La contemporaneità è sempre più spaventata di fronte alla crisi che attanaglia il mondo occidentale. Soprattutto la Chiesa Cattolica Romana sembra oggi intenzionata ad interrompere il dialogo con la scienza e con il pensiero contemporaneo, paventando lo spauracchio di derive relativistiche per impressionare la comunità dei fedeli ed una fetta dell’elettorato laico culturalmente non troppo aggiornato.
La crisi della ragione è la sfida del nostro tempo con cui dobbiamo, giocoforza, confrontarci. Sostenere, come fa la Chiesa Cattolica Romana, che la fede è un antidoto o un annuncio salvifico grazie al quale il fedele può scavalcare quattromila anni di pensiero occidentale, vuol dire non avere capito nulla del nostro tempo. Ma, poiché, non posso disconoscere le grandi competenze teologiche e filosofiche di Ratzinger, sono convinto che il Papa non sia tanto intenzionato a dialogare con il pensiero contemporaneo, quanto a tentare di sottrarsi al confronto, guardando con nostalgia alla tradizione e alla speranza di far coincidere la fede con l’altra domanda sull’essere di Parmenide, il sentiero mai percorso dall’ontologia occidentale. Operazione, peraltro, alquanto complessa dopo l’abiura della mistica speculativa. Prima di procedere è indispensabile comprendere bene che cosa veramente sia il “relativismo” e perché è assurto a spauracchio del Cattolicesimo (sarebbe utile, ripetere la stessa operazione anche per il concetto di “nichilismo”, ma per ovvi problemi di spazio, preferisco rimandare la disanima ad un’altra occasione). Quando si parla di “relativismo”, come ho già accennato, non possiamo prescindere dal pensarlo come eredità della storia del pensiero occidentale. I motivi che sottendono la formazione di questo pesante lascito sono molteplici.
La ragione cartesiana e illuministica entra in crisi all’inizio del Novecento ed implode dopo il secondo conflitto mondiale. Altre correnti postfilosofiche si affacciano all’orizzonte. In ambito continentale, l’ermeneutica, la teoria critica, il poststrutturalismo, il postomdernismo, il decostruzionismo, la filosofia pratica, la nuova epistemologia (corrente, al contempo, continentale ed analitica). In ambito anglossassone, la filosofia analitica, interessata al confronto con la scienza ed il linguaggio. Tutte queste correnti – pur nella diversità d’intenti e di metodologie – sconfessano la vecchia filosofia fondazionalista, le metanarrazioni (escatologia e teleologia) e le metateorie (la metafisica). Dal canto loro, le moderne scienze umane ribadiscono l’impossibilità di una qualche forma di sapere assoluto ed universale. La crisi del fondazionalismo è completata dalla letteratura del Novecento, che mette in discussione l’ontologia dell’identità soggettiva. Il sapere, da adesso in poi, può essere soltanto «relativistico». Il relativismo può assumere diverse forme (storico, epistemologico, logico-linguistico, etico, ecc.), ma in ogni caso può essere definito come «quella posizione (o insieme di posizioni) che rifiuta la possibilità di elaborare un complesso di conoscenze, di credenze, di precetti etici, condivisi universalmente ed oggettivamente determinati». Il relativismo comporta l’inevitabile incenerimento dei campi del sapere e delle scelte etiche: tutto è lecito, finché non viola la sacra sfera della differenza, finché la personale weltanschauung – o visione del mondo – non viene imposta all’Altro. Inevitabilmente, il relativismo trova la massima apoteosi nella postmodernità, dove si annullano le vecchie categorie di “alto” e “basso”, “sacro” e “profano”. È proprio questa sorta di omologazione nella differenza, di livellamento assiologico ed ontologico, a preoccupare il cattolicesimo: nella controcultura la lettura di un fumetto equivale alla lettura della Bibbia o dei Padri della Chiesa. In cui non c’è differenza, sotto il profilo etico, tra i gusti di un papa-boys e quelli di un “ discotecaro ”. Una concezione in cui tutte le fedi sono uguali e degne di rispetto. In cui nessun dogma o nessuna nota della Cei può essere imposta dall’“alto”. In cui l’infallibilità papale conta quanto l’opinione di un comune parroco di campagna. Questa è lo spauracchio temuto dalla gerarchia d’Oltretevere che pretende, al contrario, di continuare ad esercitare i suoi secolari pregiudizi sulla sessualità e sul modus vivendi della collettività. In fondo, una posizione assolutamente antitetica al comandamento dell’amore universale introdotto da Cristo. Dopo aver definito il concetto di “relativismo” ed aver indicato le motivazioni sottese alla relativa idiosincrasia cattolica, illustrerò le ragioni per cui – al contrario – il relativismo non solo non può essere facilmente messo tra parentesi, ma costituisce un’occasione unica per il pensiero occidentale. Nel Novecento sono stati compiuti diversi tentativi di recupero delle strutture mitiche, attraverso la psicologia del profondo, l’antropologia dell’immaginario, ecc. Tutte queste scienze umane hanno svolto bene il compito prefissato che consisteva nell’assimilare il mythos filtrandolo attraverso le griglie dell’analisi, riconducendo gli archetipi alla razionalità “diurna” ed identitaria. Il decostruzionismo ha percorso il sentiero inverso, teorizzando la liberazione peritestuale della differenza; dal canto suo, Lacan ha rovesciato il paradigma, teorizzando la libera espressione dell’Inconscio. Fino ad ora il pensiero occidentale si è preoccupato sopratutto di liberare il rimosso attraverso il disvelamento assimilatore del logos, o, al contrario, inaugurando la frantumazione semantica dei significanti (archetipi), mediante la sospensione dei significati. Si tratta, adesso, d’elaborare un’ermeneutica in grado di correlare queste due dimensioni della mente umana, articolando la loro declinazione in nuovi orizzonti di senso. Nessun aut-aut, o corno del dilemma: il mythos insieme al logos. Invece di propugnare derive fideistiche o di contemplare con nostalgia le vecchie, totalitarie, metateorie, ritengo che sia questo il compito che il relativismo ci assegna. Un compito, al contempo, che si presenta come una sfida ed una possibilità. |