Il Bambino nascosto /2.2

Psicologia

Oltre al comportamento provocatorio, in un qualsiasi gruppo (familiare, scolastico, eccetera) si può anche incontrare il suo opposto, quello del bambino particolarmente buono, anzi, a volte, «troppo» buono.

Il Bambino nascosto /2.2

di Alba Marcoli

(continua) Capitolo secondo. La fatica di crescere

Sommario: La fatica di crescere – 1. La mancanza di autonomia – Favola numero 1 – Dipendenza e difficoltà a imparare – 2. I comportamenti provocatori – Favola numero 2 – Il bambino difficile – 3. Il comportamento oblativo – Favola numero 3 – Il bambino troppo buono – 4. Le paure – Favola numero 4 – La paura

3. Il comportamento oblativo 

Oltre al comportamento provocatorio, in un qualsiasi gruppo (familiare, scolastico, eccetera) si può anche incontrare il suo opposto, quello del bambino particolarmente buono, anzi, a volte, «troppo» buono. È a lui che i genitori chiedono di aiutare i fratelli, gli insegnanti chiedono di aiutare i compagni in difficoltà, gli allenatori sportivi affidano i casi più difficili e così via… 

Sono i bambini (anzi, sono spesso bambine) su cui si può essere certi di poter contare, a volte anche più che su altri adulti. Sono quelli che non dimenticano le scadenze, che se promettono di fare una cosa si può star tranquilli perché la faranno, che addirittura prevengono le richieste che possono essere fatte loro, eccetera. Sono cioè dei bambini e dei ragazzi che sono in tutto e per tutto dei piccoli adulti, ma di un tipo particolare, non così abituale, e cioè giudiziosi, consapevoli, affidabili (quanti comportamenti poco affidabili possiamo invece avere anche noi adulti!). 

Sono quelli per i quali nonni, parenti, conoscenti usano spesso espressioni del tipo: «È una donnina giudiziosa», oppure: «È un omino in tutto e per tutto», e così via. 

Quello che in genere caratterizza questo tipo di comportamento è che spesso passa inosservato anche là dove può essere sintomo di un disagio, perché a nessuno verrebbe in mente di preoccuparsi per un bambino bravo e buono che magari è anche il primo della classe. 

Proviamo a leggere questa favola per capire invece la solitudine interiore e il vuoto che caratterizzano a volte questi bambini quando, per qualche motivo che a noi sfugge, si sentono amati non per se stessi, ma perché sono dei «bravi bambini». 

Favola numero 3 

Il cucciolo che non sapeva dire di no. 

“Un giorno tu m’hai detto ch’ero grande, E dunque, ch’io sia grande, se ti va, O piccola, oppur d’altra statura Anzi, già sono come piace a te.” E. Dickinson, “Poesie”. 

Nel Bosco delle Sette Querce c’era tutto ciò che in un bosco che si rispetti ci deve essere, perciò c’era anche un fiume che, come si sa, è una delle cose più importanti della terra, e poiché aveva la fortuna di arrivare fino al mare, era molto rispettato perché faceva una cosa che nessun altro faceva. Inoltre era molto più vecchio di ognuno degli abitanti del Bosco, e di tutti loro messi insieme, cosicché era anche molto saggio e sapeva tante cose, anche quelle che agli altri sfuggivano. 

Fu così che si accorse che c’era nel bosco un cucciolo che veniva sempre a guardarlo con malinconia verso il tramonto. Poi arrivavano anche i suoi genitori e i suoi fratelli e lui andava via con loro. 

Un giorno, incuriosito, il fiume spruzzò il naso del cucciolo con un po’ d’acqua, mentre era lì a osservarlo sempre con la sua aria malinconica; allora lui si ritrasse un poco e gli chiese: «Perché mi hai bagnato?». 

«Perché volevo parlarti» rispose il fiume. «Vorrei sapere perché hai sempre quell’aria malinconica quando vieni a guardarmi. È forse perché non sei bravo alla Scuola dello Spiazzo?» 

«No,» rispose il cucciolo «sono molto bravo alla scuola, so a memoria tutte le storie che sono state raccontate.» 

«E allora ti hanno sgridato i tuoi genitori?» 

«No, non mi hanno sgridato; e poi perché dovrebbero farlo? Io obbedisco sempre, dico sempre di sì.» 

«Allora non vai d’accordo con gli altri?» 

«No, io vado d’accordo con tutti, faccio sempre quello che gli altri vogliono.» 

«Ma allora perché sei sempre così malinconico?» 

«Non lo so esattamente» rispose il cucciolo. «Forse è perché io mi sento sempre solo.» 

«Ma proprio sempre, anche quando sei con gli altri?» 

«Sì, anche allora. Anzi, più io cerco di fare quello che vogliono gli altri perché mi vogliano bene e mi stiano vicino, più io mi sento solo.» 

Il fiume si fermò un momento per pensare. C’era qualcosa che non gli andava. Tutte le volte che nella sua lunghissima vita aveva conosciuto dei cuccioli esemplari come questo, lui era sempre diventato triste. 

E dire che questi cuccioli erano invece il vanto dei loro genitori e dei loro maestri ed erano benvoluti da tutti; i più bravi a scuola, i più obbedienti in casa, i più servizievoli dovunque. 

Solo una cosa sembrava che non riuscissero a fare: a dire di no. 

Le pochissime volte in cui ci riuscivano, subito dopo erano così spaventati che tornavano precipitosamente indietro e diventavano mille volte più servizievoli e più obbedienti di prima, tanta era la paura di ciò che avevano fatto. 

E questo cucciolo che tutte le sere al tramonto veniva a trovarlo e a guardarlo con malinconia, era proprio come loro, dello stesso genere; il fiume era troppo vecchio e saggio per non accorgersene. 

E fu così che, pensa e ripensa, gli venne un’idea. 

Aspettò che una sera al tramonto arrivasse tutta la sua famiglia e quando i cuccioli si allontanarono per giocare nel bosco cominciò a parlare con i suoi genitori. 

«Com’è Gregorio» (era questo il nome del piccolo) «quando è in casa?» 

«Buonissimo,» rispose la mamma, stupita di sentirsi fare quella domanda «vorrei che anche gli altri miei figli fossero così bravi, sempre sorridenti e ubbidienti. Invece mi danno tanto da fare, soprattutto Andrea che è il più grande e che è scatenato come una peste. Io devo passare la mia giornata dietro a lui, a riparare tutti i danni che fa. Meno male che ho Gregorio che mi aiuta!». 

«Già,» riprese il fiume, rallentando un po’ le sue acque per pensare «ma chissà se lui è contento di dover fare sempre il bravo per aiutare voi!» 

«Certo che è contento» ribatté il papà, anche lui stupito di quella osservazione «altrimenti non sarebbe sempre così sorridente e tranquillo, non ti pare?» 

« È vero che ogni cucciolo è diverso da un altro,» rispose il fiume «ma è anche vero che certi si fanno notare come se ci fossero solo loro al mondo a dover attirare attenzione, mentre certi altri fanno di tutto per passare inosservati o per essere proprio uguali a come li vorrebbero i loro genitori, per non aver niente che li possa rendere sgraditi, e quindi meno accettati.» 

«Un pensiero del genere non mi aveva mai sfiorato la testa» rispose la mamma, che amava molto i suoi figli e che si era proposta di essere il più possibile buona, disponibile e attaccata ai suoi cuccioli, anche perché lei invece, quando era piccola, aveva avuto la mamma lontana si era sentita molto sola. 

«Pero, adesso che ci penso» soggiunse «mi viene in mente che Gregorio è davvero un po’ così. Lui non ha imparato presto come i suoi fratelli a non bagnare la cuccia di pipì durante la notte. 

Ma tutte le volte che si svegliava al mattino era mortificato e mi aiutava a cambiare la paglia e a metterne della pulita. E anche ora, una mattina che per caso mi sono svegliata molto presto, mi sono resa conto che lui era già in piedi per cambiare la paglia della sua cuccia perché io non me ne accorgessi più tardi.» 

«Questo significa però che qualche volta gli capita ancora di bagnare la cuccia di notte?» 

«Penso di sì, anche se non ne sono sicura. Anzi, mi sono sempre chiesta perché questo gli succedesse ancora, ma non l’ho mai capito.» 

«Ma anch’io bagnavo la cuccia da piccolo,» aggiunse il papà «passerà a lui come è passato a me. Certo però che alla sua età io non lo facevo più.» 

«Potremmo provare insieme ad aiutare Gregorio a sentirsi più sicuro» disse allora il fiume «in modo che non sia costretto a fare delle cose solo per paura di qualcosa d’altro. 

Io credo che il problema sia questo. 

Forse lui si comporta così perché è ancora talmente insicuro che ha sempre bisogno dei genitori, come un cucciolo appena nato.» 

«Forse è proprio vero» osservò la mamma che si era accorta di questo e cominciava a capire. «Ma com’è che potremmo fare per aiutare Gregorio a essere più sicuro di sé?» 

«Non lo so neanch’io, perché la cosa non è così semplice, però potremmo cominciare a pensarci insieme.» 

E fu così che per diverse sere il fiume si fermò a parlare con la mamma e il papà, mentre i cuccioli giocavano, finché tutti ebbero un’idea. 

E allorché ebbero deciso, finalmente una sera il fiume aspettò che Gregorio arrivasse e quando lo vide ancora più malinconico del solito gli chiese a bruciapelo: «Tu lo sai che cos’è il mare?». 

«Sì, l’ho imparato alla Scuola dello Spiazzo. È una grandissima distesa d’acqua a cui arrivano tutti i fiumi che nascono dai monti.» 

« È vero» disse il fiume «ma il mare è molto più di questo. È come la vita, perché raccoglie le acque che noi fiumi gli portiamo, poi si allea col sole per farle evaporare, farne delle nuvole che portano le piogge e restituiscono l’acqua alla terra che gliel’ha mandata. Ogni goccia è importante e sa di esserlo perché senza di lei il bosco non esisterebbe. È proprio la vita che glielo insegna. Ma anche tu sei importante per il bosco come tutto ciò che vi esiste.» 

«Io sono importante per il bosco?» chiese meravigliatissimo il cucciolo, incredulo. 

«Certo, tu non lo sai, ma ancora prima che tu nascessi c’era già pronto un libro da scrivere, dedicato solo a te nell’archivio dell’albero millenario e man mano che tu crescevi a poco a poco i suoi fogli hanno cominciato a riempirsi, come sempre avviene per ogni vita.» 

«Ma chi è che scrive le pagine di questo libro?» 

«Agli inizi sono gli adulti, ma quando un cucciolo cresce impara a scriverle da solo.» 

«Ho paura che io non imparerò mai!» disse sconsolato il piccolo. «Per poter scrivere delle pagine da soli bisogna essere forti e non aver bisogno dei grandi. Io invece ne ho sempre bisogno.» 

«Ma finché tu non sperimenti che cosa puoi fare da solo non lo saprai mai. E se io ti proponessi di fare un viaggio con me che cosa ne diresti?» Il cucciolo si fermò un po’ a pensare, interdetto. 

«Perché mi proponi una cosa simile?» 

«Perché per imparare a vivere, certe volte, è importante fare un viaggio da solo, non sempre attaccato agli altri: un viaggio di vita. 

Se tu vuoi puoi seguire l’acqua della mia corrente e scendere con me fino al punto da cui si vede il mare, lontano, lontano. 

Vedrai che imparerai tante cose e dopo potrai tornare nel bosco.» 

Il cucciolo era molto spaventato dalla proposta del fiume. Come poteva lasciare i suoi genitori, i suoi fratelli, i suoi amici, per intraprendere questo viaggio? Sarebbe sicuramente morto dallo spavento la prima notte. 

Poi però guardò il fiume, si ricordò di tutte le volte che gli aveva fatto compagnia al tramonto quando lui era così malinconico e pensò che un amico di quel genere non poteva dargli cattivi consigli. 

E fu così che Gregorio partì e discese lungo le sponde del fiume per giorni e giorni. 

Vide allora il punto dove il fiume si doveva aprire un varco fra le rocce, dove precipitava in una cascata, dove si adagiava calmo e tranquillo in placide anse. 

E ogni sera il suo amico fiume gli indicava una grotta o un cespuglio ben protetto o un altro luogo in cui dormire. Le prime notti il cucciolo ebbe molta paura, ma a poco a poco si abituò a sentire lì vicino l’acqua del suo fiume che scorreva e che gli faceva compagnia e la paura passò. 

E, come il fiume, anche Gregorio dovette imparare a destreggiarsi da solo, ad aprirsi un varco quando l’acqua passava sotto il fitto di una foresta, a guardarsi dagli animali pericolosi e dai cacciatori e a procurarsi il cibo per quando aveva fame. 

Senza accorgersene era diventato a poco a poco forte e saggio come il fiume. Finché un giorno arrivarono insieme a una radura su un altopiano, dopo la foresta, e il fiume lo chiamò. 

«Guarda verso l’orizzonte, laggiù, lontano. Ecco, vedi, quello è il mare. Tu sei arrivato fin dove solo pochissimi animali del bosco sono arrivati. 

Da questo momento io entro in un altro fiume che va fin verso la pianura, poi in quel lago laggiù, poi ne esco con quell’altro fiume e mi butto nel mare. Ecco, da qui in avanti io cesso di essere il fiume che tu conosci ed entro in un altro. Fino a qui ero un piccolo fiume di bosco, come tu eri un piccolo cucciolo, ma d’ora in avanti io scorrerò in un fiume più grande verso il mare. E tu sei ancora lo stesso di prima? 

«Veramente sono diventato molto più forte. Adesso so persino riconoscere ed evitare le trappole dei cacciatori e riesco a procurarmi il cibo da solo. E poi la notte ho imparato a trovarmi i rifugi per poter dormire tranquillo» rispose Gregorio inorgoglito. 

«Ecco, vedi, anche tu ora sei pronto a tornare nel bosco cresciuto. 

Non sei più il cucciolo che diceva sempre di sì per paura di essere abbandonato dai grandi. 

Questo vuol dire che il viaggio che abbiamo fatto insieme può finire qui. Avremo un po’ di malinconia a separarci, ma è necessario perché ognuno di noi possa compiere il proprio cammino. E, in ogni caso, le mie acque, arrivate al mare, torneranno sempre con le nuvole e le piogge a scorrere nel fiume del bosco che tu conosci e a farti compagnia. Addio, Gregorio». 

E le acque del fiume che l’avevano accompagnato fin lì si precipitarono giù verso la pianura dentro un altro fiume, ma tanta altra acqua arrivava e il fiume continuava a scorrere. 

Il cucciolo diede un ultimo sguardo a quella cosa immensa, splendente che correva lungo l’orizzonte, poi pian piano tornò verso il bosco. 

Gli ci vollero parecchi giorni di cammino, ma ormai conosceva le difficoltà e sapeva come evitarle o superarle, sia le trappole dei cacciatori che la paura della notte e persino la fame. E quando finalmente tornò nel cuore del bosco dove stavano i suoi amici, si accorse che tutti lo guardavano meravigliati. 

Il cucciolo che diceva sempre di sì per paura di essere abbandonato era diventato così grande e forte e saggio che era riuscito ad arrivare al mare e aveva accumulato tante esperienze da essere lui adesso a insegnare agli altri, anche a dire di no, quando uno se la sente, senza paura di essere abbandonato e di restare solo al mondo. 

Qualche riflessione sulla favola: Il bambino troppo buono 

“Sai per che cosa è questo guardiano? È per la paura di non esistere!” Andrea, 7 anni, in un laboratorio di pittura. 

Questo, come si è detto, è un sintomo che, contrariamente a quello dei primi due cuccioli, di solito passa inosservato o è addirittura apprezzato, visto che in genere non crea alcun problema sociale, anzi è spesso molto gratificante sia per i genitori che per gli insegnanti. 

È il caso del bambino “troppo buono”, quello che pur di sentirsi accettato e amato fa di tutto per adattarsi agli altri e alle loro esigenze e aspettative. 

Ne consegue che spesso questi bambini sono estremamente intelligenti proprio perché hanno sviluppato al massimo delle strategie adattive alla realtà, ma hanno anche spesso sviluppato un «falso sé» a scapito di quello che sarebbe stato il loro vero sé. 

Per qualche motivo particolare è come se questo tipo di bambino sentisse che l’amore, di cui non può fare a meno per vivere, se lo deve conquistare quasi comprandolo col suo atteggiamento, cioè facendo il bravo a tutti i costi. 

In tal modo viene così sacrificato quello che sarebbe stato il suo sviluppo naturale, fatto anche di capricci e di opposizioni come accade a tutti. L’applicazione continua di questo atteggiamento determina nel bambino una repressione dell’aggressività come una cosa distruttrice da negare e imprigionare che però, come tutte le cose negate e imprigionate, resta dentro a far male, per cui alla fine può essere rivolta contro di loro. 

Questo conflitto fra falso e vero sé è quello che nel corso del tempo può portare alla difficoltà a sentirsi esistente e può quindi interferire, in certe situazioni, nel rapporto col reale. 

Dice Winnicott a questo proposito: 

“Il falso sé può raggiungere un’integrità ingannevole, cioè una falsa forza dell’io, costituita a partire da un modello fornito dall’ambiente e da un quadro familiare buono e rassicurante… 

Nondimeno, il falso sé non può fare l’esperienza della vita o sentirsi reale.” 

E altrove: 

“… Questo sé autentico, nascosto, soffre di un impoverimento dovuto alla mancanza di esperienza.” [5

Ecco perché sarebbe importante che chi si occupa di bambini si abituasse a interrogarsi anche su quello «troppo buono», non solo sui sintomi infantili disturbanti, come dice il bel libro della Miller sull’argomento. [6

Anche qui, come per tutti gli altri casi, conviene tuttavia seguire una certa dose di buon senso e non prendere tutto alla lettera rigidamente come se la realtà fosse fatta solo di bianco e di nero e non anche di grigio. 

Una certa dose di adattività è sicuramente utile al bambino per la sopravvivenza, lo sviluppo dell’intelligenza e l’inserimento sociale. È quando questa modalità diventa dominante e quasi unica nel suo comportamento che allora val forse la pena di interrogarsi sul perché questo particolare bambino (ognuno è un caso a sé) deve sempre essere così buono e non si può quasi mai o mai permettere i normali capricci evolutivi dell’infanzia. 

Altrimenti quello che ne viene a soffrire è lo stesso slancio vitale del bambino che gli è invece necessario per acquisire la grinta che gli serve a operare nella realtà e non semplicemente a subirla. 

In questo caso l’aiuto che l’adulto può dare non è soltanto a parole (anzi, a volte, queste possono rinforzare il sintomo), ma a fatti: si tratta cioè di mettere il bambino nella condizione di poter sperimentare che può opporsi, fare i capricci, essere aggressivo senza per questo essere abbandonato dai genitori o dagli adulti di riferimento. È importante che gli giunga il messaggio profondo che semmai è quella particolare cosa, quell’atteggiamento, su cui non siamo eventualmente d’accordo, non lui globalmente. 

Qualsiasi bambino, e quello oblativo in particolare, può accettare infatti che gli si dica: «Questo che tu fai non mi piace!», ma non accetterà mai, giustamente, che dall’adulto importante per lui in quel momento gli arrivi il messaggio «Tu non mi piaci!», che avrebbe un valore distruttivo della sua stessa autostima e della sua carica vitale. 

4. Le paure 

La paura è una sensazione che mette a disagio anche noi adulti, ma è nei bambini che si manifesta più frequentemente e con maggiore intensità. 

Sono le esperienze nuove o poco familiari quelle che ci suscitano solitamente paura perché ci sfuggono il controllo e la prevedibilità degli avvenimenti, che sono invece fonte di rassicurazione. 

Non a caso una delle cose più inquietanti sono il buio e la notte, sia per i bambini che spesso anche per noi adulti che proprio di notte ingigantiamo più frequentemente preoccupazioni, malesseri e così via. 

La favola che segue ora è stata scritta proprio partendo dalle paure emerse in un laboratorio per bambini e ci può aiutare a vederle e a sentirle attraverso i loro occhi. 

Favola numero 4 

Il coniglietto che aveva sempre paura. 

“Io ho sempre trovato la parola per tutti i miei pensieri, tranne uno; e quest’uno mi sfida, come se volesse la mia mano disegnare il sole per le razze delle tenebre. Da dove cominciare?” 

E. DICKINSON, “Poesie”. 

Un giorno d’autunno il bosco fu percorso da tuoni, lampi e fulmini. Si era scatenato un temporale così violento come da anni nessuno ricordava. A un tratto il cielo era diventato nero, scuro come il carbone, e il bosco era caduto nel buio prima ancora che il sole tramontasse. 

Una famiglia di coniglietti che era andata a spasso per il bosco era rientrata precipitosamente nella tana, mamma, papà e una nidiata di undici figli. I cuccioli erano quasi morti dallo spavento e dalla paura; una cosa del genere non l’avevano mai vista nella loro vita, e per questa ragione non pensavano nemmeno che potesse esistere. 

I genitori dovettero faticare moltissimo a calmarli e dovettero spiegare che quello era un evento che succedeva normalmente nel bosco, anche se non tutti i giorni. Però, nonostante tutte le rassicurazioni, i cuccioli un bel po’ di paura l’avevano ancora tutti quanti. 

Quello che ne aveva più di tutti era Undi, il più piccolo. Il suo problema era che la paura del temporale si era aggiunta a tutte le altre che aveva già dentro e che erano tante che a volte lui stesso si meravigliava di come in un corpo piccolo come il suo ce ne potessero stare un numero così grande. 

E così il coniglietto se ne stava acquattato in un angolo della tana e tremava ogni volta che il vento portava dentro il rumore di un nuovo tuono, ma a furia di stare in un angolo a occhi chiusi, alla fine si addormentò e cominciò a sognare. 

Gli sembrò di andare lungo un canale che non finiva mai e che correva in una campagna solitaria. Il canale era popolato da tanti strani esseri che lui non aveva mai visto, non avrebbe saputo dire se erano animali o piante o qualcosa d’altro. Si vedeva però che erano vivi e che bisbigliavano tra loro, e la loro voce assomigliava a quella del vento nella brughiera in certe serate d’autunno. 

A un tratto Undi fu colto dal desiderio di sapere chi fossero questi strani esseri, si fermò, raccolse tutto il suo coraggio e chiese a uno: «Dimmi, chi sei? Come ti chiami?» 

«Che strano,» rispose l’altro «tutti i cuccioli mi conoscono, come mai tu non mi hai riconosciuta? Io sono la paura del buio, guarda come sono nera!» 

«E tu?» 

«Io sono la paura del temporale, senti che parlo come un tuono!» 

«E quell’altra laggiù?» 

«Quella è la paura del terremoto, vedi come fa traballare tutto!» 

«Ma allora voi tutte chi siete?» 

«Sei proprio un cucciolo con poca fantasia! Noi siamo tutte le paure che i cuccioli incontrano sul loro cammino. Siamo quelle che li aiutano a crescere e viviamo tutte in questo canale che scorre, scorre, giorno dopo giorno, come la vita dei piccoli e dei grandi.» 

«Ma quante siete in questo canale?» 

«Ah, questo non lo sappiamo neppure noi, siamo tante, proprio tante; pensa che anche fra di noi non ci conosciamo tutte.» 

«Ma quando si cammina lungo il canale vi si incontra tutte?» 

«No, ci sono certi che ne incontrano alcune, altri ne incontrano altre; però qualcuna, come me, viene incontrata da quasi tutti», rispose la paura del buio. 

«Ma esiste una paura che sia più grande delle altre?» 

«Eh, sì,» risposero tante voci in coro «esiste: è la Paura della Paura. Chiunque la può incontrare sul proprio cammino, anche i grandi, non solo i cuccioli.» 

«E dov’è questa paura?» chiese spaventato Undi per prepararsi a scappare se l’avesse incontrata. 

«Non lo sappiamo. È sicuramente lungo questo canale, ma nessuno di noi sa dove. La si può incontrare all’improvviso, quando uno non se lo aspetta, oppure la si può non incontrare mai; ma dove la si trovi nessuno lo sa.» 

«Ma allora voi siete delle cose cattive; bisognerebbe uccidervi perché fate soffrire tutti» disse il cucciolo arrabbiato. 

Gli sembrava proprio che fosse una grande ingiustizia che ci dovessero essere tante paure e che dovessero fare così male come facevano a lui ogni volta che se le sentiva dentro. 

Ma evidentemente le Paure non erano dello stesso parere, perché si sentì una voce che si levò dal canale e disse: « È qui che ti sbagli, Undi» (e il coniglietto si accorse che non era solo lui a conoscere le paure, anche loro lo conoscevano, se sapevano addirittura il suo nome); «noi siamo necessarie per poter crescere. Se tu non vuoi cadere nella trappola di un cacciatore nel bosco, è meglio che impari a conoscerla e ad averne paura. Sarà lei che ti aiuterà a evitare la trappola quando la incontrerai. Anche noi paure serviamo a uno scopo, come tutto quello che avviene nel tuo bosco.» 

«Ma a che cosa servite?» chiese incredulo Undi. 

«A fare esperienza, e quindi a vivere. Ognuna di noi ha un suo significato e se si impara a conoscerlo si impara anche a vivere.» 

“Chissà se potrò arrivare a conoscere il significato delle mie paure” pensò allora il cucciolo. Forse era il modo giusto per liberarsene, una volta per tutte, e così chiese: «Posso sapere il vostro significato?». 

Ci fu una risata: «Sarebbe comodo per te; così non dovresti faticare! Eh, no, caro Undi, sei tu che devi scoprirlo mentre cammini lungo il canale. Però un aiuto te lo possiamo dare: puoi interrogare tre paure per sapere parte del loro significato. Le altre le dovrai scoprire tu». 

Il cucciolo pensò a tutte le sue paure, ma erano talmente tante che non sapeva da dove cominciare. Finalmente si decise. 

«Tu, che sei la paura del buio, mi dici a che cosa servi?» 

«Servo a liberarti dalle cose che ti spaventano dentro di te. Il buio è lo schermo su cui proiettiamo il film dei fantasmi che ci disturbano dentro. Man mano che un cucciolo cresce e che i fantasmi diminuiscono, anche la paura del buio di solito diminuisce e poi passa, perché ognuno impara a vedere con gli occhi della mente che fanno luce anche nel buio più profondo.» E con un guizzo la prima paura scomparve nel canale. 

«E la paura d’essere abbandonato?» 

«Eccomi,» rispose una voce lontana che poco a poco si avvicinò «eccomi qua. Io esisto dal momento in cui un cucciolo nasce. Agli inizi è un piccolo essere che ha proprio bisogno di tutto, che deve essere accudito dai genitori, che anzi morrebbe se ne venisse separato, non potendo sopportare un cambiamento così brusco come quello di passare dal corpo protetto della madre o dal tepore di un uovo al freddo, al vento e alla pioggia. 

Però, man mano che passa il tempo, tutti i cuccioli imparano, a poco a poco, a conquistare la sicurezza che quando erano piccoli i genitori davano loro, altrimenti corrono il rischio di restare sempre indifesi e bisognosi di protezione. Il segreto più semplice ed efficace è questo: se un cucciolo si porta nella mente un papà e una mamma che lo proteggono, si sente lo stesso sicuro, anche se per un pochino se ne deve separare.» E anche la paura d’essere abbandonato guizzò via lungo il canale e scomparve lontano. 

Ora a Undi restava un’ultima possibilità: ci pensò e ripensò, ma gli era difficile decidersi, poi la curiosità prevalse: «Potrei sapere il nome di almeno una parte di voi?». 

Forse il fatto di conoscere l’esistenza di tante paure, anche di quelle che lui non aveva incontrato, l’avrebbe aiutato a vincere le sue, pensava. 

«Sì, di alcune lo puoi sapere, ma non di tutte, perché siamo troppe. 

Ascoltaci.» E così, a poco a poco, dal canale si levarono una dopo l’altra tante voci che si inseguivano come quelle del vento sull’erba di primavera: «Io sono la paura di perdere gli amici.» «E io che i genitori si dividano.» «E io che la mamma scappi di casa.» «E io della droga.» «Di essere rapito.» «Di andare sotto le macchine.» «Del terremoto.» «Della fine del mondo.» «Di essere povero.» «Di essere bocciato.» «Di non parlare più.» «Dell’ospedale.» «Che la mamma muoia.» «Che io muoia.» «Di non camminare più.» «Che ci sia sempre la notte.» «Che si spenga la luce.» «Dei brutti sogni.» «Di restare solo.» «Che crolli la casa.» «Della terza guerra mondiale.» «Di andare ogni minuto al gabinetto.» «Di diventare amico del diavolo.» «Di andare all’inferno.» «Di essere arrestato.» «Di essere paralizzato su una sedia a rotelle.» «Di essere accoltellato.» «Di non essere amato.» «Che gli altri non mi vogliano.» «Che aumentino le tasse.» «Di perdere i sensi.» «Di non pensare più.» «Di non poter più ridere.» «Di morire di fame.» «Di essere picchiato.» «Della cassa integrazione.» «Di essere licenziato.» «Di essere sfrattato di casa.» «Di andare per strada nudo per mancanza di soldi.» «Di fare sempre la pipì a letto.» «Che i miei genitori non mi vogliano più bene.» «Dei ladri.» «Di morire di sete.» «Che si spezzi il cuore.» «Di vivere.» 

E a poco a poco le voci si allontanarono tanto che il coniglietto non le sentì più. Un pochino però si sentiva sollevato perché aveva scoperto che esistevano anche delle paure che lui non conosceva e che non aveva mai incontrato. E così continuò a camminare lungo il canale, finché gli sembrò di inciampare su una grossa pietra e si svegliò. 

In realtà, muovendosi nel sonno, aveva sbattuto la testa contro la parete della tana, e si era svegliato. 

Fu allora che il coniglietto si rese conto che il suo viaggio era avvenuto in sogno. 

Si stirò un pochino, sbadigliò, si guardò in giro e si ritrovò tutto solo dentro la tana, ma questa volta non si spaventò tanto. Il vento non portava più il rumore dei tuoni e i suoi genitori e i fratellini erano usciti. 

Undi decise di uscire anche lui e scoprì che il temporale era passato e la luce del sole era tornata a brillare sul bosco e su tutte le gocce di pioggia ferme sulle foglie. 

Anche gli altri animali uscivano a godersi lo spettacolo. Tra poco cuccioli e anziani si sarebbero riuniti nello Spiazzo delle Sette Querce per raccontare le storie e ora anche lui aveva il suo sogno da regalare agli altri cuccioli perché anche loro imparassero il suo segreto. 

Qualche paura era rimasta là, dentro al sogno, e il coniglietto ormai non la sentiva più. 

Le altre sapeva che le avrebbe potute incontrare e affrontare, giorno dopo giorno, proprio come era avvenuto nel suo sogno lungo il canale. Ma, soprattutto, di una cosa si rese conto stupito: che le paure non gli facevano più la stessa paura di prima. 

Evidentemente, anche se non se n’era accorto, nel cammino lungo il canale aveva incontrato e superato la Paura della Paura

Qualche riflessione sulla favola: La paura 

«Vuoi mettere un guardiano al tuo disegno che gli faccia compagnia quando si sentirà solo, durante la notte?» «Sì, è questo qui. È il guardiano per la paura…di vivere.» Silvano, 9 anni, in un laboratorio di pittura. 

Questo è un tema molto comune ai bambini e frequentissimo in certi periodi della vita (i sei, sette anni ne sono un facile esempio) proprio perché legato al processo del crescere. 

“Esplorare e riconoscere è sempre un abbandonare una sicurezza per esporsi ai rischi; le paure infantili sono un’illustrazione dapprima immediata, come quella dei piccoli degli animali, poi simbolica dei pericoli della conoscenza. Esplorare non è solo esporsi all’ignoto e ai suoi pericoli ma è anche e più necessariamente abbandonare la sicurezza che assicura ciò che è familiare, luoghi o esseri.” [7

La paura del cambiamento, legata all’ansia suscitata dal confrontarsi col nuovo, il non familiare, è una delle manifestazioni che contraddistinguono di più gli esseri viventi, uomini compresi. 

Una delle sue origini può forse essere ricercata in un meccanismo di conservazione della specie a livelli arcaici e l’osservazione della vita quotidiana in questa chiave di lettura ci può fornire una miniera di esempi. 

Mi è capitato di rifletterci anche recentemente davanti a una scena a cui chi possiede un cane avrà assistito innumerevoli volte. 

Un ragazzo doveva salire su un treno portando al guinzaglio un cucciolo; al momento di salire sugli scalini (era un treno locale svizzero dagli scalini molto comodi) il cane che prima lo seguiva scodinzolando si è invece ribellato, ha puntato le zampe in avanti, ritratto il corpo indietro e non si è più mosso. 

Davanti ai due scalini che portavano sul treno si era interrotta la continuità della sua esperienza motoria che era avvenuta su un terreno pianeggiante: il cambiamento rappresentato dai due scalini del treno gli aveva scatenato una paura che neanche l’incoraggiamento del giovane padrone riusciva a fargli vincere. 

Alla fine il ragazzo ha preso il cucciolo in braccio, l’ha accarezzato e tranquillizzato ed è salito con lui sul treno; appena posato nuovamente sul pavimento il cucciolo ha ripreso tranquillamente a scodinzolare e a muoversi come prima. L’essere di nuovo su un terreno pianeggiante rappresentava per lui la continuità di un’esperienza motoria familiare, cui è seguito un comportamento altrettanto familiare, quello di camminare gioiosamente, scodinzolando. 

D’altra parte quando Lorenz descrive l’episodio dell’oca Martina che aveva abituato a salire a dormire al primo piano della sua casa, riproduce una scena analoga. [8

Lo scienziato aveva abituato Martina a essere portata da lui per le scale fino al piano superiore, per cui la prima volta che la fece entrare da sola al suo seguito, andando verso la scala, l’oca ebbe una vera e propria crisi di panico. 

Si guardò intorno impaurita e invece di seguire Lorenz sugli scalini corse verso una grande finestra che si apriva sull’atrio per poter guardare fuori, verso la luce. Solo allora cominciò a calmarsi; evidentemente il fuori e la luce rappresentavano per lei il mondo familiare più rassicurante. 

Dopo questo rituale l’animale poté tornare alla scala e seguire Lorenz al piano superiore, salendo però dalla parte esterna dello scalino, quella a sinistra, verso la finestra. 

Con l’andare del tempo il percorso le divenne familiare e non ci fu più bisogno del rituale di sostare alla finestra, ma solo di un percorso sul lato sinistro della scala, quello verso la luce. Finché un giorno intervenne ancora qualcosa di nuovo e questa volta lo fu rispetto al tempo: una sera Lorenz aprì la porta non alla solita ora, ma parecchio più tardi, e l’animale si precipitò ansioso verso le scale. 

Arrivato però al quinto scalino dovette ripetere esattamente il rituale del primo giorno. 

Si fermò bruscamente in preda a un’evidente ansia, lanciò il segnale di allarme, ridiscese velocemente gli scalini, andò alla finestra, si tranquillizzò e poté poi tornare alla scala risalendo dal lato esterno dello scalino, esattamente come il primo giorno. 

La paura del cambiamento, presente anche nel mondo animale, sembra dunque essere sostanzialmente quella di separarsi dal noto, dallo sperimentato, da ciò che si riconosce come familiare e rassicurante perché prevedibile, a cui ci si sente appartenenti come entità psichica. 

Ma se ci fermiamo un poco a rifletterci non possiamo non accorgerci che questa paura caratterizza una fetta enorme del nostro vivere. 

Quotidianamente ci riconosciamo e ci difendiamo, anche nella contrapposizione conflittuale, in qualche appartenenza psichica: al nucleo familiare, all’ambiente di lavoro, al gruppo scolastico, alla fascia d’età, alla classe sociale, all’ideologia politica o religiosa, al gruppo d’amici, alle scelte sportive, alla squadra del cuore, alla nazionalità, alla cittadinanza, al quartiere in cui viviamo, al sesso di appartenenza, all’essere «diversi» e così via; potremmo proseguire per ore e ne troveremmo sempre qualcuna di nuova. 

Persino la modalità di funzionamento mentale ci spinge spesso a ricercare chi ci assomiglia, cioè chi ha un funzionamento mentale simile al nostro, o, semplicemente, chi la pensa come noi, e ci coglie sempre un po’ di sorpresa lo scoprire che si può pensare in modi diversi dal nostro, come se la modalità di funzionamento mentale dovesse essere unica per tutti e quindi la sola che noi conosciamo, cioè la nostra. 

Per fortuna interviene poi un’esigenza profonda che ci porta nel corso della vita a fare scelte complementari, cioè a ricercare spesso nei partner o nelle amicizie proprio la nostra dimensione mancante. 

Resta comunque il fatto che l’estraneo, il non appartenente al nostro stesso gruppo o alla nostra esperienza, è situato in un altro spazio, quello del «diverso», del fuori di noi, spazio che riempiamo con tutte le più arcaiche paure che forse l’essere vivente si porta dentro. 

Solo questo può almeno parzialmente spiegare certi episodi di fanatismo e di intemperanza collettivi in cui proiettiamo sul non familiare la nostra stessa paura del nuovo che proviene anch’essa dalla parte più arcaica dentro di noi, quella non conosciuta né familiare. 

Se quindi una certa dose di paura fa parte del vivere e i temi frequenti nell’infanzia (del buio, della notte, dell’estraneo, dell’abbandono, degli animali, eccetera) seguono il percorso di esplorazione e di conoscenza dei bambini, è quando ci si trova davanti a dimensioni eccessive che ci si potrebbe interrogare sul possibile disagio di quel particolare bambino e sul perché il suo mondo interno sia così popolato di fantasmi minacciosi. Anche qui è importante però vedere dove hanno origine questi fantasmi per intervenire là dal punto di vista psicologico. 

Un buon esempio di come la relazione con i genitori abbia valore anche in questo caso lo può dare il racconto di questa mamma, la cui storia mi fa ancora oggi provare, a distanza di anni, emozioni e sentimenti di commozione, comprensione e profonda empatia. 

«Sa, certe volte proprio mio figlio non lo capisco. Si mette a urlare, a piangere, si irrigidisce tutto come se diventasse una statua. E io lì a calmarlo, ma non c’è verso, non ci riesco proprio… Adesso poi mi è venuta un’altra paura e non riesco a mandarla via… Ho paura che lui si accorga che io ho sempre paura… di tutto, di tutto. Ho avuto paura anche dello sguardo di mio marito, certe volte. 

Sono tanti anni che me la porto dentro questa paura, almeno venti. È cominciata quando è morto mio padre e io avevo sette anni. Dopo è stato un calvario, con mia madre sempre depressa, dentro e fuori dell’ospedale psichiatrico, tutta la vita. 

Mi ricordo che quando era fuori stava giornate intere sdraiata sul letto, guardava il soffitto e sembrava che non ci vedesse neanche, noi bambini. E noi crescevamo così, pieni di paure. Io ho cominciato a non dormire di notte e sentivo tutti i rumori, quelli che c’erano e anche quelli che non c’erano. 

E gli spiriti e i morti. Quando ci hanno messo in collegio, le suore mi volevano far dire il “Requiem aeternam”, sa, la preghiera per i morti, e io che volevo tanto bene a mio padre non sono mai neanche riuscita a dirgliene uno di “Requiem aeternam”. 

Perché se solo ci pensavo mi prendeva il terrore dei morti e mi paralizzavo. 

E così non l’ho mai detto. 

E allora le suore pensavano che io fossi cattiva. 

E una volta che una mi ha sgridato tanto e mi ha dato uno schiaffo, io sono scappata dal collegio e sono arrivata in campagna e lì c’era il fiume e i canali che irrigavano i campi. 

E io avevo la testa così vuota, ma così vuota, che non mi sono neanche accorta che camminavo proprio sul bordo del fiume e dei canali e che potevo cascar dentro. 

E allora un signore che era lì a coltivare i campi e che io non avevo neanche visto ha cominciato a seguirmi e quando mi sono fermata a guardare l’acqua mi è venuto vicino e ha cominciato a parlarmi e mi ha chiesto perché volevo buttarmi nel fiume e se ero stata bocciata, e mi ha raccontato che anche lui aveva una figlia della mia età e che non dovevo fare così. 

E mi ha parlato tanto, è stato molto buono con me, e quando ho cominciato a star meglio mi ha accompagnato dai carabinieri e ha avvertito il collegio perché mi venissero a riprendere. E così sono tornata e ho finito la terza media e poi basta. 

Certo, dopo, quando andavo a lavorare in fabbrica era tutto più bello. 

Mi piaceva lavorare sulle macchine, mi facevano compagnia. 

E poi c’erano gli altri, si stava bene, non si era mai soli. 

Mica come adesso che lavoro tutto il giorno da sola, in piedi, senza mai parlare con nessuno, in una città che non conosco e la sera sono così stanca, ma così stanca che proprio dovrei addormentarmi come un piombo. 

E invece no, mi pigliano tutte le mie paure, e allora mi accorgo che anche il bambino ha paura, e mi viene persino paura del suo sguardo terrorizzato e non so se sono più terrorizzata io o lui. E spero sempre che mio marito non faccia i turni di notte perché allora è un inferno, tutta la notte così, io e il bambino, un inferno…» 

Credo che una storia del genere non abbia bisogno di molti commenti; il bambino in questo caso è stato esattamente quello che ha portato la mamma in consulenza, come dice Racamier, perché qualcuno la aiutasse a contenere la sua angoscia. 

Se vogliamo agire veramente nell’ottica della presenza del disagio infantile dovremmo ricordarci di che situazione di vita hanno certe mamme, e non sono poche di certo. 

Questa giovane donna dal passato così doloroso e carico di sofferenza e solitudine aveva un lavoro alienante che la teneva lontana da suo figlio per più di dieci ore al giorno, a volte persino dodici. 

L’averle offerto uno spazio di ascolto e di comprensione in cui portare il proprio disagio a vivere può essere stato un primo tentativo d’aiuto, ma il problema resta, è un’intera organizzazione sociale che dovrebbe interrogarsi su questo punto. 

Anche l’elenco delle paure della favola proviene da un’esperienza di lavoro reale, da un laboratorio per bambini, dove non mancano certo dei temi su cui riflettere, mischiati ai fantasmi del mondo interno. 

Quando un bimbo di nove anni mette un guardiano che l’aiuti a contenere la paura «che si spezzi il cuore», o quella «di vivere» forse potremmo interrogarci di più sull’infanzia e sul nostro desiderio di non essere disturbati dal pensiero della sua sofferenza. 

Dietro al bambino delle paure di cui si è parlato prima, c’era un’angoscia “doppia” nella mamma: quella di vedersi davanti il suo piccolo che soffriva senza che lei ci potesse far niente, che a sua volta faceva risuonare la bambina sofferente che lei si portava dentro. 

A quel punto la grande angoscia che questo le scatenava la faceva sentire impotente e paralizzata davanti alle paure del bambino come lo era stata lei stessa bambina davanti al terrore dei morti. 

Il pianto del bambino fuori scatenava quello della bambina che la madre si portava dentro. 

Erano due i bambini che avevano bisogno d’aiuto in quel momento, non uno. 

E questo è un problema che esula dalla classe sociale di appartenenza. 

Al posto di questa testimonianza ne avrei potuta mettere una analoga da un ambiente sociale molto elevato, ma in entrambe avremmo trovato la stessa sofferenza e solitudine di una mamma che si confronta con la doppia sofferenza del bambino fuori e della bambina che lei stessa è stata e che continua a vivere dentro. 

Nota: mentre per tutte le altre testimonianze e storie riportate ho chiesto e avuto il permesso di raccontarle, anonimamente, da parte delle persone interessate, per questa storia non ho potuto farlo perché si trattava di una consulenza fatta moltissimi anni fa, che io stessa ho ricostruito a memoria e dai miei appunti. 

Sono stata perciò incerta se mettere o meno questa testimonianza, che appartiene al mondo privato e interno di una persona, e ho deciso infine di farlo perché ritengo che essa sia una delle più chiare e toccanti che mi sia mai capitato di incontrare. 

Se la persona che l’ha vissuta leggerà mai queste pagine, mi scuso per non essere riuscita a rintracciarla per chiederle il permesso di utilizzare la sua storia, ma è proprio per rendere giustizia e testimonianza alla bambina che lei è stata che ho deciso di farlo. 

Spero, come dice Yeats, di averlo fatto in punta di piedi: 

“Povero io sono e solo i miei sogni posseggo. Cammina in punta di piedi perché cammini sui miei sogni.” 

__________ 

Note 

5. D. W. Winnicott, “Dalla pediatria alla psicoanalisi”, Giunti Martinelli, Firenze 1991. (torna al testo)

6. A. Miller, “Il dramma del bambino dotato”, Boringhieri, Torino 1982. (torna al testo)

7. M. Zlotowicz, “Le paure infantili”, SEI, Torino 1978. (torna al testo)

8. K. Lorenz, “Il cosiddetto male”, Garzanti, Milano 1974. (torna al testo)

torna su