediatamente la natura rivolta all’azione dell’essere che la abita. Omuncolo, nella sua cucurbita trasparente, sfugge dalle mani di Wagner, entra nella stanza adiacente, ondeggia al di sopra di Faust, che ancora dorme (dopo l’avventura dell’esplosione e della evapozizzazione dei fantasmi, degli spiriti di Elena e Paride), lo illumina e, dando una prima prova delle sue capacità di chiaroveggenza, dovute all’assenza di corpo fisico, descrive il sogno che Faust sta facendo. Il sogno è erotico e la discrezione ne velerà, in dissolvenza, il finale, ricordando l’episodio dell’Iliade (XIV, 341-51) in cui Zeus ricopre di un nuvola d’oro che stilla rugiada il suo amplesso con Era. Acque chiare in un folto boschetto. Donne bellissime si svestono. Ma una si distingue luminosa dalle altre, nata da altissima stirpe eroica, stirpe di dei. Ella pone il piede nella chiara trasparenza; la soave fiamma vitale del nobile corpo si rinfresca nel cristallo fluente dell’onda. Ma un sonoro frullar d’ali veloci, uno sciabordio, un fremito sconvolgono lo specchio tranquillo. Le fanciulle fuggono intimidite. Solo la regina guarda quieta e con orgoglioso muliebre compiacimento il principe dei cigni insinuarsi flessuoso e docile al suo ginocchio. Lui pare bearsene. Improvvisamente un vapore sale a coprire di un fitto velo la più deliziosa delle scene. Mefistofele, che non ha visto niente, taccia Omuncolo di visionario. Nella scena descritta Faust sta sognando il concepimento di Elena da parte di Leda in connubio con Zeus sotto le spoglie di cigno. Fonte visiva di ispirazione è il quadro del Correggio Leda e il cigno (1531-’32) che si trova nella collezione d’arte di Goethe nella incisione su rame di Etienne Desrochers. Klassische Walpurgisnacht, Notte classica di Valpurga. Pharsalische Felder, Campi di Farsaglia. Wagner viene di nuovo lasciato a casa, proprio come alla prima partenza di Faust. Omuncolo, Mefistofele e Faust si avviano alla notte di Valpurga classica. Erittone, la cupa maga tessala, reminiscenza dalla Farsaglia di Lucano (VI, 508-827) ritorna, al chiarore delle luna non ancora piena, come di consueto sul campo di battaglia, dove Cesare vinse Pompeo. (L’evento storico ebbe luogo nella notte fra l’8 e il 9 agosto del 48 a. C.) Il richiamo all’episodio non potrebbe essere più raccapricciante e purtroppo indicativo del carattere oscuro della scena. Ma i tre passeggeri, a bordo del mantello (prestito dalle Mille e una Notte) scendono a terra senza scomporsi; tutti e tre hanno uno scopo, Omuncolo vorrebbe riuscire a procurarsi un corpo fisico, Mefistofele vorrebbe trovare qualcosa da sgranocchiare, ossia va in cerca di qualche strega tessala e Faust ha un suo unico scopo, trovare Elena; la prima domanda che fa infatti, toccando terra, senza neppure usare il suo nome, suona: Wo ist sie? Lei dov’è? (v. 7056). Neppure Omuncolo lo sa. Wo ist sie? Faust ripete fra sé e sé la domanda. Lei dov’è? (v. 7070). Am oberen Peneios Al Peneio superiore. La visita in Grecia comincia tra grifoni, arimaspi, formiche giganti, sirene e sfingi. Mefistofele saluta con cortesia quelle creature, che girano quasi del tutto nude, vituperandone dentro di sé quella che piuttosto che naturalezza, gli pare indecenza. Davanti alle sfingi Faust si ferma e chiede se una di loro abbia visto Elena, Hat eins der Euren Helena gesehen? (v. 7196). Neppure le sfingi lo sanno. Esse si sono estinte prima dell’epoca in cui Elena è vissuta. Le ultime di loro sono state uccise da Ercole, [15] e consigliano a Faust di chiederlo a Chirone che si aggira in quella notte di spiriti. Am untern Peneios. Al Peneio inferiore. Il fiume gorgoglia, sussurra, ciangotta. Le ninfe invitano Faust, che non si schermisce, a ristorarsi nelle acque refrigeranti. Ad occhi aperti Faust rivive le immagini del sogno, in cui aveva visto il cigno avvicinarsi a Leda. Un cavaliere giunge al trotto. È Chirone, il centauro, che si dichiara disposto a traghettare Faust, così come aveva fatto con Elena. Alla notizia di essere seduto sulla sua groppa proprio come aveva fatto colei che sta cercando, Faust è colto da frenesia e ascolta commosso il racconto del Centauro. I Dioscuri, che avevano appena liberato la sorella dai suoi rapitori, furono impediti nel prosegure dalle paludi intorno ad Eleusi. Chirone allora traghettò Elena a nuoto. Scendendo dalla groppa, lei che allora aveva sette anni, lo aveva accarezzato ringraziandolo amorevole e conscia di sé. [16] Faust si stupisce di quella giovane età, ma Chirone è dell’avviso che la donne della mitologia non invecchino mai perché i poeti non sono soggetti al tempo. Faust non se lo fa ripetere; neppure Elena sarà soggetta al tempo! Anche Achille l’aveva trovata a Fere al di fuori del tempo. (Dallo Hederich Goethe aveva appreso che dopo la morte Elena aveva sposato Achille nell’isola di Leuce e avuto da lui un figlio di nome Euforione. [17]) Und sollt ich nicht, sehnsüchtigster Gewalt / Ins Leben ziehn die einzigste Gestalt? / Das ewige Wesen, Göttern ebenbürtig, (vv. 7439-7440). Faust non dovrebbe forse con la potenza della massima nostalgia portare in vita quella figura unica, quell’essere eterno, della stessa natura degli dei? Faust, rapito in tutto il suo essere, non potrà più vivere se non potrà ottenerla. Chirone vorrebbe farlo risanare da quella follia da Esculapio, ma Faust non ne vuole sapere di guarire. Allora Chirone lo conduce da Manto, la quale, approvando colui che agogna l’impossibile, gli indica la buia entrata al regno di Persefone. Nel cavo piede dell’Olimpo lei attende in segreto il saluto proibito, ossia la luce del sole. Da quello stesso orifizio Manto aveva introdotto molto tempo prima Orfeo e il suo augurio è che Faust ne faccia uso migliore. Mentre Faust discende dunque agli inferi (ricalcando un topos molto classicamente frequentato) la notte di Valpurga classica continua il suo corso. Mefistofele si fa prestare la figura di una delle Forcidi, le tre graie che avevano in comune un solo occhio e un solo dente, acquisendo un aspetto talmente orrendo che perfino i diavoli dell’inferno se ne spaventerebbero. Al culmine della notte di magia, mentre la luna permane allo zenit, si disperde in mare, dopo essersi infranta sulle conchiglie del cocchio di Galatea, l’ampolla nella quale Omuncolo restava in vita. Tutti gli elementi, terra, aria, acqua e fuoco, inneggiano a quella che non è una morte, bensì l’unione di acqua e fuoco in un amplesso ierogamico, foriero in alchimia del più alto esito di perfezione. Del permanere di Faust agli inferi però non c’è traccia nel poema. Goethe rinuncia a descrivere il regno di Persefone. Vuole, ins Leben ziehn, portare in vita quell’essere unico e lo farà dopo aver creato con le nozze chimiche dell’acqua e del fuoco il potenziale energetico per la riuscita dell’impresa. __________ Note1. Benjamin Hederich, Gründliches mythologisches Lexicon, bearbeitet von Joh. Joachim Schwabe, Leipzig 1770. Qui si cita da intenet: http://woerterbuchnetz.de/Hederich/. La edizione del 1770 è la terza. Nella biblioteca di Goethe era presente anche la prima edizione del 1724. ^ 2. Euripide, Elena, Giunti, Firenze 1995, p. 12. Da questa edizione sono citati i versi dell’Elena. ^ 3. Per i vari significati del termine εἴδωλον si veda Maurizio Bettini/Carlo Brillante, Il mito di Elena, Immagini e racconti dalla Grecia ad oggi, Einaudi, Torino 2002, pp. 149-154. ^ 4. Er wolte jhnen aber ein Conterfey darvon zukommen lassen, welches sie die Studenten abreissen möchten lassen, welches dann auch geschahe, und die Maler hernacher weit hin und wider schickten, dann es war ein sehr herrlich gestalt eins Weibsbilds. Wer aber solches Gemäld dem Fausto abgerissen, hat man nicht erfahren können. Cfr., Historia von D. Johann Fausten, dem weibeschreyten Zauberer unnd Schwartzkünstler, Veb, Leipzig 1984, p.107. ^ 5. Si veda Ireneo di Lione, Contro le eresie/1, Città Nuova Editrice, Roma 2009, 2 voll., I, p. 151 e S. Giustino Martire, Le apologie, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1929, pp. 133-134. ^ 6. Per queste informazioni si veda Gloria Colombo, Goethe e la trasmigrazione delle anime, Peter Lang, Bern 2013, pp. 213-233. Lo studio si sofferma in particolare sulla valenza di Elena come entità divina femminile e sulla sua interpretabilità gnostica come Spirito Santo. ^ 7. Ivi, p. 216. ^ 8. Le traduzioni dal Faust sono dell’autrice di questo articolo. I versi del Faust sono citati da Goethe, Faust, Texte und Kommentare in zwei Bänden, hrsg. von Albrecht Schöne, Insel Taschenbuch, Frankfurt am Main 2003 ^ 9. Rudolf Steiner scrive: “Egli (Goethe) aveva letto in Plutarco un passo nel quale vien descritto come la città di Engyone cerca di allearsi a Cartagine. Nicia, l’amico dei romani, deve venir arrestato, ma egli sembra come posseduto. I cartaginesi vogliono catturarlo, ma odono uscire dalla sua bocca le parole: ‘Le Madri, le Madri mi perseguitano!’. Era un appello che nell’antichità si attribuiva a chi si trovava in una condizione di chiaroveggenza, fuori dal mondo fisico.” Rudolf Steiner, Gli enigmi nel Faust di Goethe, Editrice Antroposofica, Milano 1983, p. 42. Effettivamente in Marcello XX, 3-11 si legge: “Ricorderò uno dei tanti episodi. C’è in Sicilia la città di Eugio, non grande ma molto antica e celebrata per le apparizioni delle dee che chiamano “Le Madri”. Si dice che il tempio che lì si trova sia una costruzione dei Cretesi; vi si mostravano lance ed elmi di bronzo, alcuni con iscrizioni dedicatorie di Merione, altre di Ulisse, cioè di Odisseo. Nicia, uno dei primi cittadini, persuase questa città, animosissima partigiana dei Cartaginesi, a schierarsi dalla parte dei Romani. […] Nicia accortosi che lo si controllava senza darlo a vedere, cominciò a fare in pubblico discorsi sconvenienti sulle Madri, e parlò a lungo contro le loro supposte apparizioni e la loro fama, dando a vedere di non credere e di non tenerle in alcun conto; […] Quando era ormai pronto il suo arresto, si svolse un’assemblea di cittadini e Nicia, mentre stava parlando al popolo ed esponeva le sue idee, all’improvviso si lasciò cadere a terra; di lì a poco (come è naturale si era fatto uno sbigottito silenzio) sollevata la testa e girati gli occhi tutt’attorno, con voce profonda e tremante, progressivamente rinvigorendo il tono e portandolo su registri alti, quando vide che i presenti erano in preda al terrore e tacevano, buttato lontano da sé il mantello e strappatasi la tunica, balzò in piedi mezzo nudo e si diede a correre verso l’uscita del teatro gridando di essere perseguitato dalle Madri. Nessuno osò toccarlo o anche sbarrargli la strada per scrupolo religioso: anzi, aprirono un corridoio dinanzi a lui ed egli corse verso la porta senza risparmiare movimenti o grida tipici di una persona invasata o pazza.” Plutarco, Vite, Utet, Torino 2000, pp. 271-273. Goethe stesso infatti asserisce di aver trovato Le madri in Plutarco, senza specificare l’opera, nel colloquio con Eckermann del 10 gennaio 1830. Goethe dichiara poi che tutto quanto egli costruisce intorno alle Madri è di sua invenzione. ^ 10. Plutarco cita il tripode in L’E di Delf, 2, C-D. ^ 11. Per l’interpretazione armonicale dei versi 6447-6448 si veda quanto ne scrive Hans Kayser, dopo aver riportato il resoconto di Goethe sui templi di Paestum dal viaggio in Italia. “Questo resoconto, tratto dal Viaggio in Italia, è datato “Napoli, 23 marzo 1787”. Il 17 maggio dello stesso anno, Goethe scrive a Herder: ‘Nel foglio accluso alcune notizie sul percorso fino a Salerno, e anche su Paestum; è l’ultima, e starei per dire, la più splendida immagine che porterò meco integra al Nord. E il tempio centrale [il tempio di Poseidone] è da anteporre a mio avviso a tutto ciò che offre la stessa Sicilia’. Lo sconcerto iniziale del trentottenne Goethe si trasforma dunque il giorno stesso, più che altro a seguito di una riflessione intellettuale, in un rapporto più “familiare” nei confronti dei monumenti antico-dorici. Già due mesi dopo, Goethe parla a Herder della ‘più splendida immagine’ che, nel ricordo soprattutto del tempio di Poseidone a Paestum, egli porterà con sé nel Nord. Dopo ventiquattro anni, pubblica integralmente, nel suo saggio su Philipp Hackert, una relazione di viaggio su Paestum (13.4.1777) dell’inglese Richard Payne Knight, il quale, insieme a Hackert, si era recato proprio lì e in Sicilia per motivi di studio. Quindi, l’’esperienza Paestum’ non abbandona ancora il sessantaduenne Goethe; continua a covare nella sua anima e nella sua mente sino a che egli finalmente la esorcizzerà, in età avanzata, nei due meravigliosi versi del Faust II sopra citati. Ma come giunge Goethe a questo singolare parallelismo tra musica e architettura? Il colonnato ha un suono e anche il triglifo ne ha uno. Sì, tutto il tempio canta; è solo una licenza poetica o è una visione intima e profonda di un’effettiva relazione? Il concetto dell’architettura come ‘musica congelata’ fu introdotto per la prima volta dai romantici tedeschi (Schlegel). Ma il presagio dell’intima affinità di queste due arti esteriormente tanto differenti arriva sino ai nostri tempi più recenti. L’esempio più bello a riguardo è l’Eupalinos di Paul Valéry, un dialogo che R. M. Rilke tradusse in tedesco come sua ultima opera. Eupalinos, nella finzione di Valéry, è un architetto classico sul quale Socrate e Fedro discorrono alla maniera dei Peripatetici.” Hans Kayser, Paestum, i suoni nascosti nei tre templi greci di Paestum, Semar, Roma-L’Aja 2008, pp. 7- 8. ^ 12. Dell’architettura, come armonia delle leggi, si trova traccia in Der Tod des Empedocles, La morte di Empedocle. […]Wie auf schlanken Säulen, ruh/Auf richt’gen Ordnungen das neue Leben/Und euern Bund bevest’ge das Gesez. La nuova vita riposi su ordinamenti giusti come su snelle colonne, e la legge rafforzi il vostro patto. Friedrich Hölderlin, La morte di Empedocle, a cura di Laura Balbiani e Elena Poliedri, Bompiani Milano 2003, pp.122-123. ^ 13. Nello Hederich al paragrafo 5 del sopracitato lemma si legge: 5 §. Freyer und Verheurathung. Nachdem sie nach Lacedämon zurück gebracht worden, so gaben sich zu Freyern um sie bey dem Tyndareus an: Ulysses, Diomedes, Antilochus, Agapenor, Sthenelus, Amphilochus, Kteatus, Thalpius, Meges, Amphilochus, Amphiaraus, Mnestheus, Schedius, Polyxenus, Peneleus, Ajax Oilei, Askalaphus, Jalmenus, Elephenor, Eumelus, Polypoetes, Leonteius, Podalirius, Machaon, Philoktetes, Eurypylus, Protesilaus, Menelaus, Ajax Telamonius, Teucer und Patroklus. Apollod. l. III. c. 9. §. 8. Oder wie sie auch anderweits genennet werden: Antilochus, Askalaphus, Ajax Oilei, Antimachus, Ancäus, Blanirus, Agapenor, Ajax Telamonius, Klytius, Cyanäus, Menelaus, Patroklus, Diomedes, Peneleus, Phemius. Nireus, Polypoetes, Elephenor, Eumelus, Sthenelus, Tlepolemus, [Bd. , Sp. 1218]. Protesilaus, Podalirius, Eurypylus, Idomeneus, Leonteus, Thalpius, Polyxenus, Prothous, Mnestheus, Machaon, Thoas, Ulysses, Phidippus, Meriones, Meges und Philoktetes, Hygin. Fab. 81. ^ 14. Nun ist aber auch die generation der homunculi in keinen weg zu vergessen, dan etwas ist daran, wiewohl solches bisher in großer heimlikeit und gar verborgen ist gehalten worden und nit ein kleiner zweifel und frag under etlichen der alten philosophis gewesen, ob auch der natur und kunst möglich sei, das ein mensch ausserthalben weiblichs leibs und einer natürlichen muter möge geboren werden? darauf gib ich die antwort das es der kunst spagirica und der natur in keinem weg zuwider, sonder gar wol möglich sei. wie aber solches zugang und geschehen möge, ist nun sein process also, nemlich das der sperma eines mans in verschlossnen cucurbiten per se mit der höchsten putrefaction, ventre equino, putreficirt werde auf 40 tag oder so lang bis er lebendig werde und sich beweg und rege, welchs leichtlich zu sehen ist. nach solcher zeit wird es etlicher massen einem menschen gleich sehen, doch durchsichtig on ein corpus. so er nun nach disem teglich mit dem arcano sanguinis humani gar weislich gespeiset und erneret wird bis auf 40 wochen und in steter gleicher werme ventris equini erhalten, wird ein recht lebendig menschlich kint daraus mit allen glitmassen wnennen und sol hernach nit anders als ein anders kint mit grossem fleiss und sorg auferzogen werden, bis es zu seinen tagen und verstand kompt. das ist nun der aller höchsten und grössesten heimlikeiten eine, die got den tötlichen und sündigen menschen hat wissen lassen. dan es ist ein mirakel und magnale dei und ein geheimnus uber alle geheimnus, sol auch bilich ein geheimnus bleiben bis zu den aler lesten zeiten, da dan nichts verborgen wird bleiben sonder alles offenbaret werden. Theophrast von Hohenheim gen. Paracelsus, Sämtliche Werke, I. Abteilung. Medizinische, naturwissenschaftliche und philosophische Schriften, hrsg. v. Karl Sudhoff, 11. Band., Oldenbourg, München und Berlin 1928, pp. 316-317. Paracelso esordisce dicendo che è necessario sapere che esseri umani possono venir generati senza padre e madre naturali, sarebbe a dire che essi non vengono generati in un corpo femminile in modo naturale come gli altri bambini, bensì attraverso l’arte e l’abilità di uno spagirico dalla lunga esperienza. La generazione di homunculi è dunque possibile e non va dimenticata, anche se è stata tenuta in grande segretezza ed è andata oggetto di non poche interrogazioni e dubbi da parte di molti degli antichi filosofi. Paracelso, oltre a sostenere che la generazione di un essere umano tramite l’arte spagirica è possibile, non esita a fornirne il procedimento. Lo sperma di un uomo sia messo da solo in una cucurbita ben chiusa e putrefatto nel ventre equino per 40 giorni, o tanto a lungo fino a che non divenga vivente e si muova, cosa che è facile da vedere. Dopo questo periodo sarà quasi simile ad un essere umano, ma sarà trasparente e senza corpo. A questo punto deve venir nutrito quotidianamente con l’arcano del sangue umano e mantenuto in una temperatura costante nel ventre equino per 40 settimane. Dopo di che si trasformerà in un bambino umano, con tutte le membra come ogni altro bimbo, che sia nato di donna, ma sarà più piccolo, lo chiameremo homunculum, e potrà essere cresciuto con grande cura e attenzione fino a che non diventi adulto e acquisti la ragione. Questa è una delle cose più segrete che ci siano e che Dio ha fatto sapere agli uomini mortali e peccatori, e il segreto resterà tale fino ai tempi ultimi, quando nulla sarà più nascosto, ma tutto rivelato. In effetti nella terminologia alchemica la cucurbita è il matraccio che contiene la materia da mettere sul fornello; lo sperma è lo zolfo, il calore del ventre del cavallo è il primo grado del fuoco richiesto per l’opera; il sangue umano sta per il mercurio che presiede all’opera. ^ 15. Questa affermazione esula dalle imprese di Ercole note alla mitologia. ^ 16. Che Chirone abbia traghettato Elena è invenzione di Goethe. I rapitori di Elena erano Teseo e Piritoo. La notizia che Elena avesse allora dieci o forse addirittura solo sette ani, si trova nello Hederich. Alla colonna 1217 del lemma in questione si legge: “Nach einigen war sie (Elena) damals nur erst sieben, Duris Samius ap. Tzetz. ad Lycophr. v. 103. oder höchstens zehen Jahr alt, als sie Theseus entführete, Diod. Sic. l. III. c. 65. p. 185.” ^ 17. Gleichwohl soll sie auch nach ihrem Tode den Achilles in der Insel Leuce geheurathet, Pausan. l. c. p. 200. und mit ihm den Euphorion gezeuget baben; Ptol. Hephæst. l. c. Er hatte sie schon in seinem Leben geliebet. Hederich 1770, 1222. ^ |