L’immaginario primitivo che non è mai passato

Miti e SimboliQualche settimana fa, alcuni quotidiani hanno riportato la sensazionale scoperta di una delle ultime tribù “primitive” dell’Amazzonia occidentale – al confine tra Perù e Brasile – ancora sfuggite ad ogni forma di contatto con l’uomo bianco. Questa notizia è stata poi rettificata da un esperto come José Meirelles del Funai brasiliano che ha dichiarato che gli “uomini rossi” sono noti dal 1910 anche se da allora hanno avuto pochissimi contatti con il cosiddetto mondo civilizzato.

L’immaginario primitivo che non è mai passato

di Antonio D’Alonzo

Qualche settimana fa, alcuni quotidiani hanno riportato la sensazionale scoperta di una delle ultime tribù “primitive” dell’Amazzonia occidentale – al confine tra Perù e Brasile – ancora sfuggite ad ogni forma di contatto con l’uomo bianco. Questa notizia è stata poi rettificata da un esperto come José Meirelles del Funai brasiliano che ha dichiarato che gli “uomini rossi” sono noti dal 1910 anche se da allora hanno avuto pochissimi contatti con il cosiddetto mondo civilizzato.

Il reportage mostra la foto – davvero commovente – degli “uomini rossi” intenti a lanciare frecce contro gli elicotteri, scambiati per grossi uccelli.

Credo che quest’immagine, più di ogni altra, possa assurgere a simbolo ed icona di quel lembo residuo del pianeta che ancora sfugge alla “globalizzazione”: le frecce scagliate contro gli elicotteri-uccelli! Se il pianeta si sta avviando ad essere progressivamente globalizzato – già Kant aveva messo in evidenza come la superficie sferica e non discoidale della Terra avrebbe portato inevitabilmente all’esaurimento dell’eterogeneo, all’economizzazione del marginale, del confine – gli uomini dall’epidermide dipinta di rosso rappresentano la résistance localistica al pensiero unico, alla scomparsa della Differenza: si potrebbe aggiungere che, affievolitosi lo spirito di Seattle, l’istanza no-global, o alter-global, passa da quelle frecce, da quegli archi.

Sono ormai da considerare superate le tesi di Lévy-Bruhl che individuavano nella mentalità primitiva un tipo di pensiero prelogico, prerazionale, alieno ai principi d’identità e non-contraddizione; con gli studi di Griaule sui Dogon finalmente si è compreso come anche il pensiero “primitivo” si radica su una cosmogonia, su una teologia, seppure arcaica: in altre parole come dovevano essere abbandonati sia l’ideologismo rousseauiano del “buon” selvaggio indistintamente con-fuso nella Natura, sia il pregiudizio hegeliano del continente africano come luogo dell’infanzia dello Spirito.

L’immaginario dell’uomo contemporaneo è affine a quello dell’uomo “primitivo”: non riattualizza soltanto mitologemi gnostici, ermetici o del paganesimo greco-romano, ma contiene anche elementi animistici o fondati sulla mistica del sacrificio cruento. Con questa nuova consapevolezza viene ad essere sconfessato un certo impianto proto-evoluzionista in voga nel tardo Ottocento con cui si pensava alla storia umana come ad un’unica ferrovia deterministicamente percorsa da medesime fermate e stazioni: animismo-politeismo-monoteismo. La storia non è un binario di tappe “magnifiche e progressiste”: le civiltà “primitive” hanno già una loro storia, magari meno turbinosa di quella europea, ma che comunque possiede una propria dignità culturale. Dal canto suo il pensiero “primitivo” è tutt’altro che eterogeneo da quello moderno. Già Jung si è accorto che dietro al “sentimento oceanico” di Freud, la fusione estatica con l’Altro (paesaggio naturale, opera d’arte, o oggetto sessuale) si ritrova la partecipation mistique descritta da Lévy-Bruhl. Con uno sguardo critico più vicino al nostro tempo si deve ricordare come, a parte i fervidi ed interessanti sviluppi posteriori dell’etnopsichiatria contemporanea, le tesi edipiche di Totem e tabu risultano alquanto infondate: anche se a scusante di Freud si deve addurre l’insufficiente documentazione etnografica dell’epoca in cui il padre della psicoanalisi scriveva.

Molti archetipi – o esseri extraumani puramente mitici o esistenti nel presente, per usare la classificazione di Brelich – abitano ancora l’immaginario surmoderno: pensiamo al trickster (vedi Il Trickster), il buffone ordinatore/demiurgo dell’ordine esistente; o all’eroe culturale che fonda il clan o la comunità. Pensiamo ai numerosi tatuaggi tribali, i piercing, il branding e le scarificazioni: decorazioni corporali che si basano sull’idea del dolore come prova iniziatica da superare, magari ripetendo e riattualizzando le gesta primordiali del primo uomo o dell’eroe culturale.

Anche le dinamiche   aggregazionali cui sottendono gli ultras del calcio rispondono agli stessi meccanismi di “logica del beduino” dove ci si scontra tra bande appartenenti a squadre della stessa città, ci si coalizza contro tifosi “forestieri”, ci si unisce nello spirito nazionalistico del “sangue e del suolo” per la selezione nazionale contro fans di altre nazionali. La “logica del beduino” si presenta in gruppi di giovani devianti dove molto forte è il richiamo nazionalistico, come negli ultras dei paesi slavi, tedeschi e britannici. In altri paesi come l’Italia l’elemento nazionalistico è meno sviluppato e   l’aggressività si manifesta prevalentemente al primo livello delle microidentità legate ai quartieri o alle periferie.

Anche nelle discoteche o nei rave si verificano delle pulsioni aggregazionali speculari, più legate ad una sfrenatezza erotico-dionisiaca che a pulsioni distruttive (thanatos). Ho definito le pulsioni del “sabato sera” come erotico-dionisiache, ma niente vieta di collegarle a suggestioni di tipo sciamanico. In Genealogia dell’immaginazione (EdizioniLuz, Roma 2008) ho affrontato la questione dell’efficacia dello “sciamanismo metropolitano”; ma al di là di queste domande epistemologiche è chiaro che dal punto di vista sociologico il fenomeno esiste ed è diffuso, a prescindere da tutti i giudizi di merito che possiamo formulare: il miscuglio di droghe psicotrope o allucinogene, musica ipnotica ed assordante e danze frenetiche richiama un tipo di sciamanismo che è tipico dei clan e delle tribù subartiche. Che cosa può assicurare il richiamo di simili revivals nella mentalità del giovane contemporaneo se non il persistere di un immaginario comune, condiviso, con il “primitivo”?

Una civiltà è considerata “primitiva” quando non conosce la scrittura, la cereo agricoltura e l’aratro, non ha stratificazione sociale, presenta agglomerati numericamente limitati e non ha abitazioni solide o particolarmente elaborate, ecc. Perché, dunque, il “primitivo” persiste come survivals nella psiche contemporanea? Una possibile risposta deve essere trovata nel fatto che ciò che oggi viene definito come “psicosi” o “psicopatologia” è una dimensione usuale dell’anima “primitiva”, specialmente quando essa si confronta con la manifestazione epifanica del sacer, del terrore che irrompe da una Natura avvertita come forza dirompente ed estranea, ma di cui si sente comunque parte. Questo non significa, però, che ha ragione Lévy-Bruhl, ma piuttosto che l’immaginario presenta delle stratificazioni atemporali ed il processo filogenetico che porta alla formazione delle strutture culturali deve assicurare anche il ritorno, la “reintegrazione” nel punto d’origine, nello stadio ontologico primordiale.

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