Perchè gli dei ritornano – Parte 2

Letture d'EsoterismoSimboli, dei e deità

Nonostante la crisi del cattolicesimo secolarizzato, non si è mai del tutto estinto l’anelito antropologico alla dimensione trascendente. Infatti, se la formulazione di un non-luogo rimanda ad un non-tempo e ad un non-spazio, la dimensione del sacro rimane da sempre associata all’idea di un «Altrove spirituale».
Mentre lo sguardo orizzontale, tipico dell’utopia sociale, è ricomparso soltanto recentemente, dopo il crollo delle grandi ideologie politiche del Novecento. Come nel caso del movimento no-global, lo sguardo verticale dell’uomo verso il Cielo non è mai diminuito. Dio non è mai morto veramente nella spiritualità occidentale.

Perchè gli dei ritornano – Parte 2

di Antonio D’Alonzo

Simboli, dei e deità

Nonostante la crisi del cattolicesimo secolarizzato – sebbene il secolo appena trascorso sia stato dominato dalle grandi ideologie raziocentriche, figlie dell’eredità dei Lumi, “razionalismo”, o “positivismo”, o “materialismo”, o “nichilismo”, ecc. (moltiplicando a dismisura gli «ismi») – non si è mai del tutto estinto l’anelito antropologico alla dimensione trascendente. Infatti, se la formulazione di un non-luogo rimanda ad un non-tempo e ad un non-spazio, la dimensione del sacro rimane da sempre associata all’idea di un «Altrove spirituale».

Mentre lo sguardo orizzontale, tipico dell’utopia sociale, è ricomparso soltanto recentemente, dopo il crollo delle grandi ideologie politiche del Novecento. Come nel caso del movimento no-global, lo sguardo verticale dell’uomo verso il Cielo non è mai diminuito. Dio non è mai morto veramente nella spiritualità occidentale.

Nell’Occidente del Cristianesimo secolarizzato sono soprattutto gli dei a ritornare.

Secondo Jung, non può esserci vero oblio collettivo degli archetipi. Qualora la polisemia dei significati mitici fosse espunta dalla memoria storica, gli archetipi continuerebbero, comunque, a produrre energia nell’immaginario collettivo come significanti negativi o demoniaci.

Nella Germania prenazista, gruppi di giovani, denominati Wandervögel [1], praticavano la vita nei boschi e il nudismo, esaltavano la danza e la bellezza; i Wandervögel rifiutavano la civiltà industriale e finivano per riattualizzare l’archetipo di Wotan, re degli dei del pantheon nordico.

Wotan o Odino, sconfitto dalla cristianizzazione delle popolazioni germaniche, poteva essere riattualizzato nell’Immaginario soltanto assumendo una valenza negativa, esclusivamente nelle vesti di dio della guerra e non della saggezza. Ecco perché il nazionalsocialismo si riappropriò, mediante il wagnerismo, delle arcaiche strutture della tradizione nordica, utilizzando la macchina mitologica per la folle propaganda sulla razza e la sottomissione dei popoli non germanici.

Come ricorda Mircea Eliade, il mito, ossia l’archetipo, è trascendente rispetto alla storia. Quest’ultima, può aggiungere significati addizionali al simbolo, ma non può annientare del tutto la struttura semantica originaria.[2]

In fondo, è una sorta di nemesi storica se si pensa ai numerosi prestiti del paganesimo al cristianesimo post-paolino. Ricordiamo, la figura della Santa Vergine ricalcata da Iside, dea egizia. Non sono prive d’interesse anche alcune correlazioni con il calendario celtico. Il Samhain, il capodanno celtico, cadeva con l’inizio della parte buia dell’anno. La data d’inizio dell’anno non era però fissa rispetto al calendario solare, perché nel calendario lunare l’inizio delle lunazioni non coincideva con l’inizio dei mesi del calendario solare. I cristiani hanno inventato la festa di Ognissanti (1 novembre), che nulla ha a che fare con la tradizione giudaico-cristiana, ma che celebra il raccolto autunnale preservato dai Celti in inverno. Anche la festa di San Michele era originariamente una festa agricola dell’antica Britannia.

La Pasqua era strategicamente fissata in prossimità dell’equinozio di primavera, dove la Natura si risveglia, risorge dall’oscurità invernale, rinnovando il ciclo delle stagioni e il tempo dell’uomo. Quale migliore metafora per la Resurrezione? Non a caso, la pasqua ebraica, Pesach, era la festa del raccolto. Quando il Cristianesimo si espanse nel Nord Europa, la festa della primavera assorbì la festa mediterranea del raccolto: Ostern (ted. «Pasqua»), non a caso deriva da Eostre o Astarte, la dea Madre del Vicino Oriente antico, promotrice della fertilità delle piante, degli animali e delle donne.

Il simbolismo della Croce è un simbolo solare indiano; l’aureola è un simbolo egizio; l’abete natalizio è un simbolo celtico e germanico che richiama rispettivamente Irminsul, la quercia sacra dei Celti, abbattuta da Carlo Magno nel 772, e la quercia di Geismar, sacra a Thor, abbattuta, a sua volta, da San Bonifazio. La stessa nascita di Gesù, arbitrariamente fissata al 25 dicembre, è un tentativo di riplasmazione assimilatrice della festività del Sol Invictus (il solstizio invernale), che spesso coincideva nell’antica Roma con le Saturnalie e con la nascita di Mithra.

Senso del peccato

In questa sede non c’interessa analizzare il fenomeno neopagano dal punto di vista sociologico, né ricostruire la storia del movimento dalla Wicca al Chaos Magick. Piuttosto, ci preme analizzare le ragioni di questo scacco apparente del Dio monoteista nei confronti delle più versatili divinità del pantheon pagano. A nostro avviso si tratta della crisi del sistema dualistico nei confronti della metafisica monistica*. Monismo Soprattutto nella tradizione cristiana, Dio è presentato come un essere ricolmo d’amore e misericordia, alleggerendo in questo senso notevolmente i tratti accigliosi e vendicativi dello JHWH delle Scritture ebraiche. All’origine della Caduta dell’uomo, troviamo un serpente tentatore, capace d’indurre Eva ad assaggiare i frutti dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male.[3] La colpa originale è dell’uomo, ma egli è indotto a sbagliare dalla presenza di un Avversario,[4] anche se nel racconto biblico non si dice chiaramente che il serpente è il diavolo, Satana o Lucifero. Si delinea dunque, per la prima volta, la tipica dicotomia etica e gnoseologica con la quale il pensiero occidentale dovrà prepararsi a fare i conti.

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* Monismo – (dal gr. mónos, solo), il monismo è il sistema filosofico che concepisce la molteplicità come manifestazione di un’unica sostanza.

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È vero che secondo i parametri interpretativi delle scienze storico-religiose, per il Cristianesimo non si può parlare di dualismo vero e proprio. Poiché l’opposizione non si presenta ad un livello cosmologico o antropogonico, potremmo dire nella sfera dei principi metafisici, ma soltanto su un piano derivato e consequenziale all’epifania della Creazione. In altre parole, la dualità non è cosmogonica, ma etica ed assiologica.[5]

Dunque, nel caso di semplice dualismo etico, qual è il caso del Cristianesimo, in cui la contrapposizione tra il bene ed il male si correla all’antagonismo tra Dio ed il Diavolo, dove quest’ultimo è il risultato di un successivo atto di ribellione nei confronti dell’ordine originario, non si può parlare di dualismo ontologico strictu sensu. Al contrario di quanto avviene, ad esempio, nello Zoroastrismo e nel Manicheismo, dove il bene ed il male rimandano a principi ontologici correlati e contrapposti e dunque primari: Ahura Mazda (Ohrmazd) lotterà con il suo antagonista malvagio Angra Mainyu (Ahriman) fino alla fine del tempo.[6]

Nel Cristianesimo, nell’Ebraismo e nell’Islam, Satana si ribella alla volontà di Dio, ma la sfida non è paritetica e sembra quasi che il primo possa perpetuare il male nella Creazione soltanto attraverso una sorta di tacito consenso del secondo, come strumento inconsapevole e confacente al piano escatologico. Il Dio cristiano appare con i tratti del deus otiosus (v. articolo): distante e propenso dopo la discesa del Redentore, a contemplare dall’iperuranio le scelte umane, in attesa che si compia il tempo del Giudizio finale. Il male non abita nel Dio dei cristiani, ma deriva da un’entità minore, un angelo decaduto e tentatore, che sarà comunque annientato alla fine del tempo.

La possibilità del male, dunque, è stata interpretata dai cristiani come effetto diabolico causato dalla colpa o dal peccato originario: risposta che non soddisfa, perché, in questo caso subentra un ulteriore problema, inerente alla persistente predisposizione dell’uomo riguardo al male.

Perché l’uomo continua dunque a peccare, malgrado il sacrificio sulla croce del Redentore? Nella storia del pensiero occidentale in molti hanno provato a fornire la risposta o ad elaborare una teodicea: da Liebniz a Dostoevskij, da Kafka alla Arendt. In « Genealogia della Morale», Nietzsche scrive:

«…questo appunto significa l’ideale ascetico: che qualche cosa mancava, che un’enorme lacuna circondava l’uomo. Egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso. Soffriva del problema del suo significato «…» ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì che il grido della domanda “a che scopo soffrire?” restasse senza risposta. «…» l’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un “perché” del soffrire» [7]

Di fronte al silenzio divino verso il male assoluto, che si tratti di Auschwitz, o dell’onda di uno tsunami, l’uomo colto dall’angoscia, s’interroga smarrito e sbigottito sulle ragioni di quest’assenza. Il male come effetto della colpa originaria, come assenza del bene, come punizione divina…

L’energia cosmica che dà e sottrae

Abbiamo visto finora come la presenza del male e della sofferenza sia spiegata nel Cristianesimo attraverso lo snodarsi di due punti focali e consequenziali:

a) la persistenza del male e della sofferenza come manifestazione diabolica;

b) il male e la sofferenza come punizione per una colpa da espiare.

Ci proponiamo adesso di analizzare le caratteristiche storico-religiose delle divinità del politeismo, collegando la disanima alla valutazione della risposta di fronte al problema del male.

Cercheremo, in altre parole, di capire se il pagano riesce in modo migliore a fronteggiare il dolore, di quanto non riesce a fare il fedele di una religione monoteistica, in particolare del cattolicesimo.

Dei e deità

Gli dei del pantheon politeistico, al pari della psiche umana, presentano caratteristiche spiccate e tratti complessi estremamente differenziati tra loro.[8] La questione, del resto, è facilmente comprensibile, se si presta attenzione al fatto che essi articolano le prime caratteriologie delle civiltà “superiori”, riflettendo la pluralità degli interessi e dei bisogni umani.

Dalla distinzione delle classi e dei mestieri nasce il pantheon politeistico, ma, al contempo, gli dei richiamano i diversi idealtipi umani. La scuola sociologica di Durkheim era solita attribuire la manifestazione del fenomeno religioso ad una sorta di divinizzazione della società.[9] Ma in realtà non esiste una netta contrapposizione tra l’approccio sociologico e quello psicologico, poiché, altrimenti, non si darebbe ragione del rapporto intimistico dell’individuo come elemento cellulare di fronte alla Natura. Inoltre, in ambito indoeuropeo, il passaggio all’interiorizzazione degli archetipi religiosi è filologicamente rilevabile. Si prenda, ad esempio, il processo introspettivo della coscienza indiana nei confronti del ritualismo esteriore ed il mondo del mito, avvenuto nell’VIII sec. a.C., ed esposto nelle Upanishad [10]: gli dei iniziano ad abitare nell’interiorità dell’autocoscienza.

Già a quel tempo, le divinità politeistiche erano pensate come archetipi o manifestazioni di un’unica energia che pervade tutto il cosmo. Anche nel pantheon greco, gli dei rappresentano degli archetipi che richiamano la complessità della natura umana, dunque la rappresentazione di tutti gli aspetti necessari al mantenimento dell’equilibrio cosmico. Se è vero che il microcosmo non è altro che la raffigurazione allegorica del macrocosmo, le strutture simboliche inconsce che coordinano il funzionamento della psiche, si estrinsecano proiettandosi nelle molteplici connotazioni delle personalità divine necessarie all’equilibrio dell’insieme. Il pantheon stesso degli dei, nella sua pluralità, simboleggia l’armonia universale, così, come i molteplici archetipi della psiche rimandano alla raggiunta maturità della personalità umana. In questo senso è facile ricordare come Afrodite richiami l’amore sensuale o Ares lo slancio guerriero.

Sopra ad ognuna di queste divinità si erge possente ed inesorabile il giogo di Moira, così come sopra l’equilibrio della psiche umana incombe l’eredità del vissuto e l’avvento del divenire. Gli dei non sono onnipotenti, come il dio unico, ma dipendono anche loro, alla pari dei mortali, dai progetti di Ananke, che colpisce e gratifica indiscriminatamente secondo disegni imperscrutabili.

Il volere del Fato è conosciuto dagli dei, ma non è in loro potere di mutarne il corso, perché ciò che deve essere accadrà. Simone Weil in L’Iliade poema della forza,[11] individua proprio nel poema omerico il giogo cosmico di questa necessità oscura a cui tutti, animali, uomini, dei, devono sottostare. Tutto ciò che noi siamo, che pensiamo caratterizzare la nostra essenza, è determinato dalla forza. Non ha senso dunque gonfiare il petto di fronte alla ricchezza, alla bellezza ed all’intelligenza: tutto ciò che siamo dipende dalla sorte. L’unica virtù omerica consiste allora nel mantenersi umili, nell’evitare la tentazione di adorare la sorte, perché la forza colpisce tutti, concede e sottrae: il vincitore domani si trasformerà ineluttabilmente in vinto.

Nell’Iliade il male non deriva da un peccato originale o da un demone tentatore. La forza stritola tutto, perché deve mantenere l’equilibrio cosmico. Dunque, non più un mondo sensibile peccaminoso contrapposto al un regno celeste, una «città terrena» opposta alla «città di Dio». Di fronte al potere di Ananke, tutto è buono e degno di amore. La Weil postula la possibilità di liberarsi della gravità, della pesanteur, aprendo alla grazia.[12]

Attraverso il potere di Moira si producevano concatenazioni di espiazioni, destinate a ricadere sui posteri [13]: ma, contrariamente a quanto potrebbe apparire ad un primo sguardo superficiale, le similitudini tra le espiazioni dei pagani ed il peccato originale cristiano sono soltanto apparenti.

a) In primo luogo, la catena delle colpe e delle espiazioni pagane si può esaurire nell’arco di qualche generazione, dunque all’interno del divenire, senza per questo dover necessariamente rimandare ad un Giudizio finale fuori dalla storia e dal tempo, come nel caso del Cristianesimo.

b) Non si deve dimenticare che l’uomo greco viveva il senso dell’esistenza come un gioco oscuro e assurdo, dove i capricci degli dei e l’ordito di Moira sfuggivano a qualsiasi connotazione persecutoria di tipo vittimista o colpevolista. La colpa abitava fuori dall’anima greca, più percepita come uno oltraggio del destino, che come una colpa generata da un peccato. Ai martiri cristiani si contrapponevano gli eroi tragici dei greci.

In La nascita della tragedia, Nietzsche descrive lo stridulo riso di Silenio, inseguito nei boschi da Mida: «stirpe misera e caduca, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma dopo questa, la cosa migliore per te è morir subito»[14]

Il dualismo complementare tra apollineo e dionisiaco, enfasi della forma plastica e dissoluzione nell’ebbrezza ditirambica, teorizzata da Nietzsche è stata ridimensionata da Giorgio Colli, in La sapienza greca: Apollo è al contempo apollineo e dionisiaco,[15] anch’egli – non diversamente da Pan – insegue le ninfe in preda ad estatiche ebbrezze sensuali. Rimane il fatto, come osserva Joseph Campbell che «il luogo mitogenetico originario è la mente umana, creatrice e distruttrice di tutti gli dei e di tutte le immagini poetiche e soprannaturali».[16] Dunque, mentre nel Cristianesimo il dio unico appare come una sorta di deus otiotus, poco disponibile ad intervenire per arrestare genocidi e crimini contro l’umanità, gli dei del politeismo appaiono, in fondo, come estensione e frammentazione delle facoltà della psiche umana: in altre parole, come archetipi, nel senso junghiano del termine. Interfaccia o polarità, secondo il neopaganesimo contemporaneo,[17] comunque sempre sottomessi al giogo del Fato, dunque in grado di rappresentare in modo efficace l’accettazione tragica o dionisiaca della personalità umana di fronte allo scacco della sconfitta. Il male accettato come destino tragico, indipendente dalla sfera della soggettività individuale, e non come colpa o peccato intrinseco alla natura umana. Non più la dicotomia teologica tra il Dio buono e misericordioso e il demonio tentatore origine del male. Alla stregua di Apollo, molte divinità sono ambivalenti e presentano un volto radioso ed uno terribile, realizzando l’armonia dei contrari inerenti alla natura umana: l’Io e l’Ombra. In particolare, nell’archetipo della Grande Madre (v. 3° parte) possiamo trovare la perfetta esemplificazione della riconciliazione degli opposti.

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Note

1. Cfr. W. Mogge, I Wandervögel: una generazione perduta. Immagini di un movimento nella Germania prenazista, ed. Socrates, Roma 1999. Inoltre, per approfondire, cfr. N. G. Clarke, Le radici occulte del nazismo, SugarCo edizioni, Varese 1992. (torna al testo)

2. Cfr. M. Eliade, Il sacro ed il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984. (torna al testo)

3. Genesi 3:1. (torna al testo)

4. «Avversario», «Satan» nell’Antico Testamento, tradotto nel III sec. A.C. dagli ebrei d’Egitto con «diabolus». (torna al testo)

5. Cfr. M. Eliade, Dualismo, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 236, Marzorati, Jaca Book, Milano, 1993. (torna al testo)

6. Cfr. M. Eliade, Monoteismo, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 394, Marzorati, Jaca Book, Milano, 1993. (torna al testo)

7. Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 1990, pag. 156. (torna al testo)

8. Cfr. A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 1995. (torna al testo)

9. Cfr. N. Turchi, Storia delle Religioni, vol. I, Sansoni, Firenze, 1954. (torna al testo)

10. Cfr. H. Zimmer, Filosofie e Religioni dell’India, Mondadori, Milano 2001, pp. 30-31. (torna al testo)

11. Cfr. S. Weil, L’Iliade poema della forza in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967. (torna al testo)

12. Cfr. S. Weil, La pesanteur et la grâce, Plon, Paris 1948. (torna al testo)

13. Cfr. Enciclopedia delle Religioni, La religione dei Greci, Garzanti, Milano 1991. (torna al testo)

14. Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Universale Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 33-34. (torna al testo)

15. Cfr. G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano, 1987. (torna al testo)

16. Cfr. J. Campbell, Mitologia occidentale, Mondadori, Milano 1992 (nota di copertina). (torna al testo)

17. Cfr. F. Dimitri, Neopaganesimo, Castelvecchi, Roma 2005 pp. 85-86. (torna al testo)

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