La Caduta dall’Eden – parte 1

Miti e SimboliAbbiamo visto come gli archetipi dei nomadi del deserto si fondano, essenzialmente, sulla visione di un dio unico, capo tribù e legislatore. Da questo solitario dio virile e padre-padrone si dipana un reticolo strutturale di nessi simbolici e sociologici tesi a relegare l’elemento femminile ai margini della spiritualità pseudo-solare, una fenomenologia della repressione e della censura protesa ad imbrigliare la donna – un tempo presumibilmente (anche) sacerdotessa e guerriera – nel limitante ed esclusivo clichè di moglie e madre.

La Caduta dall’Eden – parte 1

di Antonio D’Alonzo

Abbiamo visto come gli archetipi dei nomadi del deserto si fondano, essenzialmente, sulla visione di un dio unico, capo tribù e legislatore. Da questo solitario dio virile e padre-padrone si dipana un reticolo strutturale di nessi simbolici e sociologici tesi a relegare l’elemento femminile ai margini della spiritualità pseudo-solare, una fenomenologia della repressione e della censura protesa ad imbrigliare la donna – un tempo presumibilmente (anche) sacerdotessa e guerriera – nel limitante ed esclusivo clichè di moglie e madre.

Il mito di fondazione giudaico-cristiano della Caduta dall’Eden è esemplificativo di questa tecnica d’espulsione e rimozione del femminile dalla spiritualità: non a caso nel racconto è la donna ad accettare dal serpente il frutto dell’albero della Conoscenza del bene e del male. La responsabilità della Caduta ricade in primo luogo sulla donna; Adamo appare quasi come un povero sprovveduto che ha la sola colpa di non essere abbastanza forte da respingere le avances della sua compagna.

La donna, al pari del serpente (nell’immaginario mitico la donna è sovente associata al drago o al serpente, per esempio come nel caso di Medusa e della Melusina), è la grande tentatrice, le sue subdole proposte sviano dal retto cammino gli uomini probi e devono essere repentinamente respinte e punite: durante i “burning times” della caccia alle streghe centinaia d’innocenti erboriste e guaritrici trovarono la morte sui roghi di tutta Europa. Nell’immaginario cattolico, fino a qualche decennio fa, l’elemento femminile non aveva sfumature intermedie: madre o prostituta, santa o strega.

La strana misogina del racconto della Caduta – che come qualche volta accade nelle narrazioni mitiche, simboleggia, riassume e convalida un certo ordine sociale – è funzionale ad una fondazione sociologica: la conquista della terra di Canaan. I Cananei adoravano la Dea ed il Serpente (Cfr. J. Campbell, Il potere del mito, Guanda, Parma, 2004), una volta assoggettati agli Ebrei, dovettero piegarsi al loro dio maschile e patriarcale, rinnegando la spiritualità femminile ed il matriarcato. Non a caso, ritroviamo la Dea ed il Serpente nel mito biblico della Caduta, sotto le spoglie di Eva e del rettile tentatore dell’Albero. Il mito ha anche un ulteriore significato, sempre irrelato al primo.

L’Eden è lo spazio mitico dell’indistinto, dell’originaria fusione della dicotomia fenomenica nella pienezza dell’Identità, della coniunctio, dell’Androgino platonico ed alchemico. Mangiando il frutto dell’Albero della Conoscenza del bene e del male, Adamo ed Eva – adesso assurti a coppia – si determinano come dualità, obliterandosi nel principio d’individuazione. Ad un primo impatto quest’ultima proposizione può apparire bizzarra, poiché l’individualismo moderno è il tratto caratteristico della nostra civiltà e parlare di “oblio dell’individuazione” assume un vago sapore paradossale. Tuttavia, non si deve dimenticare che in pressoché tutte le tradizioni mistico-iniziatiche l’unitas spiritus è la realizzazione metapsichica (o metafisica) suprema; ciò che differisce, citando Coomaraswamy, è soltanto il sentiero che conduce alla vetta.

Il termine «Eden» sembra derivare dal sumero edinu, «pianura»; il termine «Paradiso» potrebbe derivare dal persiano antico paradeia, «parco reale», o dal greco paradeisos, utilizzato da Senofonte per indicare lo splendore dei giardini di Ciro. Nell’AT, infatti, l’Eden appare come un giardino lussureggiante attraversato da quattro corsi d’acqua: caratteristica che ha scatenato nei primi secoli dell’era cristiana una vera e propria competizione, da parte degli esegeti, per individuare l’area geografica corrispondente.

Il racconto biblico narra del Tigri e dell’Eufrate, ma anche di Ghion e Pison, fiumi leggendari, che secondo Giuseppe Flavio potevano corrispondere al Nilo. Alcuni Padri della Chiesa ricercarono l’Eden in Etiopia, in Mongolia ed in India. Altri ancora, in Turchia, dove il fiume Murat, affluente dell’Eufrate, poteva essere ricondotto ad uno dei due fiumi sconosciuti. In tempi più recenti, gli archeologi hanno localizzato l’Eden nell’area mesopotamica; negli anni Ottanta, Juris Zarins ipotizzò che l’Eden si fosse inabissato per l’innalzamento delle acque e che il Ghion potesse essere identificato con il fiume Karun che attraversa l’Iran ed il Golfo Persico (Cfr. L. Picknett, La storia segreta di Lucifero, Newton e Company Editori).

In ogni caso (il compito dello studioso dell’Immaginario è diverso da quello dell’archeologo), questi tentativi di attribuire una realtà geografica ad un mitologema non ci sembrano importanti. Se il contenuto essenziale del mito della Caduta è la perdita della condizione paradisiaca originaria, l’immersione nella dimensione temporale contrassegnata dalla vita e dalla morte, dalla sorte alterna e dal dolore, appare evidente che in illo tempore lo stato ontologico primordiale era la fusione estatica nell’Uno, nell’incontaminato regno dell’indistinto e della conoscenza non duale.

L’uomo e la donna, prima della Caduta, dovevano possedere una sorta di metafisica monistica (o, se si preferisce, non-dualistica, quale quella teorizzata dall’Advaita-Vedanta di Shankara). Con l’espulsione dell’uomo e della donna dall’Eden inizia l’oblio della conoscenza, la dispersione gnoseologica nel dualismo fenomenico del soggetto e dell’oggetto, del conoscente e del conosciuto, del maschile e del femminile, del bene e del male, del reale e dell’irreale, ecc.

Quest’ultima dicotomia ci permette d’introdurre una breve digressione. La contrapposizione tra il vero ed il falso è tipicamente occidentale. Nelle filosofie e religioni dell’India non si parla mai in questi termini. La realtà, Maya, è presentata come illusoria – che non vuol dire irreale – ma della stessa natura della produzione onirica, intermedia tra verità e finzione: fenomenica e transeunte. Come nel sogno di Chuang Tzu – narrato da Borges – in cui il protagonista sogna di essere una farfalla ed al risveglio si domanda se adesso non sia piuttosto una farfalla che sogna d’essere Chuang Tzu, non si tratta di arrivare alla conclusione che le produzioni oniriche sono reali, quanto al contrario di convenire con Calderon de la Barca, che è piuttosto la vita ad essere un sogno.

Campbell racconta un aneddoto su Heinrich Zimmer, eminente indologo del Novecento. Avvicinato da una studentessa che gli manifesta interesse per le filosofie indiane, ma che non riesce a capire il concetto di Maya, Zimmer risponde che all’età della ragazza non si poteva certamente inquadrare il problema. La ragazza avrebbe dovuto aspettare altri venti o trenta anni per vedere come il suo mondo attuale di giovane, piena di slanci, spensieratezza ed illusioni, fosse definitivamente svanito come un sogno al risveglio: come Maya, appunto.

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