Il Bambino nascosto /5.2

Psicologia

C’era una volta, tanto e tanto tempo fa, così tanto che con il calendario degli uomini non si può proprio misurare, un piccolo paese che stava sospeso a mezz’aria, fra la terra e il cielo, come di solito fanno le nuvole quando viaggiano intorno alla terra. 

Il Bambino nascosto /5.2

di Alba Marcoli

(continua) Capitolo quinto. La perdita

Sommario: La strada dell’individuazione – Favola numero 13 – Favola numero 14 – Favola numero 15 – Il tema della perdita

Favola numero 15 

Il paese delle pagine ferme 

“D’altri diluvi una colomba ascolto.” G. Ungaretti, “Una colomba”. 

C’era una volta, tanto e tanto tempo fa, così tanto che con il calendario degli uomini non si può proprio misurare, un piccolo paese che stava sospeso a mezz’aria, fra la terra e il cielo, come di solito fanno le nuvole quando viaggiano intorno alla terra. 

Solo che questo paese, al contrario delle nuvole, era sempre fermo e guardava indifferente la terra che invece gli girava sotto nel suo instancabile viaggio del giorno e della notte intorno a se stessa e del susseguirsi delle stagioni intorno al sole. 

Era proprio un paese del tutto particolare, che dal punto di vista del tempo con i ritmi della terra aveva ben poco da spartire. 

C’erano un re e una regina, un principino e una principessina, tutti molto contenti di governare, dei sudditi molto contenti di essere governati e così via. Il castello reale stava sospeso un po’ più in alto del paese, con una scalinata d’aria che portava dalla piazza principale fino al suo ingresso e con una splendida balaustra riccamente cesellata, fatta anch’essa di aria pregiata non inquinata. 

E davanti all’ingresso c’erano sempre quattro guardie in alta uniforme che accoglievano i visitatori. 

Il luogo più frequentato di tutto il regno non era però il castello del re, ma la piazza principale dove sorgeva uno strano edificio sospeso anch’esso a mezz’aria come tutte le costruzioni di quel luogo. 

Era la biblioteca del paese, anch’essa un po’ strana perché non aveva niente a che fare con quelle degli altri paesi di questo mondo, cioè non racchiudeva i libri che erano stati scritti, ma quelli delle vite che si scrivevano in quel momento, in qualsiasi parte di quel mondo che girava di sotto. 

C’erano tantissime sale, una per i libri appena iniziati, una per quelli che erano a metà, una per quelli che stavano per finire e così via, tutti regolarmente arrivati dalla Terra con carichi postali che in quel paese funzionavano per davvero. 

Ma fra tutte le sale sterminate che si susseguivano in quella biblioteca, la più strana era quella dove stavano i libri che a un certo punto avevano smesso di scorrere e si erano fermati su una pagina che non riuscivano mai a girare. 

Era la sala d’attesa per voltare pagina nella vita e i libri che riuscivano a farlo passavano da lì a un’altra sala, quella dove si chiudevano i capitoli, dopodichè erano pronti per essere completati, come tutti i libri che si rispettino, da che mondo è mondo. 

Ma da un po’ di tempo a questa parte, nell’epoca di cui si parla, succedeva una cosa strana in quella biblioteca ed era che la sala dei libri che attendevano di voltare pagina diventava sempre più piena e affollata e dall’ufficio postale del paese interi carri anche loro fatti d’aria non facevano altro che scaricare i volumi fermi su una pagina che arrivavano dalla Terra. 

Il Gran Consiglio dei Vecchi andò dal re di quel paese a discutere del problema. 

«Non ce la facciamo più ad andare avanti così, sire» disse un vecchio «e non sappiamo come fare per quelli che arriveranno col prossimo carico postale.» 

«Non si possono portare i libri più vecchi nella sala dei capitoli che si chiudono in modo da fare altro spazio?» chiese allora il re che era una persona pratica e di buon senso. 

«Ci abbiamo provato, sire, ma non è servito a nulla. I libri vanno avanti, è vero, e i capitoli si chiudono, ma le pagine che vengono voltate restano tutte bianche, non ci troviamo scritto niente, oppure vengono scritte delle cose quotidiane poco importanti e così banali che non hanno niente a che fare con il libro della vita.» 

«Ohibò» fece il re grattandosi la zucca, il che era sempre segno di pensieri molto elevati. «Eppure la vita che gli uomini vivono è quella quotidiana, del giorno dopo giorno, non quella delle pagine prima o di quelle dopo. Com’è possibile che se ne dimentichino e la rendano così banale e poco importante?» 

«Io ci ho pensato a lungo» rispose allora un altro vecchio «ma non ho trovato la spiegazione giusta. So solo che nei libri che ho letto con cura ho osservato spesso una cosa che si ripete.» 

«Che cosa?» chiesero allora gli altri incuriositi. 

«Mi sembra» continuò il vecchio «che sia soprattutto in due casi che le pagine dei libri della vita facciano fatica a voltarsi. 

Un caso, più raro, è quello in cui su quella pagina è stato scritto qualcosa che piace così tanto oppure che il ricordo fa diventare così bello che poi non si ha il coraggio di voltar pagina per paura di non trovare più scritte cose simili. 

Questo però mi sembra meno frequente come caso. 

Credo che invece capiti più spesso, quello in cui non si volta pagina perché non piace per niente quello che c’è su quel foglio, come se ci fossero o un vuoto da riempire oppure delle cose già scritte che si vogliono cambiare. Mi pare che sia questo il caso più difficile.» 

«Ma quando gli uomini si fermano su una pagina, ne conoscono il motivo?» chiese allora il re che, come spesso succede a quelli abituati a governare, faceva un po’ fatica a rinunciare al proprio pensiero per ascoltare quello degli altri. 

«Io non credo che lo sappiano, sire, almeno nei pensieri abituali che hanno ogni giorno, però questo non cambia la cosa.» 

«Secondo voi» disse allora una vecchia che fino ad allora era sempre stata zitta «perché certi libri riescono a voltar pagina e altri no?» 

«Forse perché è più difficile voltar pagina lasciando un vuoto da riempire o delle cose scritte che non piacciono. Soltanto che gli uomini di solito non se ne accorgono perché non dedicano del tempo a rileggere i loro libri. E inoltre, per potersene accorgere, bisognerebbe leggerli con occhi nuovi, non con quelli che uno è abituato a usare da sempre.» 

Fu allora che la vecchia ebbe un’idea geniale. 

«Proviamo a prendere un qualsiasi libro fermo su una pagina» disse allora «e scendiamo sulla Terra per vedere che cosa succede alla persona che lo sta scrivendo, così forse riusciremo a scoprire come fare.» 

Un gruppo di vecchi lanciò allora una monetina per aria, prese un libro a caso, lo aprì e scese sulla Terra per cercare la persona che lo stava scrivendo in quel momento. 

E poiché i vecchi erano abituati a vivere sospesi ed erano anche loro fatti d’aria pura e trasparente, quando arrivarono sulla Terra non ci fu nessuna difficoltà e nessun uomo li notò. 

Si sparpagliarono e cercarono con cura e a lungo finché un giorno, finalmente, dopo tanta ricerca, incontrarono la persona che stava scrivendo quel libro. Era un ragazzo di poco più di vent’anni che doveva girare una pagina importante nella vita. 

«Chissà come è contento,» pensarono allora i vecchi «beato lui che ha vent’anni e tutta una vita davanti!» Ma quando lo guardarono in viso e ascoltarono i suoi pensieri, stupiti e commossi, si resero conto che non era proprio così. 

«Chi sono io?» continuava a pensare il ragazzo fra di sé. «Chi me lo sa dire? Sono il bravo ragazzo che ha detto sempre di sì ed è stato per tutta la vita buono e obbediente per sentirsi amato dagli altri? Oppure sono il bambino arrabbiato e triste che non aveva nessuno con cui giocare? O quello che quando la mamma era addolorata, si sentiva impotente a scacciare il suo dispiacere nonostante tutti i suoi sforzi? O il bambino che provava una grande ansia ogni volta che sentiva litigare, così grande che gli sembrava che riempisse tutto il suo piccolo corpo e il suo mondo? O sono il ragazzo ormai grande che non sopporta il minimo contrasto con le persone che contano per lui, senza il cui amore gli sembra di non poter vivere? Oppure sono la voglia che mi sento dentro di rompere io stesso i legami e abbandonare tutti per non essere abbandonato?» 

E mentre questi pensieri gli si accavallavano nella mente il suo cuore era come preso dentro una tempesta di emozioni e di venti che soffiavano da direzioni diverse, ed erano così forti che lui doveva congelarli per non farsene travolgere, cosicché il suo viso restava sorridente e impassibile, tranne che per gli occhi che erano tristi e seri. 

I vecchi del paese a mezz’aria si guardarono stupiti. 

«Finalmente capiamo perché non si riesce a girar pagina!» disse infine uno di loro. 

« È quando ci sono ancora troppe cose da vivere in quella precedente. Ha proprio ragione lui, è difficile girar pagina con tutte queste tempeste emotive dentro. Bisogna che si calmino un po’, prima.» 

E fu così che i vecchi tornarono al loro paese per pensare, ascoltare e ricordare bene le loro stesse tempeste emotive di quando erano giovani, perché avevano tutti provato molta simpatia nei confronti del dolore e della rabbia, della fragilità e della gelosia, della dolcezza e del rancore, della tenerezza e della pena che c’erano nel cuore del ragazzo, anche se da fuori non si vedevano per niente perché erano molto ben nascosti. 

E fu pure così che alla fine decisero che la cosa migliore che potessero fare era che uno di loro, quello che era stato più intenerito e meglio capiva il ragazzo in tempesta perché le stesse cose erano successe anche a lui da giovane, scendesse sul mondo per accompagnarlo senza essere visto nel cammino di rileggere con occhi nuovi, ogni notte in sogno, il libro della sua vita fino ad allora, per riuscire finalmente a girar pagina. 

E così, notte dopo notte, il vecchio accompagnò il ragazzo nei suoi sogni con l’attenzione, il rispetto e l’amore che gli erano necessari e lui poté cominciare a rileggere con occhi nuovi e con meno paura il proprio libro, che fino ad allora aveva accuratamente evitato per non incontrare di nuovo il dolore di certe pagine.

E i sogni gli insegnarono ad ascoltare le sue emozioni, a riconoscerle e a dar loro un nome, invece di inseguirle sempre negli altri per paura di restarne senza. 

E quando il ragazzo le ebbe finalmente riconosciute non si sentì più solo come prima, quando gli sembrava di avere un gran vuoto dentro. 

E a poco a poco anche lui imparò a prendersi cura del bambino tenero, dolce, impaurito, spaventato e arrabbiato col mondo che si portava dentro da tanto tempo senza riuscire ad aiutarlo, esattamente come il vecchio si prendeva cura di lui, anche nei momenti in cui rileggevano insieme le pagine più dolorose della sua storia. 

E così, giorno dopo giorno, notte dopo notte, stagione dopo stagione, anno dopo anno, anche il ragazzo delle tempeste riuscì a rileggere il proprio libro fino a quel momento, e la cosa fu così naturale che si accorse di aver voltato finalmente pagina solo un giorno, per caso, quando ormai ci aveva già scritto tante cose nuove senza saperlo. 

E allora il vecchio del paese a mezz’aria poté finalmente tornare a casa. 

Sapeva d’essere stato tanto vicino al ragazzo per tutto quel tempo che ormai era sicuro che gli avrebbe fatto compagnia nel cuore per tutta la vita, soprattutto nei momenti difficili. 

E così, quando il Gran Consiglio del Regno di Mezz’Aria si riunì, fu deciso che questo poteva essere un buon modo per aiutare i libri fermi ad andare avanti e i vecchi e le vecchie del paese si sparsero per il mondo ad accompagnare nei loro sogni gli scrittori immobili su una pagina, per aiutarli a rileggere con occhi nuovi le loro storie e andare avanti. 

E per ogni libro che riusciva a proseguire c’era una persona in più che in questo mondo aveva sperimentato, come il ragazzo della nostra storia, l’attenzione, l’amore e il rispetto per le ferite del cuore di un bambino, da poterli a sua volta avere con quelli che incontrava sulla sua strada. 

E si sa che le cose sperimentate diventano come l’erba di primavera, dopo un filo ne nasce un altro e un altro ancora e tanti fili messi insieme fanno i mari d’erba che ondeggiano nel vento. 

Però bisogna che ognuno si prenda cura dei fili che incontra sulla sua strada, perché le ferite del cuore di un bambino non restino dentro a fargli male anche da grande, e perché anche lui possa a sua volta aver cura dei fili d’erba che incontrerà nella sua vita. 

Qualche riflessione: Il tema della perdita 

“«Giuseppe, ma se tutti facessero come te, che cosa farei io?» 

«Maestra, quando tutti lo faranno ci porremo il problema! Adesso sta calma e non preoccuparti!»” Giuseppe, alla maestra preoccupata perché si mette sempre nei pericoli. 

Queste ultime storie, a differenza della prima serie, non si rifanno a quella di uno o più bambini in particolare, ma alla valenza psicologica di un sottostante tema comune del vivere, quale si presenta spesso anche nelle storie di noi adulti. 

La storia del Principino che non sapeva perdere potrebbe essere simbolicamente rappresentativa sia della difficoltà a scegliere, sia della fatica del processo di separazione-individuazione e differenziazione. 

Penso che sia chiaro ormai che con il termine «separazione» si intende un processo mentale. 

Dice la Mahler a questo proposito: 

“Ciò di cui intendiamo parlare è la sensazione di essere un individuo separato, non il fatto di essere fisicamente separato da qualcuno.” [1

Si tratta, come si è visto nel corso del libro, di un’evoluzione indispensabile ai bambini per poter crescere uscendo dalla situazione indifferenziata della primissima infanzia, dove non esiste ancora la differenza tra il «me» e gli «altri». 

Evoluzione che preparerà poi a condurre una vita autonoma sul piano mentale. 

Crescere non vuol dire solo conquistare, ma anche perdere qualcosa. 

Ed è la difficoltà di accettare questa perdita ciò che un bambino in genere vive a livello profondo quando non vuole crescere o fa troppa fatica a farlo. 

Il tema di questa perdita sarà diverso per ogni bambino e dipenderà dall’incontro fra lui, le sue potenzialità genetiche e la situazione di vita, con la storia dei suoi genitori fino a quel momento; perché ogni bambino nasce in una “famiglia diversa”, anche tra fratelli. 

Nessuna affermazione quanto quella «Come è possibile che i miei figli siano così diversi! Eppure noi siamo sempre la stessa famiglia!» è facile da ribaltare. 

Nessun bambino nasce con gli stessi genitori di un altro, neanche di suo fratello, perché il genitore di un primogenito (quando l’esperienza è ancora nuova e sconosciuta, pertanto più ansiogena) è sicuramente diverso da quello di un secondogenito. 

Quasi tutti i genitori affermano infatti che questi ultimi sono più sicuri e autonomi dei primi, esattamente come loro stessi sono stati meno ansiosi rispetto alla prima esperienza. 

Come diceva una mamma in un gruppo: «Non sono solo i bambini che crescono, siamo anche noi genitori che inevitabilmente siamo diversi perché facciamo esperienze diverse». 

All’interno delle differenze dei genitori si possono presentare tuttavia alcuni aspetti profondi che talvolta restano immutati. 

Fra questi ci può anche essere quella che io chiamo la “cultura familiare della separazione”, cioè il modo in cui il cambiamento è vissuto e tramandato a livello profondo e inconsapevolmente in quella famiglia di generazione in generazione. 

Perché un conto è confrontarsi con una cultura familiare che trasmette l’idea che separarsi è doloroso ma possibile, un conto è invece confrontarsi con una che trasmette l’idea che separarsi non è proprio possibile, come se corrispondesse a morire. 

Allora se è vero, come dice il poeta, che partire, cioè separarsi, è sempre un po’ morire, è tuttavia solo l’accettazione di questa separazione o morte simbolica che darà poi la vita (come nella storia di Simona che seguirà tra poco), mentre il non accettarla significa restare presi in una condizione di non-vita. 

«Io nella depressione non vivevo, mi lasciavo vivere!» si sente dire spesso in terapia. Dice Leclaire a questo proposito: 

“Occorre uccidere il bambino narcisistico che di generazione in generazione testimonia i sogni e i desideri dei genitori; non vi è vita se non a costo della morte dell’immagine primaria, straniera. 

[…] L’uso comune è di confondere la «prima morte», quella che dobbiamo compiere continuamente per vivere, con la «seconda morte».” [2

Altro tema che in genere riguarda la separazione è quello del dire sempre di no. 

La fase oppositiva intorno ai due anni in cui tutti i bambini tendono a dire sempre di no è un periodo estremamente importante per loro e li aiuta proprio nel processo di separazione individuazione. 

È opponendosi che possono cominciare a organizzare la propria esistenza in quanto diversa da quella degli altri che li circondano. 

La differenziazione dal genitore comincia a segnare il terreno della separatezza tra l’uno e l’altro e aiuta quindi il bambino a trovare la propria individualità mentale. 

Ora, questo periodo di opposizione che si colloca in genere appunto intorno ai due anni si può ripresentare di tanto in tanto nei momenti di crisi del bambino, quando gli è necessario per fare un passo in avanti oppure, come dice Bowlby, per tornare un po’ alla base da cui ripartire per esplorare un po’ più lontano. 

Un bambino che invece presenta “costantemente”, anche anni dopo, questa modalità di comportamento come unica e dominante nel rapporto con gli altri, genitori per primi, può forse essere un bambino che per qualche motivo ha incontrato delle difficoltà a proseguire la separazione mentale, per cui ricorre ancora al tentativo sperimentato nei primi anni di vita. 

È questa una situazione che in genere produce molta sofferenza, sia nel bambino che nei genitori. 

Il primo tenta disperatamente di compiere un’operazione che gli è vitale dal punto di vista mentale, il differenziarsi dai genitori individuando se stesso, ma lo fa con una modalità non più adeguata; i secondi, a loro volta, non capiscono i motivi del comportamento del bambino che tende a esasperarli fino a far perdere la pazienza anche al genitore più disponibile. 

Un intervento di aiuto in questa situazione può avere un grande valore per sbloccare la sofferenza di entrambi. 

Se il genitore riesce a spostare la domanda da «Perché mi dice sempre di no?» a «Perché fa così fatica a differenziarsi da me?», ci sono già le premesse perché qualcosa cambi nella loro relazione. 

Si tratta infatti di bambini che sono estremamente legati e dipendenti, anche se lo manifestano con atteggiamenti che sembrerebbero esattamente il contrario: il loro tentativo di separarsi avviene creando un conflitto tra loro e i genitori. 

Perciò quando le opposizioni di un bambino diventano esasperate e dominanti nei confronti dell’adulto, allora, invece di liquidarle semplicemente come capricci, val forse la pena di chiedersi perché questo bambino fa così fatica nel suo processo di separazione-individuazione. 

Alle spalle di questa fatica ci può essere il problema del Lupacchiotto che si sentiva trascurato, ma ci può essere, paradossalmente, anche il problema opposto, quello di un atteggiamento del genitore così disponibile e donativo (come nel caso di Fiordaliso) da rendere faticosa la separazione. 

Come a dire che da un genitore troppo iperprotettivo e premuroso può essere più difficile separarsi, perché è sempre e costantemente presente nella vita del bambino il quale, a sua volta, non impara in certi casi a stare da solo. 

A questo proposito vale la pena di ricordare l’importanza che Winnicott attribuisce ai giochi che il bambino può cominciare a fare, DA SOLO, in presenza della madre che fa qualcosa d’altro. 

È proprio la presenza della mamma, ma “in secondo piano”, quella che permette al bambino, intorno al secondo anno di vita, di cominciare a sperimentare qualche volta che può anche giocare da solo senza sentirsi abbandonato. 

Questa esperienza contribuirà a porre le fondamenta dell’autonomia, che comprende la capacità di stare da soli e non di viversi esclusivamente come appendice di qualcuno senza il quale non si può esistere. 

È importante infatti ricordare che sarà la prima modalità di relazione imparata quella che il bambino userà poi nel corso della sua vita. 

È un apprendimento che potrebbe essere paragonato a quello della lingua madre. 

Il genitore che si pone questo problema può perciò aiutarsi chiedendosi se, quando è costantemente e sistematicamente presente accanto al bambino, stia facendo una cosa veramente utile per il medesimo e non, invece, una cosa destinata a se stesso, a calmare la propria ansia. 

Altrimenti tutta l’energia vitale del bambino potrà finire per concentrarsi in seguito nella caparbietà con cui difendere la propria autonomia, facendo un’operazione faticosa per lui e per gli adulti che lo circondano. 

È importante riflettere su questo tema e averlo ben presente quando l’opposizione diviene la modalità costante del bambino, anche anni dopo il periodo in cui invece essa è un meccanismo naturale e utile per la crescita e assume così la caratteristica di un gioco forzato. 

Un’altra età della vita che ripropone di solito questo tema è l’adolescenza. 

Ora, anche qui si tratta di un’opposizione utile e vitale perché facilita l’ultimo passo del processo di separazione individuazione dai genitori. 

Quando però essa continua a permanere, immutata, anche in età adulta, ci troviamo davanti a un gioco nevrotico che spesso scoraggia l’interlocutore. 

Una dominanza di questa modalità infatti in genere stanca e logora i rapporti, perché ciò che manca completamente è l’ascolto vero dell’altro, il cui messaggio viene percepito e deformato da questa griglia d’ascolto oppositiva che ha le sue radici altrove, lontano, nell’infanzia o nell’adolescenza e che ci costringe a opporci continuamente davanti a tutto e a tutti. 

In questo caso quello che si registra non è tanto l’effetto di un trauma grosso o particolare, quanto quello costante e duraturo di un atteggiamento quotidiano a cui siamo stati esposti nell’infanzia. 

Spesso i bambini riescono a superare molto bene dei traumi grossi, ma rari o unici, mentre hanno minori difese davanti ad atteggiamenti quotidiani di scarsa attenzione nei loro confronti, per cui sono poco a poco costretti a costruire delle difese a scapito di un’evoluzione più in armonia con le loro stesse potenzialità, come nel caso dell’opposizione costante a tutto e a tutti che limita pesantemente la nostra libertà psichica. 

L’ultima storia, quella sulle pagine da voltare, è sullo stesso tema della separazione e del passaggio. 

Tempo di dentro e tempo di fuori non sono la stessa cosa e non viaggiano sullo stesso binario. 

«Ogni volta che passo per la strada con i miei bambini» racconta una giovane madre «e sento dire “Buon giorno, signora!” mi viene inevitabilmente da girarmi per vedere chi è la signora vicino a me che stanno salutando. Solo dopo mi rendo conto che sono io. 

L’essere chiamata signora è una cosa che mi sorprende ancora oggi che ho due figli e mi stupisce ogni volta perché io mi sento ancora una ragazzina, non una signora che va a spasso con i figli!» 

La fatica dell’accettare lo scorrere del tempo è quella di interiorizzare piano piano qualcosa della situazione precedente che diventi parte di noi e che ci accompagni permettendoci di sciogliere dei legami vecchi, per crearne di nuovi che rispondano meglio alle nostre esigenze attuali. 

Sarà proprio l’energia liberata da questi legami che si sciolgono quella che ci aiuterà a crearne degli altri con la nuova condizione di vita (vedi le testimonianze riportate a proposito del lavoro con i genitori). 

Se restiamo troppo legati ai «buchi» della nostra vita che vorremmo riempire, infatti, non avremo sufficiente energia mentale da investire nelle situazioni che viviamo. 

Non possiamo colmare i vuoti della nostra storia, né noi né, tanto meno, i nostri figli per noi. 

Se ci sono state delle lacune nella nostra vita non ci possiamo fare niente, possiamo solo prenderne atto, testimoniarle, accettare, o farci aiutare ad accettare, anche se con grande dolore e fatica, che ci siano state e andare avanti. 

Altrimenti corriamo il rischio paradossale di perpetuare queste lacune all’infinito, standoci attaccati spasmodicamente nel tentativo di riempirle noi stessi o di farle riempire a qualcuno che ci è caro e che imprigioniamo in tal modo in un gioco senza fine. 

Avviene già così spesso questo gioco a livello inconscio che, almeno quando ne siamo consapevoli, vale forse la pena di cercare di evitarlo per quanto possiamo. 

È dai casi clinici gravi che impariamo quanto questo sia dannoso per un bambino, come nel caso del bambino autistico descritto da Maud Mannoni, il quale viveva «facendo il morto», cioè non parlando, perché a livello inconscio aveva colto il desiderio della madre che venisse riempito un buco della sua stessa storia: il dramma della morte non accettata di un fratellino quando lei era piccola. 

Una volta cresciuto, il figlio si era assunto, sempre inconsciamente, il compito di riempire questo vuoto e lo faceva nel miglior modo possibile, cioè «facendo il morto». 

Dice la Mannoni: “Ricordiamo che già da prima dei sette anni un bambino è completamente informato dei drammi vissuti dai genitori al punto di tentare, quando non funziona, di diventare l’elemento regolatore della coppia in difficoltà. Ed è questo che è patogeno.” [3

Aggiunge Bowlby: “La maggioranza dei genitori che si aspettano che i propri figli abbiano cura di loro ha sperimentato a sua volta delle cure parentali molto inadeguate. Sfortunatamente, spesso questi genitori creano dei gravi problemi psicologici ai loro figli.” [4

Ecco perché ribadisco ancora una volta quanto sia importante lavorare con i genitori; sono loro che devono essere aiutati “da altri adulti” a tollerare il dolore e la fatica del portarsi dentro le vecchie ferite, altrimenti sarà il bambino che cercherà di assumersene almeno un po’ su di sé. 

La storia di Simona e quella di Cristina, che seguiranno nel capitolo successivo, possono aiutare a capire, almeno in parte, la complessità della relazione madre-figlio già a partire dal periodo che precede la gravidanza, cioè da quando il bambino è solo presente nell’immaginario dei genitori. 

Vorrei chiudere queste riflessioni fermandomi proprio sul punto che ritengo centrale: se vogliamo prevenire il disagio psicologico nei bambini, partiamo dai genitori. 

Sono loro quelli che possono fare di più se sono aiutati a capire e a tollerare l’ansia derivante da una situazione o da una storia difficile. 

Quante volte dietro ai malesseri di un neonato sta un reale problema medico puro e semplice o collegato a una situazione di ansia, fatica, solitudine e depressione di una mamma? [5

E chi si è occupato di aiutare questa giovane donna a sentirsi meno sola, stanca e inadeguata davanti a questo compito? 

Al posto delle storie di Simona e Cristina avrei potuto raccontarne decine d’altre di altrettanti Paolo, Giovanni, Massimiliano, eccetera e in tutte avremmo trovato la stessa fatica di una mamma che, nonostante la gioia, si sente quasi sopraffatta da una cosa più grande di lei, come su una zattera in un mare in tempesta. 

Dovremmo sforzarci di trovare degli strumenti collettivi, di inventarne di nuovi che possano essere veramente utili per un tentativo di prevenzione. 

I gruppi di formazione per genitori credo che possano rappresentare uno di questi strumenti. 

Io stessa ho cominciato a sperimentarli quando mi sono resa conto che ogni genitore viveva in solitudine e isolamento problemi comuni anche ad altri, di cui poteva discutere con loro sentendosi sollevato. 

Tutto il materiale di queste favole e riflessioni mi viene proprio dal lavoro con loro. 

Se vogliamo “davvero” aiutare un bambino, dobbiamo realmente stare dalla “sua” parte, il che implica stare dalla parte anche dei “suoi alleati più fedeli”, i suoi genitori. 

Non possiamo aiutare un bambino se non rispettiamo questa alleanza, per quanto nevrotico ci possa apparire il modo in cui essa si realizza. 

Il problema semmai è di aiutare entrambi a cambiare la modalità dell’alleanza perché essa avvenga non esclusivamente tra le parti sofferenti del bambino e quelle sofferenti del genitore, ma tra tutte le loro parti, soprattutto le più libere e vitali che possano far evolvere la sofferenza reciproca verso uno sbocco che li faccia vivere un po’ meglio. 

Non si possono di certo evitare le difficoltà, i dolori e la pena che la vita a volte comporta; ma un conto è soffrirli vivendoli, e un altro è il diventare «un morto vivente» per non soffrirli, perché insieme al dolore e alla pena si cancellano la gioia e l’energia vitale. 

Credo che la storia di Simona possa molto aiutarci a riflettere: non saremmo mai potuti stare davvero dalla sua parte, se non fossimo stati davvero anche dalla parte della bambina sola, triste e spaventata dal mondo che la sua mamma si portava dentro in silenzio da tanti anni. 

L’operazione difficile, ma utile da fare è, in questo caso, quella di individuare l’eventuale parte sofferente che ognuno di noi si può portare dentro dall’infanzia per aiutarla, altrimenti può succedere che sia il figlio fuori ad allearsi con lei per condividerne il peso. 

Credo che questo sia un punto che meriti di essere sviluppato più a lungo e che richieda da solo un intero studio, tante e varie sono le relazioni che si intrecciano fra la storia di un genitore e quella del proprio figlio. 

Mi viene in mente a questo proposito, fra molti altri, il caso complesso, ricco e affascinante di una mamma che ho seguito e che aveva avuto a un certo punto una recrudescenza di una forte tachicardia per la quale era venuta in terapia, tempo addietro, dopo essere anche stata ricoverata per accertamenti senza esito alcuno in passato. 

Ciò che ci ha aiutato a capire che cosa stava probabilmente succedendo in quel momento nel mondo interno della madre sono stati i giochi del figlio maggiore e un sogno della mamma stessa che riguardava la figlia minore. 

Il bambino grande aveva fatto dei giochi in cui, a mesi di distanza, aveva riproposto il tema della morte della bisnonna (aveva costruito una lunga scala con il Lego mettendo in cima una piattaforma su cui stava la bisnonna con accanto una carrozzella che la poteva portare da tutte le parti, «dove, come e quando lei voleva»). 

Nel sogno la mamma aveva invece fatto una lunghissima corsa angosciosa per cercare la piccola che non si trovava più; quando finalmente la trovava, in cima a un edificio dove c’era un nido d’infanzia, ecco che la bambina si trasformava in un uccellino e volava via; poi tornava da lei e le si posava delicatamente in mano. 

La sua tachicardia, i giochi del bambino grande e il sogno sulla piccola, ci hanno aiutato a mettere a fuoco che cosa stava probabilmente succedendo in quel momento per la mamma: la paura di essere abbandonata che lei si portava dentro in modo angoscioso dall’infanzia si era fatta risentire improvvisamente e l’aveva fatta cadere nel panico. 

In quel momento per la mamma si avvicinava il primo Natale dopo la morte della nonna (l’unica figura materna affettiva e stabile che lei avesse avuto), mentre anche la seconda bambina, che stava per essere svezzata, avrebbe spiccato il volo fuori del nido, come l’uccellino del sogno. 

«Eppure io sono felice che lei cresca» è stata l’osservazione, del tutto sincera, della mamma. 

Ma il gioco era molto più complicato di quanto non potesse apparire a prima vista. 

Era verissimo che la mamma era proprio contenta che la bambina crescesse e ne provava una grande soddisfazione; ma senza che lei se ne rendesse conto questo le toccava contemporaneamente anche la corda del sentirsi tradita e abbandonata per l’ennesima volta, come si era sentita da bambina, perché doveva fare la fatica di separarsi contemporaneamente da una nonna-madre buona e da una figlia che si sarebbe inevitabilmente separata dal suo corpo con lo svezzamento per volare fuori dal nido. 

È stata perciò la relazione con i figli quella che ci ha permesso di mettere a fuoco il problema reale che la madre viveva in quel momento inconsapevolmente e che la faceva sentire lacerata fra due desideri opposti, uno consapevole e uno inconsapevole. 

L’aver individuato l’interferenza di questa antica paura infantile ha permesso alla mamma di prendersene cura direttamente lei, con la sua parte adulta, la stessa che si occupava dei suoi bambini in modo affettuoso e sollecito. 

Vorrei citare ancora una volta un tema caro a Bowlby: “Voglio anche sottolineare che, nonostante pareri contrari, occuparsi di neonati e di bambini non è un lavoro per una persona singola. 

Se il lavoro deve essere fatto bene e se si vuole che la persona che primariamente si occupa del bambino non sia troppo esausta, chi fornisce le cure deve a sua volta ricevere molta assistenza, varie persone potranno offrire questo aiuto: in genere è l’altro genitore; in molte società, compresa la nostra, l’aiuto proviene da una nonna. 

Altri che possono essere coinvolti nell’assistenza sono le ragazze adolescenti e le giovani donne 

Nella maggior parte delle società di tutto il mondo questi fatti sono dati per scontati e la società si è organizzata di conseguenza. 

Paradossalmente ci sono volute le società più ricche del mondo per ignorare questi fatti fondamentali. Le forze dell’uomo e della donna impegnati nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici. 

Le forze dell’uomo e della donna dedicate alla produzione, nella propria casa, di bambini sani, felici e fiduciosi in se stessi non contano affatto. 

Abbiamo creato un mondo a rovescio.” [6

__________ 

Note 

1. Mahler-Pine-Bergman, “La nascita psicologica del bambino”, Bollati-Boringhieri, Torino 1986 (torna al testo

2. S. Leclaire, “On tue un enfant”, Seuil, Parigi 1965 (torna al testo)

3. M. Mannoni, “Un savoir qui ne sait pas”, Denoûl, Parigi 1985 (torna al testo)

4. J. Bowlby, “Una base sicura”, Cortina, Milano 1989 (torna al testo)

5. Raimbault, “Pediatri e Psicoanalisti”, Bollati-Boringhieri, Torino 1976 (torna al testo)

6. J. Bowlby, “Una base sicura”, Cortina, Milano 1989 (torna al testo)

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