Percezione, rappresentazione immaginativa ed emozione

Dialoghi FilosoficiAlla luce della natura speciale dei sentimenti (tra cui quello di piacere) attinenti all’esperienza estetica, legata non solo alla fruizione dell’opera d’arte, alla sfera delle emozioni e dei sentimenti ma anche alla “rappresentazione” di se stessi nel mondo e alla carica retorica di tale “rappresentazione”, in questa sede si intende discutere il concetto di coscienza immaginante che ha trovato nel Sartre studioso di Bergson, Husserl e Heidegger, un motivo efficace di analisi.

Percezione, rappresentazione immaginativa ed emozione

di Riccardo Roni

Sommario: Premessa1. L’immagine e l’oggetto.2. I limiti dell’abitudine. Verso un’esperienza riflessiva.3. L’immagine nell’arte: il cavaliere di Dürer.4. L’emozione come forma magica dell’esistenza.

Premessa

Alla luce della natura speciale dei sentimenti (tra cui quello di piacere) attinenti all’esperienza estetica, legata non solo alla fruizione dell’opera d’arte, alla sfera delle emozioni e dei sentimenti ma anche alla “rappresentazione” di se stessi nel mondo e alla carica retorica di tale “rappresentazione”, in questa sede si intende discutere il concetto di coscienza immaginante che ha trovato nel Sartre studioso di Bergson, Husserl e Heidegger, un motivo efficace di analisi.

In una società come quella del consumo di massa, il valore estetico con le sue peculiari potenzialità persiste nell’affermarsi come scoperta e liberazione della forma sensibile dell’oggetto dall’automatismo di una percezione vincolata ad una idealizzazione feticistica del “dato”. Si procede dunque con l’analisi del costituirsi e del tematizzarsi di una nuova e singolare soggettività per il mondo, che si rappresenta il valore estetico come una condizione sostanziale rispetto all’etica, e, trovando un accordo tra l’immaginazione e la nozione cognitiva della comprensione come risposta spontanea all’armonia della forma dell’oggetto estetico, si orienta nella prospettiva di una fondazione etica dell’esistenza.

L’immagine e l’emozione furono probabilmente i primi concetti che destarono nel giovane Sartre l’interesse per la filosofia, e dalla lettura dei lavori che riguardano questi argomenti, si sviluppa l’ipotesi per cui entrambi possano essere letti come lo studio applicativo di una Egologia, che il filosofo terrà sempre ben presente durante tutto il suo pensiero. La fantasia, l’immagine, l’emozione, il ricordo, il vissuto, vengono pertanto affrontati da Sartre come vere e proprie affermazioni teoriche di verità, prodotte dalla fuoriuscita della coscienza dall’interiorità e dall’unificazione di “ideale e reale” [1]. La coscienza immaginante, dunque, è indagata da Sartre come testimone di un rapporto attivo col mondo e, come tale, negazione di un’interiorità rinchiusa in se stessa, in quanto quella particolare modalità di coscienza si pone in atto in un perpetuo superamento di se stessa verso un oggetto del mondo: le cose, le verità, i sentimenti, i significati fino all’io in una modalità tale che l’husserliano ritorno “alle cose stesse” può darsi ben oltre la sua fattività.

1. L’immagine e l’oggetto.

Esiste un alone di vaghezza e di alterazione rispetto al percepire e pensare “normale” che si manifesta ogni qualvolta la coscienza, intesa come essere per sé, appare come una pura spontaneità di fronte al mondo degli oggetti, che è pura inerzia, rappresentandosi questi come carichi di quei significati da cui vengono successivamente spogliati.

Quel surplus irriducibile di senso che traluce prima che gli oggetti siano “neutralizzati”, prima che ne venga scartata ogni polisemia e risonanza affettiva, è il risultato di un’attenzione discriminativa che opera spontaneamente la distinzione fra l’esistenza come oggetto e l’esistenza come immagine. L’immagine sembra distinguersi notevolmente dalla semplice presenza reale dell’oggetto (percepito), in quanto la prima non è costituita mentalmente in essere sul modello dell’esistenza fisica. La riflessione metafisica e la ricerca sperimentale non sono riuscite dunque, secondo Sartre, a comprendere la differenza fondamentale fra il fenomeno dell’immagine e quello della percezione.

Si prospettano dunque due differenti livelli di esistenza, l’esistenza-oggetto e l’esistenza-immagine. Da questo assunto di discriminazione qualitativa si sviluppa la riflessione sartriana. Riallacciandosi ai motivi fondamentali della fenomenologia husserliana, che intende l’immagine una differente intenzione nella quale è implicata una modalità attiva di apprensione, Sartre si avvia verso una eidetica (formalizzazione di senso) delle operazioni psichiche con l’obiettivo di tematizzare una forma di immaginazione consapevole: la coscienza che nella sua esistenza spontanea si genera da sé e che protende consapevolmente verso un oggetto, che passa così allo statuto di “cosa” [2]. La “cosa”, che resiste e dura come un tutto sintetico, è l’analogo di un oggetto irreale.

“[…] quando gli oggetti figurati vedono il loro senso abituale ridotto al minimo, come nei quadri cubisti […] le forme che afferriamo non sono più assimilabili […] a nulla di ciò che cogliamo abitualmente nel mondo. Tuttavia, posseggono una densità, una materia, una profondità, hanno rapporti di prospettiva gli uni con gli altri. Sono cose. E sono irreali precisamente nella misura in cui sono cose. […] Se si vuol dire con ciò che il quadro, per quanto privo di significato, si presenta in se stesso come un oggetto reale, si commette un grave errore.” [3].

Se per un verso la percezione e l’immaginazione mirano allo stesso oggetto, per un altro, è mediante l’immaginazione, come forma di coscienza, che gli oggetti intenzionati diventano significato. Si passa così dall’oggetto concepito sul modello di un’inerte esistenza fisica alla “cosa stessa”, che corrisponde ad una forma psichica [4], ovvero alla matassa di significati che il pensiero vede svolgersi quasi automaticamente sotto i suoi occhi, quasi che il contenuto abbia la forza di svilupparsi per conto suo, fuori del tempo. Complice di un forte depotenziamento dell’immagine fu, secondo Sartre, la psicologia sperimentale e metafisica (Taine, Bergson) che concepì quella come oggetto, secondo una modalità di esistenza sul tipo dell’esistenza fisica.

L’elemento comune a Taine e a Bergson, ovvero che l’immagine sia una cosa, presuppone secondo Sartre un approccio metafisico al problema. Ciò che è oggetto di discussione è, in questo caso, come questa cosa che è contenuta nella coscienza ha il suo cominciamento nella percezione (materialismo) o nel pensiero (idealismo). Prima di accogliere l’immagine come immagine, questi autori citati hanno formato pensieri apodittici sulla natura delle immagini in generale. Dal canto suo Taine pensò l’immagine come sensazione, proveniente dagli stessi centri della percezione e che si distingue da essa per gradi; allo stesso modo Bergson pensa la sensazione come immagine, distinguendo le immagini percepite ad occhi aperti e quelle immaginate ad occhi chiusi. Comune a tutti questi autori è dunque l’idea che l’immagine percettiva provenga dall’esterno e che sia fondamentalmente legata all’oggetto reale. Sempre secondo queste letture, l’immagine che si forma ad occhi chiusi è, invece, frutto di dinamiche inconsce di un pensiero-immagine che come una cosa sta dentro la coscienza.

2. I limiti dell’abitudine. Verso un’esperienza riflessiva.

Quali strategie rievoca Sartre per ridare alle cose un senso più pieno, meno appiattito sulla routine della quotidianità o meno interessato al dominio degli oggetti?

È chiaro che l’esistenza in immagine è un modo di essere molto difficile da cogliere. Innanzitutto, dice Sartre, dobbiamo sbarazzarci di quell’abitudine, che è quasi invincibile, di costruire tutti i modi di esistenza sul tipo dell’esistenza fisica. In realtà, un oggetto in immagine e un oggetto in realtà, non sono che quell’unico e stesso oggetto situato su due differenti piani di esistenza. Poiché l’immagine è l’oggetto, concludiamo che l’immagine esiste come l’oggetto. L’immagine non è in alcun modo la copia delle cose; essa possiede una natura interamente coscienziale, ed una sua funzione irriducibile alla riproduzione di oggetti materiali.

Per cogliere lo spessore, prima che l’abitudine prenda il sopravvento, cristallizzando la polisemia delle cose, attribuendo loro significati univoci legati al valore d’uso o di scambio, Sartre attraverso la lettura delle Idee di Husserl, che gli fornirà una teoria delle immagini radicalmente nuova, valorizza la spontanea epochè, costituita dal breve momento del risveglio, che segna il trapasso dalla logica del sogno a quella della veglia e permette, attraverso la momentanea sospensione del giudizio di esistenza o di attribuzione di predicati, di far traspirare il significato delle cose.

Rientra nei compiti di una psicologia fenomenologica porre in evidenza gli atti di coscienza e descriverne la struttura, senza tuttavia negare i procedimenti sperimentali e costituire l’ambito eidetico della psicologia, collocato nell’esperienza, come nel caso della psicologia sperimentale, tuttavia come “esperienza che precede ogni sperimentazione” [5].

Sartre ne L’imagination, testo da lui presentato come tesi nel 1926 per conseguire il diploma all’Ecole Normale Superieure, osserva come il sapere moderno e contemporaneo ha mancato il compito di elaborare un’adeguata dottrina del fenomeno dell’immaginazione; l’errore di fondo è stato quello di aver sempre collocato l’immagine e la facoltà immaginativa ad un livello “inferiore” rispetto al raziocinio. È stata infatti sempre considerata come una pallida copia degli oggetti “veri”, “reali”: dietro queste concezioni si celano una serie di fraintendimenti, che dipendono in generale dall’attribuire una posizione privilegiata alle “cose”, e all’assoggettamento ad esse degli strumenti conoscitivi dell’uomo. Il filosofo si pone a questo punto il problema della costituzione eidetica dell’immagine, intendendo descrivere, con questa operazione, esplicitandola, l’essenza formale dell’immagine. Psicologia eidetica (eidos, forma) significherebbe pertanto una rifondazione formale del senso e del significato dei momenti psichici, fra cui si contraddistingue, come vedremo, per intensità emotiva l’immaginazione, che non esaurisce più i suoi contenuti, come voleva la psicologia positiva, nel contenuto sensibile della coscienza, inteso restrittivamente come oggetto interno, fornito di un significato inerte.

L’immagine, divenendo una struttura intenzionale, passa dallo stato di contenuto inerte di coscienza a quello di coscienza una e sintetica in relazione con un oggetto trascendente.” [6].

Invece che limitarsi a registrare acriticamente la realtà esterna (di oggetti inerti), la coscienza costituisce attivamente e spontaneamente le “cose” verso cui si proietta.

Esiste dunque una distinzione esistenziale fra oggetto percepito, come un questo o un quello (facendo ricorso, per descriverlo, a nomi di posizione) e cosa in immagine, prodotto del rapporto della coscienza con la cosa assente, irreale, fluttuante nell’orizzonte del possibile. Del resto per il fenomenologo, i cui interessi, come nota Sartre, “si pongono subito sul terreno dell’universale”, “ha poca importanza che il fatto individuale fungente da supporto all’essenza sia reale o immaginario. Anche se il dato ‘esemplare'”, prosegue, “fosse una pura finzione, perché potesse essere immaginato è pur stato necessario che realizzi in sé l’essenza cercata, giacché l’essenza è la condizione stessa della sua possibilità” [7].

3. L’immagine nell’arte: il cavaliere di Dürer.

Per far emergere un diverso rapporto con le cose che non si limiti al loro essere presenti e a portata di mano, Sartre, attraverso la mediazione di Husserl, fa riferimento al ruolo privilegiato svolto dall’arte. Con l’ausilio dell’immaginazione, che, come nota Deleuze, “riflette un oggetto singolare dal punto di vista della forma” [8], l’arte è stata sempre chiamata a restituire l’eccedenza di significato sottratta alle cose dall’usura dell’abitudine, a rinvenirne l’aura, in quanto paradossale distanza che ce le avvicina [9].

Secondo questa prospettiva, è possibile intendere il territorio dell’immaginazione artistica come atopia, luogo inclassificabile, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, né a quello, che ne è l’opposto speculare, dell’utopia, del non-esistente per definizione.

“[…] la sala, il direttore d’orchestra e l’orchestra stessa sono spariti. Sono di fronte alla settima sinfonia, ma all’esplicita condizione di non sentirla in nessun luogo, di cessar di pensare che l’avvenimento è attuale e datato; a condizione di interpretare la successione dei temi come una successione assoluta […]. La Settima sinfonia non è affatto nel tempo. Sfugge dunque interamente al reale. Si dà in persona, ma come assente, come irraggiungibile.” [10].

Si tratta di una zona insituabile in cui il desiderio (cognitivo ed affettivo insieme), trova, in forma provvisoria, un maggiore appagamento.

Si tratta, nel caso di Sartre, di quelle immagini, come il cavaliere, la morte e il diavolo nell’omonima incisione di Dürer, che hanno il potere di animare un contenuto hyletico, una “materia-oggetto”, mediante l’intenzionalità. Nella considerazione estetica non ci rivolgiamo a queste cose come ad oggetti, ma essendo rivolti alle realtà raffigurate, prescindiamo dal considerare la semplice materia come discrimine fra l’immagine e la percezione:

Tutto dipende dal modo di animazione di questa materia, cioè da una forma che sorge dalle strutture più intime della coscienza” [11].

Sartre cerca di focalizzare questa eccedenza di senso che le cose assumono, sia rispetto alla loro perdita delle qualità secondarie, sia in particolar modo rispetto al ricordo culturale per effetto di un pensiero tecnico immemore delle sedimentazioni di senso depositate dal passato sulle cose. Come mostra l’esempio prima richiamato, la pittura, nella sua soggettività irreale, è in questo senso capace di operare tale resurrezione delle cose, restituendo loro una pluralità di sensi che il riduttivismo meccanicistico e naturalistico hanno fatto loro perdere perchè la materia, da sola, non è in grado di distinguere un’immagine da una percezione.

La funzione dell’immaginazione non è pertanto quella di riprodurre o conoscere la realtà: “percepire un uomo anziché un albero non è formare un’immagine di un uomo, ma solo mal percepire un albero”. È quindi opportuno non confondere la percezione con l’immaginazione: la prima non ha nulla a che fare con la seconda. L’immagine nasce nell’interno del soggetto, ed è connessa con la stessa capacità intenzionale della coscienza. Occorre a tal fine scavare, come insegna la fenomenologia di Husserl, nel mondo della vita, per trovare nelle cose una vita diversa da quella immobilizzata dallo sguardo immobilizzante delle scienze dell’oggettività. La coscienza immaginativa è molto simile a quella del centauro (di cui nego l’esistenza) che al ricordo di una situazione reale vissuta. Più in generale, potremmo dire che l’immaginazione è una libera attività della coscienza, che punta a fini completamente diversi da quelli della percezione.

La diversità tra percezione e immaginazione dipende da un diverso rapporto con la realtà: come definizioni Sartre ha suggerito “realizzante” l’atto della coscienza percettiva ed “irrealizzante” l’atto della coscienza immaginativa. L’atto percettivo è detto realizzante perché il suo compito è quello di rappresentare e ricostruire a livello coscienziale la realtà. L’atto immaginativo, è detto invece irrealizzante perché quando immagino qualcosa, questo qualcosa non è una copia dell’oggetto, né è l’oggetto stesso. È un qualcosa di analogo che è separato dal contesto, che nega l’oggetto nel suo essere reale: per questo l’atto dell’immaginazione è al tempo stesso costituente, isolante e annullante. Mentre la percezione è una funzione conoscitiva, l’immaginazione coglie qualcosa nella sua immediatezza, attraverso una “quasi osservazione” che è del tutto indifferente a criteri di verità o falsità. Mentre la percezione si dispone in maniera recettiva di fronte alle cose, l’immaginazione è una funzione attiva, è il prodotto di un’attività cosciente. Mentre la percezione ci da rappresentazioni particolari degli oggetti, l’immaginazione offre rappresentazioni globali.

Come vediamo accadere, per es., nella fruizione di un’opera d’arte, si tratti di un quadro, di una scultura o di un corpo umano, se si recinge l’oggetto d’osservazione con un contenuto netto, si è fedeli alla geometria ma non al mondo visibile, in cui il contorno è “il limite ideale verso cui i lati fuggono in profondità” [12].

Rispetto alle analisi husserliane del mondo della vita, Sartre compie così un passo in avanti in direzione dell’arte, ponendosi il problema di far rinascere le cose, di farle scaturire dall’involucro della loro stessa quotidianità. Il filosofo francese passa così attraverso l’indebolimento dell’essenza del pensiero tecnico e metafisico, propiziando l’attivazione di un pensiero libero e spontaneo, che trascendendo il mondo, avvolge, mediante l’immaginazione, l’universo del possibile. L’oggetto estetico è costituito e appreso da una coscienza che, immaginando, lo pone come irreale [13].

La coscienza umana deve essere nello stesso tempo “fra le cose” e trascendente le cose: per formare immagini, la coscienza deve essere libera nei confronti di ogni realtà particolare, e questa libertà deve potersi definire con un “essere nel mondo”, che è a un tempo costituzione e annichilazione del mondo; la situazione concreta della coscienza nel mondo deve in ogni istante servire da motivazione singolare alla costituzione d’irreale, proprio come accade nell’arte. A riprova di ciò, in sede estetica, Sartre mostra che la coscienza percepisce i valori artistici di un’opera solo se e quando entra in rapporto con tale opera non con la percezione, ma con l’immaginazione; separandola cioè dal suo contesto mondano ed astraendone i contenuti. Il bello non sta nelle componenti concrete e visibili dell’opera, e neppure nel piacere psicofisico che ne possiamo trarre, bensì nel suo darsi come “essenza”.

Come ha ben mostrato l’esempio del cavaliere di Dürer, che Sartre mutua da Husserl, per il pensiero tecnico scientifico che pretende di cogliere le cose prima e meglio di ogni altra esperienza, l’incisione in rame è il risultato della produzione di un pittore che ha raffigurato sul rame alcuni oggetti presi a prestito dalla realtà fisica, il cavaliere con il suo elmo, il cavallo con le briglie. Si tratta, in questo caso, di un atteggiamento di percezione normale, il cui correlato è la cosa “foglio inciso a rame”. Già con il passaggio dalla mera percezione alla coscienza percettiva, si creano le condizioni per la considerazione estetica, per cui attraverso la rappresentazione delle “figure” percepite nell’opera, non ci rivolgiamo più ad esse come ad oggetti, bensì come a cose dotate di una pluralità di sensi e dotate di tonalità emotive. Lo scopo dell’artista è quello di costituire un insieme di toni reali che permettano all’irreale di assumere una forma [14].

Quest’ultimo caso esprime la capacità di negare l’essere nella prospettiva di un nuovo essere, che ancora non è ma che può essere; è la facoltà di distanziarsi da una determinata situazione in nome o in vista di una nuova situazione, e la coscienza che immagina, secondo la lettura di Sartre, fa tutto questo spontaneamente. Un risultato, che per Sartre, non era stato possibile osservare attraverso i risultati della psicologia sperimentale, a causa evidentemente del metodo utilizzato per la comprensione della natura dell’immagine.

Le cose rappresentate perdono la loro immobilità e passano allo stato di “figure” che incorporano relazioni sociali e naturali, e che assorbono una patina mitica, un valore simbolico che non è riducibile a meri schemi conoscitivi. Il processo prima richiamato di “animazione della materia” rende le cose, attraverso il linguaggio e l’espressione artistica in genere, crocevia di relazioni, supporti di una diversa possibile esperienza non manipolata. La materia dunque non è più una semplice proprietà di un oggetto nel mondo, a portata di mano, ma comunica un nucleo di significati che si sprigiona solo grazie a questa messa tra parentesi, alla sottrazione dell’oggetto alla sua immediatezza, che riesce a far parlare la “cosa stessa”, la quale si articola così virtualmente nel suggerire un universo di significati, di volta in volta dischiusi e intimamente costitutivi del raffigurato.

4. L’emozione come forma magica dell’esistenza.

Fedelmente custodita nel dominio dell’arte, l’emozione, rappresenta per Sartre una forma di esistenza che rinvia ad un fenomeno trascendentale puro. Solo a partire dalle osservazioni fin qui condotte sull’immaginazione è possibile osservare la coscienza che agisce nel mondo, attraverso le sue reazioni emozionali. Già Heidegger aveva notato come, nella situazione emotiva, l’Esserci incontrasse se stesso nella forma della fuga e dell’evasione [15], così il procedimento fenomenologico, diversamente dagli approcci classici della ricerca psicologica, mira all’emozione come significato. Come per l’immagine, non si parte più dallo “stato psichico”, dal “fatto” o dal fenomeno corporale fisico, ma dal fenomeno in quanto “significa”.

Attraverso la mediazione di William James, Pierre Janet e la psicoanalisi, Sartre intreccia la propria indagine con la psicologia della forma, e più in particolare con i risultati delle ricerche di Tamara Dembo. Janet aveva descritto l’emozione sul piano psicologico empirico non come correlato di una turba ma come una “condotta di insuccesso”, inadeguata, su cui il soggetto ripiega. A riprova di ciò, Heidegger, ne L’origine dell’opera d’arte (1935) [16], confermava come nell’opera d’arte si avesse una rivelazione estatica della realtà autentica, che avviene mediante uno choc emotivo o urto (Stoss), in contrapposizione all’inautenticità della vita quotidiana. Su una linea simile, la psicologia della forma aveva compreso l’emozione come “indebolimento della barriera tra reale e irreale”. Sartre, con il supporto della teoria fenomenologica, si concentra sull'”essenza” dell’emozione, considerando il fenomeno emozione non come il prodotto dell’osservazione di una condotta empirica, ma come coincidente con l’esperienza di una “condotta irriflessa”, vissuta prima di essere pensata e conosciuta, e operante una trasformazione “magica” del mondo, proprio come si è visto accadere nell’arte.

“Ora possiamo intendere che cos’è un’emozione : è una trasformazione del mondo. Quando le vie tracciate diventano troppo difficili o quando non scorgiamo nessuna via, non possiamo più rimanere in un mondo così pressante e così difficile. Tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire. Allora tentiamo di cambiare il mondo; cioè di viverlo come se i rapporti delle cose con le loro potenzialità non fossero regolati da processi deterministici, ma dalla magia.” [17].

Se il mondo dominato dalla tecnica induce comportamenti secondo “prudenza”, riscontrabili nell’atteggiamento di mera percezione degli oggetti organizzati alla stregua di utensili, nel mondo emozionato, in quanto dimensione esistenziale, la coscienza, come condotta del mondo spontanea irriflessa [18], tende a modificare gli oggetti mediante modificazioni magiche del mondo, comprendendo in modo simbolico il proprio “essere nel mondo”. Allo stesso modo, lo stadio affettivo, pur essendo coscienza, non può esistere senza un analogon trascendente [19]. Modificando i nostri atti intenzionali, come in un mutamento di condotta, possiamo dunque cogliere un oggetto nuovo o un oggetto già noto in una nuova modalità. Per ottenere questo effetto non è necessario, secondo Sartre, che fa eco a James, porsi su di un piano riflessivo. Tuttavia, come notava già lo stesso Heidegger, irriflessione non è sinonimo di uno statuto inconscio, bensì di una condotta spontanea della coscienza, in quanto la tonalità emotiva è un modo di essere originario in cui il nostro essere nel mondo è già aperto a se stesso “prima di ogni conoscere e volere e al di là della portata del loro aprire” [20]. Nella lettura sartriana, è il corpo umano a fare da testimone della condotta emotiva:

“Non si creda che la condotta fisiologica [per esempio] della paura passiva sia disordine puro. Essa rappresenta l’improvvisa realizzazione delle condizioni corporali che accompagnano ordinariamente il passaggio dallo stato di veglia al sonno. […] Così ci si presenta il senso reale della paura: è una coscienza che mira a negare, attraverso una condotta magica, un oggetto del mondo esterno e che arriverà ad annullarsi, per annullare con sé l’oggetto.” [21].

Sartre prosegue tracciando così i contorni delle emozioni:

“La tristezza mira a sopprimere l’obbligo di […] trasformare la struttura del mondo, sostituendo l’attuale costituzione del mondo con una struttura totalmente indifferenziata. Si tratta insomma di fare del mondo una realtà affettivamente neutra, un sistema in totale equilibrio affettivo, di depotenziare gli oggetti dotati di forte contenuto affettivo, di ridurli tutti allo zero affettivo […] facciamo in modo che l’universo non esiga più nulla da noi.” [22].

Così l’uomo gioioso, “non sta nella pelle, fa mille progetti […] la sua gioia è stata provocata dall’apparizione dell’oggetto del desiderio. […] La gioia è una condotta magica che tende a realizzare per incanto il possesso dell’oggetto desiderato, come totalità istantanea. […] Le diverse attività della gioia, come l’ipertono muscolare, la vasodilatazione leggera, sono animate e trascese da un atto intenzionale che attraverso di esse cerca di cogliere il mondo. […] Ballare, cantare di gioia, rappresentano modi di condotta simbolicamente approssimativi, degli incanti. Attraverso di essi, l’oggetto – che si potrebbe possedere realmente solo mediante modi di condotta prudenti e malgrado tutto difficili – è posseduto d’un sol tratto e simbolicamente.” [23]

Tutte le emozioni concorrono dunque alla costituzione di un mondo magico, facendo utilizzo del corpo come “mezzo d’incanto” [24]. Quando cadiamo in balia dei processi emotivi, frutto di quell’atteggiamento del tutto originale di intenzionalità verso gli oggetti, le qualità colte sono credute come vere. La credenza è un modo di relazionarsi alla necessità dei processi fisiologici che accompagnano il nascere di una specifica tonalità emotiva, in quanto l’emozione è il comportamento di un corpo che è in un certo stato. La condotta da noi assunta in concomitanza di uno specifico regime fisiologico, rappresenta “la forma e il significato” di tale fenomeno secondo un precisa forma sintetica.

“Per comprendere chiaramente il processo emozionale a partire dalla coscienza, occorre tener presente quel carattere duplice del corpo che è da una parte un oggetto nel mondo, e dall’altra il vissuto immediato della coscienza. […] l’emozione è un fenomeno di credenza. La coscienza non si limita a proiettare significati affettivi sul mondo che la circonda: vive il mondo nuovo che ha costituito.” [25].

Forse non è un caso che per Gaston Bachelard, contemporaneo di Sartre, insegnante di Fisica nei collegi e successivamente studioso di Storia e Filosofia della Scienza, più che di immaginazione, sarebbe stato più opportuno parlare di una “poetica” dell’immaginazione, in quanto quest’ultima era fortemente debitrice dell’istinto umano e aveva un’origine nel corpo, sede delle emozioni. Secondo Bachelard, infatti, se è vero che l’uomo è un corpo, l’immagine è all’origine dell’esperienza umana, e mentre nell’animale l’istinto si traduce in azioni e comportamenti, nell’uomo si trasforma in immagine [26].

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Note

1. Cfr. B. CROCE, Impressioni sul Sartre, in ID., Pagine sparse, Laterza, Bari 1949, pp. 166-70. (^)

2. Si sottolinea in questo passaggio la fondamentale differenza fra l’oggetto (fisico) e la cosa (significato). Sia il greco pragma che il latino res o il tedesco Sache (diverso tanto da Ding quanto da Gegenstand) non hanno a che vedere con l’oggetto fisico in quanto tale, ma con ciò che collettivamente ci interessa. Lo rivela anche l’etimologia dell’italiano “cosa” o del francese “chose”, che è contrazione di causa o cause, nel senso di ciò che ci sta a cuore, che riteniamo importante. Così quando Aristotele parla dell’ auto to pragma (della “cosa stessa”), Hegel della Sache selbst o Husserl del ritorno, mediante l’ epochè, alle “cose stesse” (zu den Sachen selbst) non si riferisce agli oggetti fisici, ma a quella rete di significati che si sviluppano quando il pensiero raggiunge la sostanza. Cfr. R. BODEI, La cosa e l’oggetto, in Pensiero, parola, scrittura. Filosofia e forme della rappresentazione, a cura di E. Moriconi e S. Perfetti, ETS, Pisa 2007, pp. 15-23. (^)

3. J.P.SARTRE (1940), Immagine e coscienza, trad. it. di E. Bottasso, Einaudi, Torino 1948, p. 280. (^)

4. Ivi, p. 202. (^)

5. J.P. SARTRE (1936), L’immaginazione, in L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, trad. it., Bompiani, Milano 2007, p. 134. (^)

6. Ivi, p. 137. (^)

7. Ivi, p. 132. (^)

8. G. DELEUZE (1963), La filosofia critica di Kant, Cappelli, Bologna 1979, p. 110. (^)

9. Cfr. R. BODEI, La cosa e l’oggetto, in ID., ed. cit., p. 17. (^)

10. J.P.SARTRE (1940), Immagine e coscienza, ed. cit., pp. 283-84. (^)

11. J.P. SARTRE (1936), L’immaginazione, ed. cit., p. 139. (^)

12. R. BODEI, La cosa e l’oggetto, in ID., ed. cit., p. 20. (^)

13. J.P.SARTRE (1940), Immagine e coscienza, ed. cit, p. 281. (^)

14. Ivi, p. 279. (^)

15. M. HEIDEGGER (1927), Essere e tempo, trad. it. di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp. 173-74. (^)

16. Cfr. M. HEIDEGGER (1935), L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1969. (^)

17. J.P. SARTRE (1939), Idee per una teoria delle emozioni, in L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, trad. it., Bompiani, Milano 2007, p. 188. (^)

18. Ivi, p. 187. (^)

19. J.P.SARTRE (1940), Immagine e coscienza, ed. cit, p. 206. (^)

20. M. HEIDEGGER (1927), Essere e tempo, ed. cit., p. 174. (^)

21. J.P. SARTRE (1939), Idee per una teoria delle emozioni, ed. cit., p. 191. (^)

22. Ivi, p. 192. (^)

23. Ivi, pp. 194 -95. (^)

24. Ivi, p. 195. (^)

25. Ivi, p. 198. (^)

26. Cfr. G. BACHELARD, La terre et les rêveries de la volonté, Paris 1948. (^)

Riferimenti bibliografici

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