“Più di ogni altra cosa custodisci il tuo cuore, poiché da esso sgorga la vita.” Dal “Libro dei Proverbi”.
Il Bambino nascosto /2.1
di Alba Marcoli
Favole per capire la psicologia nostra e dei nostri figli
Sommario: La fatica di crescere – 1. La mancanza di autonomia – Favola numero 1 – Dipendenza e difficoltà a imparare – 2. I comportamenti provocatori – Favola numero 2 – Il bambino difficile – 3. Il comportamento oblativo – Favola numero 3 – Il bambino troppo buono – 4. Le paure – Favola numero 4 – La paura
Capitolo secondo. La fatica di crescere
La premessa di ogni favola.
“Più di ogni altra cosa custodisci il tuo cuore, poiché da esso sgorga la vita.” Dal “Libro dei Proverbi”.
Una volta, tanti e tanti inverni fa, vivevo in un bosco da qualche parte di questo mondo, o forse di un altro dove non succedeva assolutamente niente di particolare.
Era un bosco come tanti altri, che aveva i suoi ritmi come tutti i normali boschi di questa terra; dopo la luce del giorno veniva il buio della notte e poi ancora la luce del giorno; l’erba e le foglie spuntavano in primavera, fiorivano con l’estate, appassivano e cadevano in autunno, mentre le piante in inverno si riposavano per prepararsi a rinascere a primavera e così via.
Gli animali del bosco nascevano, imparavano a crescere con l’aiuto dei vecchi, poi diventavano grandi a loro volta e mettevano al mondo altri cuccioli come era sempre avvenuto, stagione dopo stagione.
All’arsura dell’estate succedevano le piogge dell’autunno, alla pioggia autunnale la neve dell’inverno, dopo la neve veniva il disgelo e i ruscelli ricominciavano a scorrere, mentre il sole si infilava sotto le zolle a risvegliare con un piacevole tepore i semi addormentati.
E ognuno di loro si svegliava stiracchiandosi e si ricordava di portare dentro di sé il segreto della vita, dalla prima fogliolina che sarebbe spuntata sul terreno, alla pianta che ne sarebbe cresciuta, ai nuovi fiori ed ai frutti, fino ad arrivare di nuovo ai semi che si sarebbero addormentati nella terra, carichi del loro segreto e pronti per il nuovo risveglio di primavera.
E da millenni la vita andava avanti così, fatta di ritmi e di cicli. Ogni cosa aveva il suo, e, soprattutto, ogni cosa sapeva d’averlo e lo riteneva l’unico possibile. E di questi ritmi facevano parte la luce e il buio, l’acqua e la neve, le foglie che spuntavano e quelle che morivano, gli animali e le piante che nascevano, crescevano, invecchiavano e morivano, per trasformarsi in nuovi alberi e nuovi fiori.
Questa era la vita del bosco; così era sempre stato e tutti lo sapevano, perché ogni sera proprio nello spiazzo centrale si riunivano tutti gli animali vecchi e tutti i cuccioli, e i vecchi raccontavano ai giovani quello che avevano visto nella loro vita e quello che avevano sentito quand’erano cuccioli loro, e i giovani li ascoltavano per imparare a crescere.
E così i due gruppi si incontravano tutte le sere, nel cuore del bosco, al riparo di sette vecchissime querce che con i loro rami intrecciati formavano una protezione sopra lo spiazzo contro il tempo cattivo. E i due gruppi erano sempre uguali e sempre diversi: uguali perché erano sempre quello degli animali vecchi e saggi e quello dei cuccioli, e diversi perché ognuno dei gruppi variava sempre.
Ogni tanto qualche vecchio saggio e simpatico non veniva più perché era finito il suo ciclo, ma c’era un altro animale adulto che adesso diventava vecchio e veniva a riempire il suo posto rimasto vuoto nel gruppo dei cantastorie, perché le storie potessero andare avanti all’infinito.
E per ogni cambiamento nel gruppo dei vecchi c’era sempre un cambiamento nel gruppo dei cuccioli: ogni tanto qualcuno che aveva già imparato tutte le storie non veniva più, ma andava nel gruppo degli adulti per imparare le cose che gli animali adulti sapevano fare.
Però al suo posto c’era sempre qualche cucciolo piccolo piccolo che arrivava e stava lì a sentire incantato le storie del bosco nella sua lunga vita.
1. La mancanza di autonomia
Una delle situazioni sicuramente più difficili da riconoscere da parte di noi adulti è quella delle svariate forme di manifestazioni depressive infantili perché sono spesso espresse da sintomi molto differenti, che possono andare dalla mancanza di autonomia, all’iperattività, alle difficoltà scolastiche, all’apatia e così via, come vedremo nel corso del libro.
In genere il termine «depressivo» ci spaventa, perché ci fa comunemente pensare a qualcosa di grave, di definitivo e irreparabile, mentre ci sfugge il potenziale sano che invece questa situazione porta con sé.
Se ci riflettiamo, infatti, ci rendiamo conto che ci sentiamo in una situazione depressiva tutte le volte in cui dobbiamo affrontare dei cambiamenti (spesso anche quelli piacevoli), cioè quando dobbiamo fare la fatica di trovare un nuovo equilibrio per affrontare una nuova situazione.
Prendiamo ad esempio il caso di un bambino che non sappia ancora andare in bicicletta e che voglia imparare. Le prime volte che ci proverà andrà sicuramente incontro a una serie di esperienze frustranti: perderà l’equilibrio, cadrà, si sbuccerà le ginocchia, si farà qualche bernoccolo e così via. Alla fine, però, quel bambino troverà il suo nuovo equilibrio su questo oggetto in movimento e imparerà a usarlo, tanto più se è stimolato a farlo per andare a giocare con gli altri. Il periodo di frustrazione che il bambino avrà attraversato gli sarà così servito per preparare una nuova conquista.
Si può quindi dire che sia stato un periodo di disagio con uno sbocco evolutivo.
Se invece quel bambino si arrende dopo le prime cadute e a poco a poco rinuncia a imparare, ecco che la stessa situazione di frustrazione avrà invece assunto uno sbocco involutivo rispetto a una nuova conquista.
Ora, il problema che si pone a noi adulti nei confronti delle situazioni depressive infantili è quello di aiutarle ad avere un naturale sbocco evolutivo invece che involutivo.
Se pensiamo che un bambino che cresce affronta continuamente nuove situazioni, possiamo ben renderci conto di come il gioco depressivo tocchi anche lui, in questo continuo alternarsi di perdite e di conquiste. Per crescere un bambino ha bisogno di sentirsi «intero» (cioè con i suoi confini ben precisi e separati dagli altri) e perciò si deve separare mentalmente, differenziare e individuare rispetto all’ambiente e alle persone che lo circondano.
Ogni volta che questo processo di crescita viene bloccato da qualcosa, il bambino potrà inconsapevolmente comunicarlo attraverso dei sintomi di tipo depressivo, caratterizzati, tra i tanti possibili, da mancanza di autonomia ed eccessiva dipendenza dall’adulto.
Uno dei sintomi più frequenti nella fascia della scuola elementare, può essere la difficoltà a imparare.
Proviamo ad ascoltare la favola dello scoiattolo che non imparava a scuola per vedere che cosa potrebbe succedere, in certe circostanze, dentro un bambino che presenta questo sintomo.
Solo in un secondo momento passiamo poi a leggere le riflessioni teoriche che cercano di spiegarla.
Favola numero 1
Lo scoiattolo che non imparava a scuola
“Come questa pietra è il mio pianto che non si vede.” G. Ungaretti, “Sono una creatura”.
Ma una volta anche in quel bosco capitò una cosa strana.
Nel gruppo dei cuccioli c’era uno scoiattolo che si chiamava Blacky e che non voleva crescere.
Tutti i suoi compagni avevano già poco a poco abbandonato la Scuola dello Spiazzo delle Sette Querce e lui era ancora lì, con tanti altri cuccioli nati una stagione dopo di lui che lo guardavano in una maniera un po’ strana.
Ma era come se Blacky non riuscisse a imparare le storie che i vecchi raccontavano perché quando loro parlavano, anche se lui si sforzava tanto, la sua testa non riusciva a seguirli e le parole gli danzavano davanti per l’aria come senza significato.
La verità è che il cucciolo combatteva una battaglia disperata, che perdeva sempre, contro la sua testa. Più lui voleva che lei stesse lì, alla Scuola dello Spiazzo dove si imparava a crescere, più invece lei se ne andava a spasso per conto suo. E il posto dove la testa del piccolo scoiattolo tornava sempre era la sua tana, dove c’era la sua mamma che da qualche tempo aveva una strana malattia; non le faceva male niente, non si era rotta nessuna parte del corpo e c’era da mangiare abbastanza in casa, ma lei era sempre triste e continuava a piangere.
E così lo scoiattolo aveva un gran daffare a combattere con la sua testa, ma lei vinceva sempre e tornava a casa anche quando lui era alla scuola del bosco.
E allora Blacky si sentiva lui il cucciolo più infelice del bosco e di tutti i boschi della terra messi insieme e pensava che la sua mamma potesse morire quando lui era fuori tana, e che se questo fosse successo certamente la colpa sarebbe stata sua per tutte le volte in cui lui era stato cattivo con lei.
E così, a poco a poco, maturò nella sua mente un’idea e decise di partire per andare a cercare Gufo Millenario.
Si diceva che fosse un vecchio saggio che si poteva incontrare nel cuore del bosco se ci si avventurava da soli, durante la notte. Lui forse poteva aiutarlo a trovare il modo per accedere al Libro delle storie, dove era racchiuso il segreto per aiutare ciascuno.
Aspettò che ci fosse una notte di luna perché il buio gli faceva molta paura, poi, piano piano, senza farsi sentire da mamma e papà, se ne uscì dalla tana e cominciò a vagare.
Gli sembrò di andare per un mondo nuovo che lui non conosceva e anche le cose che gli erano più familiari durante il giorno ora gli sembravano diverse e nemiche.
Ma lo scoiattolino si ricordò che anche il suo papà gli aveva raccontato di aver avuto molta paura le prime volte che era andato a caccia da solo, mentre adesso era diventato forte e coraggioso e allora la volontà che sentì dentro di sé divenne così forte che vinse anche la paura e il batticuore.
E così, a poco a poco, il cucciolo si ritrovò in un punto lontanissimo del bosco, dove nessuno andava mai e dove bisognava aprirsi un varco per entrare: lui se lo aprì ed entrò.
All’improvviso vide una figura in mezzo al nero di un albero e il cuore gli cominciò a battere tanto forte che si dovette mettere una zampina sul petto per calmarlo.
E allora sentì un saluto che arrivava da tutto quel buio, guardò meglio e si accorse che era un vecchio gufo sorridente che lo guardava incuriosito.
«Chi sei?» chiese Blacky con un filo di voce che sembrava quella di un altro cucciolo e che provenisse da un altro corpo, non più dal suo.
«Sono Gufo Millenario» rispose lui. «E tu come ti chiami?» «Blacky, Scoiattolino Blacky, mi chiamano tutti così.» «E che cosa cerchi nel bosco di notte, Blacky?» E quando il vecchio gufo ebbe saputo la sua storia gli disse: «Allora vieni con me», e lo condusse dentro al cavo di un tronco millenario e il cucciolo si accorse che era tutto tappezzato di libri grossi e importanti, alcuni già scritti, altri ancora da scrivere.
«Vedi, Blacky, questo è l’archivio di tutte le vite del bosco; ci sono le storie degli animali e delle piante che sono vissuti qui e ci sono i libri in parte scritti e in parte ancora da scrivere di quelli che vivono adesso e che ci vivranno in futuro. È qui che troveremo anche la tua.».
E così Gufo Millenario si mise un paio d’occhiali, cercò un volume dopo l’altro e finalmente ne trovò uno sul ripiano più alto, tutto splendente perché non era stato ancora aperto; lo tiro giù e lo aprì alla pagina giusta.
«Ecco, Blacky, questa è la tua storia: adesso te la leggo.» E così poco a poco cominciò a leggere la sua storia e il cucciolo era sempre più meravigliato perché in quel libro era scritta tutta la sua vita, e c’erano anche tutte le sue paure, del buio, della notte, che morisse la mamma e così di seguito.
Doveva proprio essere un libro magico per conoscere tutte queste cose, anche quelle di cui lui si vergognava un po’.
E intanto il vecchio saggio continuava a leggere e a sfogliare le pagine, e quando arrivò alla storia dello scoiattolo che cercava di incontrarlo nel bosco di notte, ecco che dalle pagine del libro si staccò qualcosa.
Gufo Millenario la prese, la guardò e gliela passò.
Era una piccolissima busta su cui c’era scritto: «Dono per Blacky». Ma nella busta non c’era assolutamente niente e il cucciolo ne fu così deluso che senza che lui se ne accorgesse una grossa lacrima cominciò a scendergli lungo le guance, gli bagnò tutto il pelo, poi cadde sul pavimento fatto di terra e di radici dell’albero, come se fosse stata una grossa goccia di pioggia, ed ecco che in quel momento avvenne una cosa straordinaria.
Appena la lacrima arrivò sul pavimento, si trasformò immediatamente in una bolla che cominciò a danzare e a salire per l’aria tutta colorata, fece il giro dell’intero archivio del bosco volteggiando su e giù, dentro e fuori dei vecchi libri, e poi con un guizzo finale si infilò nella busta di Blacky e sparì.
Il cucciolo ebbe un bel cercare, ma della lacrima-bolla d’aria non restava più traccia, c’era solo la busta apparentemente vuota ma un po’ più pesante di prima. A questo punto il nostro scoiattolo era sempre più perplesso e gli sembrava proprio di non capirci più niente. Che razza di dono era se lo faceva piangere e poi gli rubava persino la sua lacrima? Ma fu la voce del vecchio gufo che lo risvegliò dalle sue meditazioni.
«Da quanto tempo non piangevi, piccolo?» E lui si rese conto che era proprio tanto tempo che non piangeva più, forse da quando era iniziata la battaglia contro la sua testa, anzi sicuramente da allora, perché le lacrime gli si gelavano prima di salire agli occhi e restavano dentro congelate come tante piccole stelle di ghiaccio.
«Vedi, Blacky, è questo il dono del libro: ti ha restituito le lacrime, hai imparato di nuovo a piangere.
Vedrai che adesso imparerai anche le storie del bosco» e il vecchio gufo lo prese per le zampette, lo fece sedere e gli spiegò che forse lui non poteva imparare alla Scuola del Bosco, perché imparare voleva dire crescere, e lui pensava che se fosse cresciuto la sua mamma sarebbe morta per sempre perché non avrebbe più avuto un cucciolo piccolo che aveva bisogno di lei e si sarebbe sentita inutile e senza scopo nella vita.
E così Blacky capì perché era iniziata la battaglia fra lui e la sua testa, e anche questo era tutto scritto sul libro.
E quando Gufo Millenario ebbe finito di parlare, lo scoiattolino aveva imparato tutta la sua storia, anche quella che prima non conosceva, e sentiva che le piccole stelle di ghiaccio che aveva dentro si stavano scongelando tutte e cominciavano a salirgli agli occhi e a cadere, poi si trasformavano in bolle, volteggiavano in aria e andavano a finire nella busta vuota, un pochino più pesante.
E quando la danza e il volteggio furono finiti, il gufo gli disse: «Ecco, adesso sei pronto a tornare allo spiazzo per crescere e imparare le storie come tutti gli altri cuccioli».
Blacky cominciava a stare così bene, ma così bene, come da tanto tempo non gli succedeva più.
Si mise la busta vuota sul cuore e ringraziò il vecchio saggio.
L’avrebbe valuto baciare e abbracciare, ma era un po’ intimidito dalla sua serietà e dal suo aspetto burbero. Gufo Millenario allora prese il libro, lo chiuse e lo mise al suo posto sullo scaffale.
«Ma qui ci sono le storie di tutti?» chiese il cucciolo.
«Certo, proprio di tutti.» «Allora posso vedere la storia della mia mamma, così magari trovo il dono anche per lei?» Ma questa volta il vecchio saggio fu molto drastico.
«No, Blacky, nessuno può venire qui a cercare la storia di un altro, ognuno deve venire a cercare la propria, anche se poi la vita di ognuno è legata a quella degli altri e tutti i libri messi insieme formano la storia del bosco.
Io so solo che la storia della tua mamma non è scritta sul tuo libro perché tu sei un’altra persona.
Se la tua mamma vuole sapere la sua storia, può venire anche lei qui a cercare di notte nel bosco e si deve aprire un varco per arrivare all’albero di tutte le storie.
Allora sì che anche lei potrà conoscere la propria e ricevere il suo dono. Tu, se vuoi, glielo puoi dire. Questo è quello che puoi fare per lei.» E il vecchio lo accompagnò fuori del tronco, poi sparì nel nero dell’albero da cui era venuto, con un fruscio di foglie.
Lo scoiattolino si ritrovò solo nel bosco, ma stavolta aveva meno paura; c’era la sua busta sul cuore che gli faceva compagnia ed era molto rassicurato dall’idea che nell’archivio del tronco millenario ci fosse un libro con tutta la sua storia, su cui si stava scrivendo in quel momento anche quella di questo suo viaggio di notte verso casa.
Quando finalmente il cucciolo arrivò alla sua tana, la luce stava sorgendo sul bosco, i rumori si stavano risvegliando e papà e mamma lo stavano cercando molto preoccupati.
Blacky raccontò la storia del suo viaggio e la sua mamma capì quello che non le era chiaro prima, e decise di andare anche lei a compiere il suo viaggio ed ebbe anche lei il suo dono che la fece tornare allegra e contenta come lui se la ricordava da piccolo.
Da quel giorno ogni volta che i due gruppi si riunirono alla Scuola dello Spiazzo il cucciolo si accorse che non doveva più combattere contro la sua testa, perché lei era lì con lui a imparare le storie del bosco.
Fu così che a poco a poco anche lui imparò tutte le storie dei vecchi e ben presto venne il giorno in cui anche per lui si celebrò la festa dell’abbandono del gruppo dei cuccioli e così Blacky, che era ormai diventato grande, passò al gruppo degli adulti per imparare tutte le cose che un adulto sa fare, anche quella di mettere al mondo dei cuccioli e di insegnargli a crescere senza aver paura.
Qualche riflessione sulla favola: Dipendenza e difficoltà a imparare
“Mamma, tu devi essere felice, perché così dopo sono felice anch’io!” Lorena, 5 anni alla mamma.
Si tratta di una situazione frequentemente presente nelle consultazioni psicologiche per problemi di apprendimento, soprattutto nella fascia elementare.
Nella mia esperienza ho verificato che dietro a un bambino che fatica a imparare o ad andare a scuola c’è spesso un problema di separazione.
Esistono in campo psicoanalitico varie scuole e posizioni diverse sull’evoluzione del bambino dalla nascita.
Quella che io ho in genere utilizzato, lavorando spesso con le mamme a partire dalla gravidanza, è stato il concetto di «nascita psicologica» come è teorizzato da Margaret Mahler:
“La nascita biologica del bambino e la nascita psicologica dell’individuo non coincidono nel tempo.
La prima è un evento drammatico, osservabile e ben circoscritto; la seconda un processo intrapsichico che si svolge lentamente […]
Chiameremo la nascita psicologica dell’individuo processo di «separazione-individuazione»: l’instaurarsi di un senso di separazione da, e di rapporto con, un mondo di realtà che riguarda soprattutto l’esperienza del proprio corpo e il principale rappresentante del mondo di cui il bambino ha esperienza: l’oggetto d’amore primario.
Come ogni processo intrapsichico anche questo si riflette lungo tutto il ciclo vitale e non ha mai fine: rimane sempre attivo e su ogni nuova fase del ciclo vitale si riflettono nuovi derivati dei primi processi ancora attivi
Ma le principali conquiste di questo processo hanno luogo nel periodo che va dal quarto-quinto mese circa al trentesimo-trentaseiesimo mese, periodo che chiameremo fase di separazione-individuazione […]
Separazione e individuazione rappresentano due sviluppi complementari: la separazione consiste nell’emergenza di un bambino da una fusione simbiotica con la madre (Mahler, 1952) e l’individuazione consiste in quelle conquiste che denotano l’assunzione da parte del bambino delle proprie caratteristiche individuali.” [1].
(Se volessimo cercare di rappresentare la mente di un neonato al momento della nascita, potremmo renderla simbolicamente con un cerchio dentro al quale sta la coppia madre-bambino. Il bambino che si è formato dentro al corpo della madre ha questa unione come sua unica esperienza mentale al momento della nascita: lui e la mamma sono la stessa cosa.
Secondo la psicoanalisi, tra il momento della nascita e il settimo- nono mese di vita del bambino si ha un leggero differenziarsi dei due mondi, che potremmo provare a rappresentare con questa sequenza (segue una rappresentazione grafica non traducibile. Nota dei curatori telematici).
Quest’evoluzione prosegue fino ad arrivare al momento in cui il bambino si avverte come separato dalla madre, che potremmo rappresentare in questo modo (segue una rappresentazione grafica non traducibile. Nota dei curatori telematici).
È questo il periodo così importante per il suo sviluppo in cui un bambino piange, si dispera, e si dimostra palesemente angosciato quando la mamma si allontana ed esce dalla stanza. Il piccolo, che non ha ancora acquisito il concetto di permanenza dell’oggetto nel senso di Piaget (cioè la capacità di avere presente nella mente un oggetto fisicamente assente) è giustamente angosciato perché si sente abbandonato.
Per lui la mamma, la sua unica sicurezza al mondo, non c’è più, è sparita, come se fosse morta.
A quel punto ecco che intervengono delle strategie che il bambino attua per consolarsi e che lo aiuteranno verso la nascita del pensiero simbolico.
Proprio perché ha sperimentato un buon attaccamento e un buon legame con la mamma, che si è sempre presa cura di lui giorno e notte, il bambino è in genere in grado di cominciare a riprodurre questo legame con qualcosa d’altro, che diverrà a poco a poco il sostituto della sicurezza materna, dal ciucciotto al lenzuolino, all’orsacchiotto.
(È evidente che parlando di madre si intende l’adulto di riferimento per il bambino.)
Il significato degli oggetti privilegiati (chiamati «transizionali» da Winnicott) è proprio quello di dare al bambino la stessa sicurezza che gli dà la madre perché ne diventano un simbolo, con la differenza che mentre la mamma va e viene e non può essere controllata, suscitando la paura di essere abbandonato, questi oggetti invece sono sempre sotto il suo controllo, non l’abbandonano mai.
Ecco quindi che con l’entrata in gioco dell’oggetto transizionale, simbolo della sicurezza materna, il bambino si prepara a sviluppare il pensiero simbolico.
Il fatto che poi la mamma torni ogni volta, farà sperimentare che dopo un’assenza c’è sempre un ritorno e sarà questa esperienza di continue partenze-ritorni, insieme a tutti i giochi simili (ad esempio quello del cucù, dello sparire e riapparire alla vista…) che a poco a poco permetterà di acquisire la permanenza dell’oggetto, che è poi la capacità di continuare a pensare a un oggetto (cioè ad averlo “presente” nella mente) anche quando questo è fisicamente assente.
Il bambino di solito raggiunge questo tipo di capacità intorno ai tre anni.
Tanti bambini a questa età hanno difficoltà a frequentare la scuola materna proprio perché si confrontano con l’acquisizione di questa dimensione: infatti per potersi separare bisogna essere accompagnati dalla mamma almeno nel pensiero.
Aiutare un bambino a sviluppare le sue strategie per superare la difficoltà di questo distacco significa quindi permettergli di accumulare l’esperienza, così importante per lui, che separarsi non vuol dire morire (vedi anche il tema della favola “I cuccioli che si ammalavano spesso”).
La scuola materna in genere rappresenta infatti la prima grossa prova sociale che il piccolo deve affrontare nel corso della sua crescita e che sarà seguita da molte altre prove di distacchi ugualmente difficili.
Ora, l’osservazione comune ci porta a notare che, quando si trova in una situazione di difficoltà o comunque nuova, il bambino tende a tornare dai genitori, la mamma in particolare, quasi ad attingere sicurezza stando attaccato a lei, esattamente come è avvenuto nel processo intermedio di separazione: lo sperimentare questa sicurezza gli darà il coraggio di affrontare in seguito la situazione nuova o le difficoltà; gli permetterà cioè, nei termini di Bowlby, un ritorno alla base sicura da cui ripartire:
“Questo mi porta a quella che io ritengo la caratteristica più importante dell’essere genitori: fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi al mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato.
In sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario.
Sotto questo aspetto si tratta di un ruolo simile a quello dell’ufficiale che comanda una base militare da cui una forza di spedizione si mette in viaggio e in cui può ritirarsi in caso di sconfitta.
Per gran parte del tempo il ruolo della base è un ruolo d’attesa, ma è nondimeno vitale. Perché solo se l’ufficiale che comanda la spedizione ha fiducia che la sua base sia sicura, può osare spingersi in avanti e correre dei rischi.
Nel caso di bambini e di adolescenti noi li vediamo, man mano che crescono, avventurarsi sempre più lontano dalla base e per periodi di tempo sempre maggiori. Più hanno fiducia che la loro base sia sicura e pronta a rispondere se chiamata in causa, più lo danno per scontato.” [2]
Sperimentare la sicurezza data dalla mamma e dall’ambiente familiare è ciò che permette poi al bambino di staccarsene per esplorare, esattamente come lo ha descritto Bowlby.
È questo il significato del periodo di inserimento dei bambini alla scuola materna.
Per potersi inserire in un ambiente nuovo che provoca ansia, il bambino avrà bisogno di essere vicino al genitore che lo rassicuri in una situazione non familiare, finché anche quest’ultima sarà diventata familiare e non più minacciosa per lui.
Solo allora il bambino potrà accettare di staccarsi dal genitore e di stare a scuola senza di lui, ma per poterci restare dovrà essere costantemente accompagnato nella sua mente dal pensiero più confortante che abbia, quello della mamma.
Potremmo rappresentare questo momento così: (segue una rappresentazione grafica non traducibile. Nota dei curatori telematici).
Ora, quando un bambino incontra invece grosse difficoltà a stare a scuola, non solo agli inizi o in certi momenti particolari, ma “abitualmente”, può essere che in qualche modo e per qualche motivo sia rimasto legato al processo intermedio di separazione mentale dalla mamma in una fase precedente, per cui si sente ancora attaccato a lei attraverso una parte in comune che appartiene a entrambi e che potremmo rappresentare così: (segue una rappresentazione grafica non traducibile. Nota dei curatori telematici).
Ne consegue che nel momento in cui è a scuola, cioè lontano, per avere la forza di restarci finché il nuovo ambiente non gli sarà familiare, il bambino ha bisogno di essere accompagnato dal pensiero più familiare e rassicurante, quello della mamma; ma la mamma che compare come oggetto mentale in questo caso è ferita, le manca un pezzo, esattamente quello in comune fra lui e lei.
Avere questa mamma dentro ai suoi pensieri è una cosa intollerabile per il bambino che quindi vorrà tornare a casa per ricostituire l’unità originaria, anche perché questa sua fantasia di mamma ferita/sofferente ha in genere un riscontro nella realtà della madre che, a sua volta, soffre davvero per questo distacco, cioè ha lei stessa difficoltà di separazione mentale dal bambino.
Nel caso, ad esempio, in cui il bambino abbia alle spalle una madre sofferente per depressione, come per lo scoiattolo della favola, la separazione sarà decisamente più difficile, perché il pensiero che l’accompagna è quello della mamma che soffre e questo è fonte di dolore, tanto che spesso è lui che si sente in colpa se la mamma è ammalata.
Ecco perché il miglior aiuto in questi casi lo si può dare non al bambino, ma alla mamma, cercando di aiutarla a usare le sue risorse per alleviare il carico di sofferenza che si porta in quel momento della vita.
Il bambino intuisce, forse istintivamente, che in due ci si sente più forti e tende a essere lui a dare l’aiuto, ma il rischio è che si ricostituisca la coppia chiusa madre-bambino che è d’ostacolo nel processo di separazione-individuazione.
È importante invece che qualche altro adulto intervenga: fondamentale è il ruolo del padre come terzo che permetta la crescita, nonché il confronto con altri che vivono le stesse esperienze.
«Questo gruppo mi serve a capire che non si è unici ad avere problemi e ansie,» riporta un giorno una giovane madre in un gruppo «e poi mi è servito molto a non drammatizzare le cose, ma a cercare sempre di capire che cosa succede, anche tra di noi.
Per esempio, dopo che abbiamo discusso su come è importante che il bambino abbia un rapporto più continuo con il padre, poi io ne ho parlato con mio marito e anche lui è stato d’accordo, anzi è stato proprio contento di assumersi un compito e adesso si incaricherà lui di portare il bambino ai controlli pediatrici. Finora delegava sempre me a occuparmene, però poi lui si sentiva tagliato fuori e io mi sentivo troppo piena di responsabilità e troppo sola, come se il figlio fosse solo mio e io e lui fossimo la stessa cosa.».
A volte sorprende scoprire come un intervento minimo di questo genere sia sufficiente a modificare una dinamica familiare, alleggerendo il carico reciproco e favorendo a poco a poco un maggior benessere di tutti, non solo del bambino.
A questo proposito l’esperienza consultoriale mi ha portato a ritenere che il periodo più proficuo per un intervento di supporto psicologico che agisca nell’ottica della prevenzione o dell’attenuazione del disagio infantile sia la gravidanza che, come tutti i cambiamenti importanti, può essere vissuta con molta ansia.
Credo che la storia di Simona, riportata fra le testimonianze finali di questo libro, possa aiutare a capire la complessità del rapporto mamma-bambino a partire da tale periodo.
Il tema della dipendenza può sfociare spesso nell’attaccamento simbiotico nei rapporti, che è importantissimo agli inizi della vita, come abbiamo visto, ma può diventare invece fonte di disagio e sofferenza sul piano evolutivo.
Se permane infatti immutato e fisso nel tempo potrà correre il rischio di tenere legati al passato, rendendo così difficile il processo di autonomia psichica.
Nella modalità simbiotica è come se non si potesse esistere senza l’altro che diventa, come lo definisce Racamier, «un garante d’esistenza».
L’altro in questo caso non è necessariamente una persona, ma può essere un oggetto, un luogo, un’idea… con cui si instaura la stessa simbiosi originariamente sperimentata con una persona.
È evidente che questa modalità di rapportarsi al mondo è fonte di grande sofferenza sul piano mentale perché la dipendenza è assoluta, totale, come a dire che senza l’altro non si può esistere.
Anche questa è però una modalità di funzionamento mentale strutturatasi in un rapporto.
Una volta che il bambino rimane fissato a questa modalità di rapportarsi al mondo la userà poi per tutto, persone, oggetti e luoghi, anche da adulto.
Persino con le proprie idee, cioè con il contenuto del proprio pensiero, si può avere una modalità simbiotica; è come se in questo caso anche le idee fossero garanti della nostra stessa esistenza e in certi casi ci aggrappiamo spasmodicamente a loro come se fossero le uniche possibili a rappresentare la nostra continuità di esistenza, cioè un bisogno vitale.
Il problema della separazione in questo caso è proprio lo spazio dialettico che viene a mancare fra noi e il nostro stesso modo di funzionamento mentale che confondiamo con il contenuto del pensiero, le idee.
È proprio “perché usiamo quel tipo di funzionamento mentale” che ci è difficile o impossibile rinunciare al contenuto del nostro pensiero, cioè alle nostre idee.
Si tratta quindi di spostare l’oggetto di conoscenza dal contenuto del pensiero, le idee, alla modalità di funzionamento mentale, al legame più o meno simbiotico che abbiamo col mondo.
La libertà psichica che ne consegue è in genere fonte di maggior benessere sul piano mentale.
Una volta fatta questa operazione possiamo anche continuare ad avere le nostre idee o la nostra ideologia precedente, ma in modo più libero, cioè come scelta e non come garanti del nostro stesso esistere e in ogni caso abbiamo anche aperto lo spazio per altre possibilità che siano diverse da quelle che abbiamo individuato noi.
Dice la Miller a questo proposito:
“Se la persona in questione venne educata sin da bambina a un’obbedienza incondizionata senza poter sfuggire all’occhio dell’educatore da adulta rischierà di assolutizzare le teorie, di restarne succube, anche se i loro contenuti traboccano di belle parole come libertà, autonomia, progresso.”[3]
Alle radici dell’atteggiamento simbiotico sta spesso il voler stare emotivamente attaccati alla condizione iniziale della vita, la simbiosi dei primi mesi con la madre, perché è come se per qualche motivo si sentisse il bisogno di tornare a godere di una sicurezza che si ha la sensazione di non aver sperimentato fino in fondo.
È questo un punto che vale la pena di chiarire, a evitare colpevolizzazioni inutili della madre.
Ciò che si intende in questo caso non sono le cure che la madre ha del bambino; al contrario, moltissime volte ci possono essere alle spalle di questo problema delle madri che hanno avuto le cure più premurose per il loro piccolo.
Si tratta invece di quella che Winnicott definisce «carenza materna», da non confondersi con le cure materne che invece possono essere ottime.
“Così, – racconta Winnicott a proposito del caso di Tony – si è trattato di una crisi depressiva in una depressione cronica presso una madre eccellente in seno a un buon ambiente familiare, quella che ha prodotto la carenza; questa, a sua volta, ha determinato il sintomo attuale nel caso di Tony.” [4]
Credo che sia fondamentale ricordare questa osservazione di Winnicott per combattere il concetto di “mother killer”.
Nel concetto di “carenza” in questo senso non esiste un problema di colpa da parte dei genitori.
Come si può incolpare una madre «eccellente», come ricorda lo psicoanalista inglese, perché soffre di depressione? Semmai il problema è quello opposto, di aiutarla nella sua depressione perché il bambino possa trarre maggior vantaggio dalle sue cure.
È importante tener presente questo punto se vogliamo evitare di innescare il circuito della colpevolizzazione che genera solo ansia e confusione.
Mi è capitato di rifletterci anche recentemente in una consulenza per un bambino che presentava dei sintomi di disagio.
Il pediatra che l’aveva in cura e che godeva della fiducia dei genitori aveva detto che si trattava probabilmente di una carenza d’affetto e l’aveva fatto in perfetta buona fede.
Ma proviamo a chiederci: che cosa può succedere nel mondo interno di due genitori che già soffrono loro stessi di non riuscire a far niente per il loro bambino che vedono soffrire, e in più si sentono dire che lui soffre per carenza d’affetto?
Un intervento del genere corre il rischio di peggiorare la situazione aumentando le ansie di tutti.
Chi è andato ad ascoltare qual è la storia di questi genitori e quali possono essere o essere state le difficoltà della loro vita per cercare di portarvi un aiuto?
Ricordo con grande simpatia una madre che un giorno si era presentata chiedendo una consultazione per la sua bambina e dicendo espressamente: «Guardi, io provo anche la psicologia perché mia figlia è la cosa più importante che io abbia al mondo e allora voglio fare anche questo tentativo, visto che con la medicina non sono riuscita ad aiutarla. Ma che sia ben chiaro: io sono qui per lei, non per me!».
Una volta finita la consulenza per la piccola, due anni dopo, ricevo una telefonata dalla stessa madre che mi chiede un appuntamento dicendo: «Questa volta la bambina non c’entra per niente, è per me che vorrei venire». Più tardi la stessa signora (che aveva nel frattempo iniziato delle sedute d’appoggio) mi ha detto: «Lei non ha idea di come sia cambiata la mia qualità di vita!».
Racamier direbbe che anche qui c’è stata una bambina che ha portato la mamma in terapia perché qualcuno la aiutasse in un momento di difficoltà.
Il problema della colpevolizzazione nasce forse anche dal fatto che noi tendiamo a pensare sempre in termini di causa-effetto per cui di ogni fenomeno vogliamo individuare le cause o responsabilità.
La giovane madre non era certo causa della sofferenza di sua figlia che lei amava teneramente: il fatto è che entrambe erano prese dentro alla stessa sofferenza di una storia e di una condizione di vita di cui erano vittime.
2. I comportamenti provocatori
Un’altra situazione che è sicuramente difficile da capire e faticosa da gestire nella relazione con un bambino è quella dei comportamenti provocatori.
Anche qui però può essere utile cercare di distinguere i casi in cui un bambino presenta questo tipo di comportamento saltuariamente, soprattutto nei momenti di difficoltà, da quelli in cui lo presenta invece costantemente, cioè come sua specifica modalità di carattere.
Ora, se nel primo caso si tratta spesso di situazioni transitorie che un adulto attento può ascoltare e interpretare come momenti passeggeri di crisi di crescita, nel secondo caso sarebbe invece importante rendersi conto che è proprio la permanenza costante di questo atteggiamento ciò che testimonia la permanenza costante di una difficoltà emotiva in un bambino.
Tutto ciò che noi adulti riusciremo allora a fare per aiutarlo a superare questa difficoltà potrà rappresentare per lui un grosso aiuto evolutivo.
La favola che segue ora non è solo servita alla madre per capire meglio suo figlio, ma anche agli insegnanti del bambino che avevano chiesto un colloquio proprio per discutere dei suoi atteggiamenti provocatori all’interno della classe.
Non è facile per un insegnante confrontarsi continuamente con questo tipo di atteggiamento che è sempre un po’ di sfida a lui e al gruppo e non è facile per uno psicologo intervenire ad aiutare entrambi.
Al bambino che sta dietro a questa favola la sorte aveva dato, insieme a una storia difficilissima e dolorosa, un gruppo di insegnanti particolarmente attenti ai bisogni dei ragazzi. Dopo aver letto attentamente la favola non hanno chiesto soluzioni magiche o miracolistiche, ma hanno semplicemente detto: «Va bene, è difficile, ma adesso almeno sappiamo perché fa così. Cercheremo noi le nostre strategie con lui».
Favola numero 2
Il lupacchiotto che faceva sempre i dispetti.
“Sono l’unico vostro suddito, io che ero il Re di me stesso.” W. SHAKESPEARE, “La Tempesta”.
Quello delle Sette Querce era proprio un bosco normale come gli altri di questa terra e quindi c’erano anche lì gli animali tranquilli che tutti giudicavano buoni e quelli scatenati che tutti ritenevano cattivi.
Ma c’era un cucciolo che in fatto di cattiveria non aveva rivali: era un lupacchiotto scuro e col pelo irto, sempre pronto ad attaccare e a fare i dispetti agli altri, finché tutti lo scacciavano. Anche quando andava alla Scuola dello Spiazzo trovava sempre il modo di infastidire qualcuno; o tirava la zampa a uno, o pestava la coda a un altro, o lanciava le ghiande sul naso di chi gli stava di fronte, ma fermo non stava proprio mai.
E ogni volta era sempre la stessa storia: gli altri cuccioli si lamentavano, c’era chi si ribellava, chi subiva, chi andava a dirlo al gruppo degli Anziani, e cambiava posto finché lui restava solo col suo pelo nero irto che lo faceva sembrare ancora più brutto.
E così gli altri cuccioli si vendicavano chiamando/o «il Brutto» e lo prendevano in giro per il suo pelo.
Lupacchiotto faceva finta di niente, ma dentro di sé ne soffriva molto. Il fatto è che tutti gli altri cuccioli, almeno così sembrava a lui, avevano a casa una mamma che li amava, che gli spazzolava il pelo prima che uscissero dalla tana, che gli cambiava il fiocco tutti i giorni e glielo preparava ogni volta bello lavato e stirato di fresco.
Invece la sua mamma non aveva mai il tempo di fare tutte queste cose.
Era una mamma che aveva sempre da fare, ma che non riusciva a concludere tutti i lavori anche perché aveva quattro figli: Lupacchiotto, che era sempre ribelle, Lupetta che era molto più carina ma voleva sempre lei l’attenzione, e due gemelli che erano molto piccoli e avevano ancora bisogno di tutto.
E così quando si arrabbiava, era con Lupacchiotto che si sfogava spesso e gli diceva delle cose che i grandi a volte dicono senza crederci fino in fondo quando sono proprio fuori di sé, perché sono molto arrabbiati e non si rendono conto che i cuccioli invece a quelle parole ci credono davvero, anche quando fingono il contrario.
Allora quando la sua mamma gli urlava: «Tu sei proprio la mia rovina, mi farai morire!», Lupacchiotto ci credeva davvero e aveva veramente paura che la mamma morisse e a volte era così terrorizzato che desiderava davvero che lei morisse e poi subito dopo si spaventava di quel pensiero che gli era venuto e per cancellarlo faceva tutto quello che poteva per aiutare la mamma: andava a prendere il latte, accompagnava la sorellina a scuola, accudiva i fratelli piccoli e così di seguito.
Però Lupacchiotto era un cucciolo molto triste.
Lui non aveva il problema di non riuscire a imparare le storie, anzi, quelle gli piacevano proprio; era solo sui calcoli che non riusciva molto, ma si sa che in un bosco i numeri non servono tanto e, in ogni caso, quelli che servono tutti li conoscono naturalmente.
Quello che invece non gli piaceva era il fatto che, secondo lui, la mamma trattava meglio i fratelli più piccoli e, soprattutto, gli pesava che loro fossero figli del suo papà attuale, mentre lui era figlio di un altro papà, da cui la mamma si era separata.
E così il cucciolo si sentiva diverso dagli altri in casa e si sentiva diverso dagli altri allo Spiazzo delle Sette Querce.
Per fortuna c’era una cosa che lui sapeva fare molto bene: le partite del bosco. In queste gare era proprio un cucciolo contento perché correva e giocava insieme agli altri e non era mai rifiutato, anzi tutti lo cercavano perché era bravo, agile e svelto e in certi momenti lo applaudivano persino e lui si sentiva tutto caldo dentro dalla soddisfazione e in quei momenti dimenticava le altre volte in cui era triste e arrabbiato.
Però le partite del bosco erano una o due volte la settimana, per cui per la maggior parte del tempo Lupacchiotto era scontento.
E una sera che era particolarmente arrabbiato e che i suoi compagni lo scacciavano e si lamentavano con il gruppo dei vecchi, ecco che uno dei saggi che gli erano più simpatici, il leone Criniera d’Oro, lo guardò dritto negli occhi e disse: «Adesso vi racconterò la mia storia in questo bosco. Tanto e tanto tempo fa io ero un cucciolo, proprio come voi, non ero vecchio come ora. Ero molto forte e prepotente, vincevo quasi tutte le gare del bosco, mi piaceva andare in giro tutto il giorno, ma ero sempre scontento perché ero convinto che la mia mamma volesse più bene ai miei fratelli che a me.
E così facevo sempre i dispetti ai miei fratelli fino a quando le prendevo di santa ragione e quando uscivo dalla tana facevo sempre i dispetti agli altri finché tutti mi lasciavano solo.
C’era, è vero, un momento in cui tutti mi ammiravano ed era quando ruggivo, avevo il ruggito più potente del bosco, ma non potevo ruggire tutto il giorno per farmi ammirare e così per la maggior parte del tempo ero scontento e arrabbiato.
Finché un giorno ero così stanco che decisi di aspettare la notte e di partire per cercare anch’io il libro della mia storia, e così feci.
Quando finalmente arrivai all’albero di tutte le storie trovai Gufo Millenario che mi guardò e disse: “Andiamo a vedere che cosa c’è scritto sul tuo libro”. E mi portò all’interno del tronco millenario.
E quando ebbe trovato il libro della mia storia la lesse e poi mi disse: “Sai qual è il tuo problema, cucciolo? Che tu non hai ancora trovato chi sei. Finora ti sei visto o rifiutato dagli altri, o applaudito, per cui non puoi che comportarti in modo da farti rifiutare o applaudire.
Questo succede però perché tu hai sempre bisogno che gli altri si occupino di te, in quanto pensi che la tua mamma non l’abbia fatto abbastanza.
Ma se la tua mamma non si fosse occupata di te quando tu eri molto piccolo, saresti morto di fame, non saresti cresciuto e non avresti imparato né a camminare, né a cacciare, né a ruggire. È stata lei che ti ha sfamato quando avevi fame, ti ha protetto dai temporali e dal freddo dell’inverno, ti ha rialzato quando ruzzolavi perché non sapevi camminare e ti ha insegnato a essere forte e a ruggire. È proprio perché lei si è occupata di te che tu ora sai fare queste cose e adesso lei le deve fare per i tuoi fratellini, che queste cose non le sanno ancora fare.
Allora, quando ti viene il pensiero che la tua mamma non ti voglia bene, prova a pensare a che cosa ne sarebbe stato di te se lei non ti avesse portato nella sua pancia prima e poi nutrito, protetto e riscaldato quando eri piccolo. Forse, se lasci che questo pensiero possa entrare nella tua testa, ti sentirai meno arrabbiato con tutti.
Devo dire che io ero molto perplesso e non capivo che cosa c’entrasse la mia mamma col fatto che gli altri mi rifiutassero, però Gufo Millenario aveva l’aria molto saggia e mi ispirava fiducia. E così a poco a poco provai a fare quello che mi aveva suggerito e permisi a quel pensiero che prima non era mai voluto entrare nella mia testa di entrarci.
Le prime volte lo faceva di sfuggita e scappava subito fuori: era proprio come se non volesse coabitare con la testa; poi cominciò a fermarsi qualche volta e alla fine arrivava liberamente e si fermava.
E poco a poco mi accorsi che anche i pensieri dentro di me cominciarono a cambiare e quando finalmente io mi resi conto che la mia mamma voleva bene a ognuno di noi in modo differente perché ognuno era diverso, anche con gli altri cuccioli io mi trovai molto meglio: non avevo bisogno né di fare continuamente i dispetti né di farmi applaudire.
Ero semplicemente uno come loro, che giocava, si divertiva, imparava, litigava, piangeva e si faceva male esattamente come tutti gli altri.
Adesso sapevo finalmente chi ero: non dovevo più farmi rifiutare o applaudire a ogni costo.»
Lupacchiotto aveva ascoltato molto attentamente la storia del vecchio leone, e in certi momenti gli era sembrato di vedersela proprio lì davanti a lui, come se fosse stato lui il protagonista, anzi, si era tanto immedesimato che a volte gli era persino venuto il batticuore.
Ma quando la storia fu finita emise un gran sospiro e pensò tra sé che quella sì era una bella storia, ma lui non era come Criniera d’Oro, la sua era certamente diversa, e se ne andò via scontento più di prima.
Ma si sa che i pensieri che cascano una volta nella testa sono come i semi, da uno ne nasce un altro, da questo un altro ancora e così via.
E un giorno che Lupacchiotto era come al solito arrabbiato con la sua mamma, ecco che gli cadde in testa il pensiero delle parole di Gufo Millenario e allora provò a guardare meglio la sua mamma e vide delle cose che prima non aveva mai visto.
Vide una mamma che era molto stanca e che aveva sofferto tante cose nella vita e che si dava sempre da fare, ma che, anche se voleva, tante cose non riusciva a farle, proprio come lui con i conti. Era una mamma che faceva tutto quello che poteva, proprio tutto quello che poteva, anche per lui, anche se lo sgridava tanto.
Lupacchiotto fu molto sorpreso da quel pensiero; non gli piaceva proprio, preferiva la sua vecchia idea che gli faceva sempre compagnia, e così lo scacciò. Però qualche giorno dopo il pensiero gli cascò nuovamente dentro alla testa e si fermò un minuto di più. E così la lotta fra lui e il suo nuovo pensiero andò avanti per un po’, poi alla fine si erano tutti e due talmente abituati a lottare e a farsi compagnia, che decisero di fare la pace.
E così nel Bosco delle Sette Querce si vide a poco a poco un lupacchiotto che giocava con gli altri, che litigava, che si faceva male, che faceva la pace e giocava di nuovo, proprio come tutti gli altri cuccioli del bosco, e non si ebbe più un cucciolo rifiutato o applaudito che per trovare se stesso aveva sempre bisogno di essere ammirato o scacciato.
Qualche riflessione sulla favola: Il bambino difficile
“Mamma, era meglio se papà non te lo metteva il semino nella pancia! Guarda che brutto muso è uscito!” Dario, 4 anni, alla nascita di Alice.
Questa è la favola che era stata scritta in origine per il figlio ed è stata invece letta alla madre. Il suo obiettivo è quello di aiutare gli adulti a capire che dietro a un bambino difficile c’è in genere un messaggio profondo di sofferenza che di solito non viene riconosciuto.
Il sintomo di cui il cucciolo della favola era portatore è molto frequente nei bambini e ciascun insegnante ha l’esperienza di almeno uno o più casi del genere in ogni classe, anche oltre la scuola elementare.
Il meccanismo che questo bambino riproduceva era il suo modo di entrare in contatto con il mondo, la sua unica modalità di sentirsi esistente, l’essere cioè sempre «attaccato» agli altri anche attirandosene le reazioni negative.
Di fondo c’era anche qui un problema di eccessiva dipendenza dall’altro che in questo caso aveva un po’ la dinamica raccontata dalla favola, in altri casi ne potrebbe avere altre ancora (è importante ricordare che ognuno ha la propria storia).
Quello che in genere accomuna questi bambini sembra essere il fatto che questa modalità di reazione la applichino quasi costantemente, anche senza rendersene conto, nei loro rapporti con il mondo, con le caratteristiche di un gioco che diventa parte del loro comportamento abituale. Anche qui si tratta, tuttavia, di una modalità di comportamento che non nasce dal nulla, ma si struttura in una relazione importante e quotidiana, che in questo caso era quella con la madre.
La mamma che ha ispirato questa storia era così esasperata dal non capire le reazioni di suo figlio e aveva lei stessa una situazione così difficile che aveva a volte chiesto che il bambino venisse allontanato da lei e messo in collegio. Ciò però avrebbe probabilmente sancito definitivamente per il bambino il sentirsi abbandonato e rifiutato, togliendogli anche la possibilità di crescere, sia pur nella sofferenza.
Era una madre che aveva alle spalle una storia tristissima e che faceva fatica anche lei ad andare avanti nella vita, ma che in fondo amava suo figlio, anche se non riusciva a capirne i comportamenti. Il cominciare a poterlo guardare con occhi un po’ diversi da prima è quello che le ha permesso invece di riuscire in quel momento a vedere le cose attraverso gli occhi del bambino, disinnescando il meccanismo di rifiuto che entrava in gioco precedentemente.
L’aiuto che può venire in questi casi è proprio il fatto che una piccola modificazione quotidiana e possibilmente costante del comportamento dell’adulto può a poco a poco agire nel corso del tempo sul vissuto del bambino, in questo caso sul sentirsi rifiutato, che è all’origine del suo comportamento reattivo.
Quando questa modificazione non è possibile, invece, è facile che il meccanismo si perpetui nel tempo rinforzandosi e facendo in modo che un bambino che per qualche motivo si sente rifiutato si comporti in modo da farsi rifiutare sempre di più, come se fosse attaccato a questa unica possibilità di identificazione a cui si aggrappa disperatamente pur di non restare senza identità, cioè di non sentirsi esistente.
Sotto un comportamento reattivo, come sotto ogni sintomo, c’è perciò sempre un linguaggio da scoprire. Un bambino che dice sempre di no o che fa sempre i dispetti può avere paradossalmente un problema di dipendenza dall’adulto ancora maggiore rispetto a quello di uno palesemente troppo attaccato; entrambi stanno incontrando, per motivi e in modi diversi, qualche ostacolo nel processo verso l’indipendenza e l’autonomia.
Lo stesso problema può quindi essere manifestato in modi molto diversi, a volte addirittura opposti, secondo le difese che ogni singolo bambino riesce a costruire nel corso della sua infanzia.
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Note
1. Mahler-Pine-Bergman, “La nascita psicologica del bambino”, Bollati-Boringhieri, Torino 1978. (torna al testo)
2. Bowlby, “Una base sicura”, Cortina, Milano 1989. (torna al testo)
3. A Miller, “Il bambino inascoltato”, Bollati-Boringhieri, Torino 1989. (torna al testo)
4. D. W. Winnicott, “Dalla pediatria alla psicoanalisi”, Giunti Martinelli, Firenze 1991. (torna al testo)