Studio sul ruolo di leader

PsicologiaIl Gruppo come strumento di lavoro

Con questo articolo ci si propone di stimolare una riflessione sul concetto di gruppo, di coesione, e di gruppo di lavoro in particolare, sottolineando gli aspetti positivi e le dinamiche interpersonali che vi si manifestano. La collaborazione e il lavoro di gruppo sono un’esigenza prioritaria all’interno di moltissime organizzazioni. Lavorare in gruppo non è sempre una cosa facile, può essere inizialmente una difficoltà, ma paga perché porta al successo di tutti.

Studio sul ruolo di leader

Antologia di psicodinamiche curata da Athos A. Altomonte

Il Gruppo come strumento di lavoroSviluppare il senso di appartenenzaAccrescere dei buoni presuppostiIl gruppo come antidoto allo stressDinamiche di GruppoIl fenomeno del bystanderL’animatoreComprendere il conflitto nelle dinamiche di gruppoGestire il conflitto nelle dinamiche di gruppoCome fronteggiare i conflitti interpersonaliStrategie

Parlare senza pensare è come sparare senza mirare.

Anonimo

Il Gruppo come strumento di lavoro

Con questo articolo ci si propone di stimolare una riflessione sul concetto di gruppo, di coesione, e di gruppo di lavoro in particolare, sottolineando gli aspetti positivi e le dinamiche interpersonali che vi si manifestano. La collaborazione e il lavoro di gruppo sono un’esigenza prioritaria all’interno di moltissime organizzazioni. Lavorare in gruppo non è sempre una cosa facile, può essere inizialmente una difficoltà, ma paga perché porta al successo di tutti.

Sviluppare il senso di appartenenza

È innegabile che alcuni aspetti della struttura e del modo in cui le persone socializzano non sono particolarmente propizi ad uno stile collaborativo di interazione. Fin dalla formazione di base si è più abituati all’isolamento. La maggior parte delle persone è preparata infatti ad operare individualmente, a prescindere dalle mansioni che svolge. In realtà è stato provato da diverse ricerche, che promuovere il lavoro di gruppo agevolando la coesione, porta una serie di conseguenze positive sull’efficacia e sull’efficienza delle attività e anche a livello personale.

Naturalmente perché ci possa essere un buon gruppo è indispensabile un certo grado di coesione, che è uno degli aspetti più importanti, misurando quanto i soggetti desiderano stare insieme e lavorare insieme. La coesione di gruppo aumenta la performance del gruppo stesso, ma soprattutto accresce il morale delle persone e la soddisfazione che queste provano nelle attività che svolgono. Inoltre, fattore da non trascurare, facilita la comunicazione tra gli appartenenti al gruppo riducendo l’ostilità che spesso è causa di malumori e demotivazione. Sentire di lavorare con un buon gruppo, con persone con cui si condividono traguardi incrementa i sentimenti di sicurezza, di autostima e di fiducia nelle proprie capacità, e questo suscita un senso di appartenenza.

In questo clima positivo le persone sono stimolate a dare (e a dirsi) il meglio. Ad impegnarsi sapendo di poter contare sugli altri, e contemporaneamente di essere importanti per gli altri. Per di più vengono ad attenuarsi quelle dinamiche conflittuali e di competizione che spesso, invece di aumentare il successo delle persone, ne provocano un inutile dispendio di energie, che invece potrebbero essere utilizzate per essere “vincenti in gruppo” e non a scapito gli uni degli altri.

Accrescere dei buoni presupposti

Innanzitutto è importante la dimensione del gruppo, nel senso che la probabilità di trovare coesione di gruppo è maggiore nei gruppi piccoli che in quelli grandi, poiché nei piccoli gruppi le interazioni tra i membri sono frequenti e per lo più “faccia a faccia”. Inoltre, è importante che tra i membri del gruppo, ci sia una certa somiglianza degli atteggiamenti, valori e credenze. Quanto più questi sono somiglianti e condivisi, tanto più aumenta la coesione e l’identificazione con il gruppo. Atteggiamenti, valori e credenze costituiscono in buona parte la cultura di un gruppo sociale e più sono condivisi più aumenta la coesione, l’identificazione e il riconoscimento con il gruppo stesso.

Perché si mantenga una buona coesione è importante che ci sia un certo grado di successo nel raggiungimento degli obiettivi comuni. Il successo del gruppo, infatti, conferma ai propri membri l’efficacia del Gruppo stesso, accresce il valore dell’appartenenza ad esso, e quindi la coesione e la motivazione al lavoro. Questi processi però non sono così scontati né automatici, devono essere promossi, e magari agevolati attraverso processi di formazione specifici, che “educhino” le persone alla collaborazione e all’interazione.

Il gruppo come antidoto allo stress

Il tipo di rapporto che si ha tra membri dello stesso Gruppo ne influenza l’attività e può fomentare condizioni di stress. Se il rapporto con una o più persone è caratterizzato da una forte conflittualità, è probabile ch’essi giungano a sottoporsi a tensioni emotive. E spesso sono queste la causa di abbandono del Gruppo. D’altro canto però, se la relazione è caratterizzata positivamente può costituire un antidoto allo stress.

Una delle situazioni che più spesso è fonte di stress è l’interazione con persone difficili, che frequentemente assumono comportamenti scorretti, agendo in modo sleale o egoistico. Si tratta di coloro pronti a creare problemi apertamente o subdolamente. Portate all’estremo, le insoddisfazioni che seguono questi tipi di rapporti sfociano in ansia, rabbia, depressione. Indipendentemente da quanto fastidioso e negativo sia il comportamento di qualcuno, è possibile tenere sotto controllo il proprio turbamento. Lavorare all’interno di un buon gruppo, in cui alcune dinamiche possono essere affrontate palesemente e con assertività, permette di superare con serenità eventuali situazioni stressanti.

Dinamiche di Gruppo

Per considerare un insieme di persone come un gruppo, sono innanzitutto necessarie queste premesse di base:

  • interdipendenza tra gli individui;
  • perseguimento di uno stesso obiettivo;
  • bisogno di appartenenza.

Lewin [1951] analizzò il gruppo come entità super-individuale e dalla fisica prese a prestito il concetto di campo: come un campo magnetico esercita una certa forza su un ago, così l’individuo all’interno del gruppo è influenzato da forze psicologiche che lo trascendono.

Il gruppo per Lewin è quindi “una totalità dinamica”, cioè è diverso dalla somma dei singoli individui che ne fanno parte. Per Stone [1992] esistono tre tipi di fenomeni all’interno del gruppo: i fenomeni relativi al gruppo come totalità, le dinamiche interpersonali, i processi intrapsichici.

Che il gruppo sia diverso dalla somma dei singoli suoi membri non è necessariamente un fatto positivo. A riprova esiste in letteratura la tradizione del pensiero anticollettivo di Le Bon [1897] e Mc Dougall [1920]. Anche per quanto riguarda la performance Steiner [1971] ha scoperto che la produttività effettiva di un gruppo è uguale alla produttività potenziale, meno le perdite di processi imperfetti.

Uno di questi processi imperfetti è “l’effetto Ringelmann” [1913], dovuto ad un deficit di motivazione. Per Ingham [1974] e successivamente per Stroebe e Frey [1982] esistono due perdite di processo nel gruppo: le perdite dovute alla motivazione, le perdite dovute alla mancanza di coordinamento.

All’interno di un grupppo possono verificarsi casi di free-rider o di social loafing [Latane, 1979]. Nel primo caso un membro di un gruppo sceglie deliberatamente di disimpegnarsi, consapevole che difficilmente qualcuno se ne accorgerà. Nel secondo caso tutti i membri del gruppo vengono influenzati da una sorta di inerzia sociale non intenzionale: il fatto stesso di essere in gruppo quindi deteriora il loro livello di prestazione.

Un paradosso riscontrabile nell’analisi dei gruppi è che un insieme di persone normali può formare un gruppo patologico e violento, mentre un gruppo strutturato può svolgere funzione terapeutica nei confronti del singolo individuo con disturbi psichici (ne sono esempi lo psicodramma di Moreno, la terapia cognitivo-comportamentale di Ellis, i gruppi bioenergetici di Lowen, etc).

Il gruppo svolge funzioni psicologiche fondamentali per l’equilibrio dell’individuo come mantenimento dell’autostima, sostegno morale, comprensione dei problemi.

Durante il quarto congresso internazionale di psicoterapia di gruppo, svoltosi a Vienna nel 1968, il gruppo venne concepito come “difesa contro l’ansietà che ci viene dal pensiero dei miliardi di individui che vivono sul nostro pianeta”. Allo stesso tempo l’individuo per essere parte integrante di un gruppo deve ridefinire il concetto di se stesso [Kuhn e Mc Partland, 1954; Brown, 1978; Moreland e Levine, 1982]. È quindi pacifico ritenere che una persona emarginata dal gruppo sia fortemente demoralizzata, demotivata ed a lungo termine si senta sempre più indifesa. È invece argomento controverso, stabilire quali possano essere i fattori che possono essere causa dell’emarginazione di una persona. Il motivo più facilmente rintracciabile è la diversità dell’individuo emarginato dal resto della comunità.

Una rassegna di studi ha rilevato infatti la contiguità tra somiglianza, credenze simili ed amicizia [Byrne, 1971]. L’ambiente costituito da un piccolo gruppo, spesso crea una cricca, uno zoccolo duro, che tende ad escludere “i diversi”. La differenza che li contraddistingue (negativamente) dal resto del gruppo può essere volontaria o involontaria. Nel primo caso il soggetto emarginato è un deviante, che non si conforma alle regole adottate dal gruppo.

All’interno del gruppo si creano dei sottogruppi informali [Cooley,1902], che stabiliscono regole di comportamento e livelli di prestazione [Brown, 1961]. Il gruppo informale può fornire sostegno, solidarietà e rimozione dell’ansietà individuale ma, in determinate circostanze, può emarginare chi ha divergenze di vedute rispetto alla posizione prioritaria della maggioranza o atteggiamenti e comportamenti diversi, che la maggioranza disapprova. Inizialmente i membri del gruppo rivolgono maggiore attenzione al deviante per convincerlo a cambiare idea, ma se questi tentativi hanno esito negativo allora vengono evitati, non considerati ed ostracizzati [Festinger, 1950; Schachter, 1951].

Nel caso della diversità involontaria la persona appartiene ad una minoranza all’interno del gruppo. È nero in un gruppo di bianchi, gay in un gruppo di eterosessuali, moralista in un gruppo di libertini, di destra in un gruppo di sinistra o viceversa. In questa circostanza il fenomeno della categorizzazione sociale può accentuare le differenze esistenti.

La categorizzazione sociale è la tendenza a considerare gli elementi del mondo esterno come raggruppati in insiemi omogenei. Di conseguenza gli elementi classificati in una stessa categoria, vengono stimati come più simili tra loro di quanto in effetti siano, mentre vengono accentuate oltre misura le differenze tra le diverse categorie, enfatizzando i tratti che possono considerarsi distintivi.

Come dimostrò Tajfel [1957, 1959] il fenomeno di categorizzazione è presente anche nella percezione di oggetti e figure. Altri fenomeni e dinamiche di gruppo possono facilitare la violenza psicosociale, quali: la de-individuazione, la polarizzazione, la normalizzazione, l’obbedienza acritica all’autorità, una leadership autoritaria, la relazione tra frustrazione ed aggressività, il fenomeno del bystander, il disimpegno morale.

È altamente improbabile, ad esempio, che un razzista da solo se la prenda con una persona di colore, mentre ciò potrebbe accadere quando si trova in un gruppo di persone con gli stessi pregiudizi. Questa differenza di comportamento si può spiegare con il fenomeno intra-gruppo di de-individuazione [Zimbardo, 1969].

La de-individuazione è l’attenuazione della propria identità personale, caratterizzata da sensazione di anonimato, responsabilità diffusa, sottovalutazione e trasgressione delle norme istituzionali.

La polarizzazione è uno spostamento nella posizione verso cui la maggioranza del gruppo è orientata. Una rassegna di studi [Wallach, 1962; Moscovici e Zavolloni, 1969; Fraser, 1973; Stephenson et al.,1975; Laughin, 1980] ha documentato questo fenomeno del gruppo nell’ambito della presa di decisioni, del decision making, ma è plausibile che ciò avvenga anche nella valutazione delle persone.

Alcune ricerche hanno infatti dimostrato che la polarizzazione non è un effetto del gruppo presente solo nelle scelte di decisioni strategiche sulle cose, come nelle scelte rischiose nel gioco di azzardo, ma perfino sulle persone: ad esempio nei verdetti delle giurie.

Anche Myers e Bishop [1970] con le loro ricerche su un gruppo di studenti con pregiudizi razziali hanno confermato il movimento verso l’estremo di membri del gruppo con atteggiamenti simili.

Un altro processo che può rafforzare l’ostilità di un gruppo nei confronti di un individuo è la normalizzazione, ovvero, il fenomeno di convergenza spontaneo dei punti di vista.

Come ha scritto Allport [1954]: “c’è nell’uomo una tendenza fondamentale a moderare le proprie opinioni e la propria condotta in rapporto alle opinioni e alle condotte degli altri”.

Cedimento al giudizio errato.Fu Sherif [1935] il primo a dimostrarlo con il suo celebre esperimento sull’effetto auto-cinetico, ripetuto successivamente da altri studiosi con i medesimi risultati. Con questo esperimento Sherif dimostrò che gli individui quando si imbattono in uno stimolo ambiguo e di non chiara interpretazione si adeguano acriticamente alla posizione assunta dal gruppo, abbandonando la propria valutazione iniziale.

Asch [1952] sottopose degli studenti ad un esperimento sulla discriminazione visiva in gruppo. I soggetti avrebbero dovuto stabilire per ben diciotto volte quale tra tre linee di confronto era di lunghezza uguale ad una linea di riferimento (linea standard). Il compito era così facile che in un gruppo di controllo formato da 37 persone, che risposero da sole, 35 non fecero alcun errore.

Nella situazione sperimentale invece i soggetti, seduti a semicerchio, dovevano dare il loro parere ad alta voce, di fronte al gruppo composto da altre 6 persone. Gli altri componenti del gruppo erano complici dello sperimentatore e davano le risposte che questo aveva predeterminato. Nelle 12 prove critiche, in cui i complici volutamente sceglievano la linea sbagliata, la percentuale di errori fu del 37%.

Questi risultati testimoniano quindi l’effetto prorompente che la pressione di una maggioranza “sbagliata” ma unanime, può esercitare sui giudizi inizialmente corretti di un singolo individuo. Crutchfield [1955] escogitò una diversa tecnica di pressione di gruppo, adattata per ricerche su larga scala: esaminò infatti circa 600 persone. Crutchfield concluse che la pressione di gruppo provoca notevole quantità di cedimento, anche quando il giudizio è errato.

Dal punto di vista cognitivo una persona potrebbe perciò aderire al parere negativo che ha la maggioranza sul deviante o sul diverso.

Un altro processo sociale all’interno del gruppo che può condurre all’emarginazione di un soggetto è l’obbedienza cieca all’autorità.

A questo riguardo è celebre l’esperimento di Milgram [1969], in cui ogni soggetto esaminato doveva somministrare scariche elettriche ad un’altra persona, ogni qual volta questa rispondeva erroneamente a dei quesiti. L’intensità della scarica veniva aumentata al progredire degli errori. In realtà la vittima era un complice dello sperimentatore, che non riceveva nessuna scarica elettrica, ma fingeva di provare dolore, naturalmente all’insaputa del soggetto esaminato. I risultati furono sbalorditivi: il 62% dei soggetti, istigati dallo sperimentatore aumentava l’intensità della scarica, fino a quando lo sperimentatore non gli diceva di smettere. Poiché tutti i soggetti erano adulti e capaci di intendere e di volere, risultò stupefacente il fatto che obbedissero ciecamente all’autorità, pur essendo consapevoli che questo comportava dolore ad un altro essere umano.

Per quanto ci siano molte divergenze tra le varie teorie sulla leadership, gli autori concordano sul fatto che l’autoritarismo del leader in un gruppo può causare abbassamento di prestazione, come aveva già messo in luce il lavoro pioneristico di Lewin, Lippit, White [1939], ed un pessimo clima organizzativo. Inoltre Hogan, Curphy, [1994] hanno messo in rilievo la relazione tra leadership ed esiti negativi nel gruppo di lavoro.

Un altro fattore che potrebbe portare alla rappresaglia di un gruppo nei confronti di un individuo è l’ipotesi formulata da Dollard [1939] che la frustrazione dia luogo alla formazione di una certa energia psichica negli individui. Sempre secondo Dollard “la presenza del comportamento aggressivo presuppone sempre l’esistenza della frustrazione e, viceversa, l’esistenza della frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività”.

Se questa energia non può essere utilizzata immediatamente allora può essere canalizzata in due modi:

a) tramite catarsi: la persona sfoga la propria insoddisfazione canalizzando l’energia aggressiva verso attività fisiche o sportive.

b) tramite spostamento: accade spesso che non si possa riversare la propria rabbia nei confronti della persona che è fonte della nostra frustrazione. Sarebbe ad esempio controproducente se un membro di rango inferiore si arrabbiasse con il proprio superiore gerarchico, che non gli ha dato la promozione tanto desiderata. Ecco allora che sposta la sua aggressività scaturita da quell’evento sulla moglie o sui suoi sottoposti, su una persona con cui è più conveniente prendersela.

Il fenomeno del bystander

Secondo Latanè e Darley i fattori sociali che possono determinare il mancato intervento altruistico sono: l’ignoranza pluralistica, la diffusione di responsabilità, l’inibizione in pubblico.

L’ignoranza pluralistica è causata dal fatto che spesso l’evento può essere ambiguo ed il soggetto interpreta la situazione nello stesso modo in cui la interpreta la maggioranza. Quindi, se la maggioranza non interpreta il fumo come campanello di allarme di un incendio, ma come uno scherzo di alcuni colleghi bontemponi, anche il singolo individuo segue e si associa alla maggioranza. Piliavin e Piliavin’s [1972] hanno invece concluso che l’intervento o il mancato intervento siano dovuti ad un’analisi razionale costi/benefici.

La persona quindi valuterebbe i costi dell’intervento (eventuali danni personali, perdita di tempo, impegno, imbarazzo di fronte ad altri) ed allo stesso tempo i costi del mancato intervento (costo di empatia: sensazione spiacevole nel veder soffrire la vittima; costo personale: senso di colpa successivo all’evento e disapprovazione pubblica). Per Cialdini [1991] il comportamento pro-sociale non scaturisce dall’altruismo, piuttosto dall’evitare sensazioni psicologicamente spiacevoli che scaturiscono da un mancato intervento di aiuto.

Nell’ambito della psicologia sociale una spiegazione possibile del loro comportamento è il disimpegno morale, una auto-assoluzione collettiva: una scissione tra pensiero ed azione che permette al soggetto di compiere azioni eticamente riprovevoli senza avere rimorsi di coscienza né sensi di colpa [Bandura, 1999]. Secondo Caparra [2000] il disimpegno morale è determinato dai seguenti meccanismi psicologici: giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, spostamento e diffusione delle responsabilità, sottovalutazione e distorsione delle conseguenze, colpevolizzazione della vittima.

L’animatore

Il ruolo centrale, catalizzatore della ricerca di gruppo, è ricoperto dall’ animatore.

Il suo compito consiste nell’essere una figura di stimolo, di riferimento e guida; per questo motivo i suoi atteggiamenti, le sue caratteristiche di personalità e le sue capacità, dovrebbero essere sviluppate al fine di favorire l’instaurarsi di condizioni ambientali favorevoli alla creatività. Per esempio, un atteggiamento non giudicante si prospetterebbe come una risorsa adeguata per consentire alle idee dei partecipanti di emergere in tutta tranquillità anche nelle forme più spontanee e bizzarre; in altre parole, egli dovrebbe quindi essere “non direttivo sui risultati che emergeranno dal gruppo”. Al contrario dovrebbe comportarsi in modo direttivo sulle tecniche di creatività, infatti “per raggiungere obbiettivi concreti, le metodologie creative seguite dal gruppo devono essere applicate con estremo rigore, pena l’inefficacia del lavoro”.

L’animatore dovrebbe, quindi, addestrarsi e maturare l’esperienza che gli consenta di divenire un buon facilitatore delle dinamiche di gruppo, il cui clima non deve essere quello di “una competizione o di una gara, dove esistono i più bravi o i primi” ma al contrario deve permettere l’attuarsi del “principio della collaborazione reciproca”. L’animatore deve, quindi, coordinare il lavoro gestendo e sollecitando le dinamiche creative e relazionali del gruppo, “guidandolo secondo una sequenza logica, al fine di aumentare l’efficacia creativa.

Secondo Cavallin, l’animatore deve avere dei requisiti di base consistenti in: “buona conoscenza delle tecniche di creatività, […] sensibilità agli aspetti psicologici della dinamica dei gruppi, […] una cultura non troppo settoriale, e la capacità di occuparsi agevolmente, sia di argomenti scientifici, che umanistici”, ritiene inoltre utili: abilità tecniche rispetto ai problemi di metodo, organizzativi, nonché una buona capacità “comunicativa e di coinvolgimento, nell’informare anche su temi complessi”.

Il gruppo dovrebbe essere composto da un numero di individui che consenta di agevolarne il lavoro e le dinamiche interne; la loro quantità varia a seconda degli autori, per Cavallin, ad esempio, non devono essere meno di 5 e più di 10, numero oltre il quale consiglia di formare più gruppi.

In generale, comunque, questo numero non varia molto, esso arriva infatti ad un massimo di 15/16 componenti; fermo restando che la presenza nei gruppi è stabilita soprattutto in base al tipo di tecniche utilizzate e dalla presenza o meno di più animatori nelle sessioni di creatività.

L’ultimo elemento essenziale è il luogo nel quale si svolgono le attività del gruppo; in esso, le caratteristiche ambientali e gli accessori possono variare in modo considerevole, ma sempre in relazione al tipo di creatività impiegata.

Comprendere il conflitto nelle dinamiche di gruppo

Il conflitto all’interno di un gruppo di lavoro si manifesta quando persone, che dipendono l’uno dall’altro, hanno punti di vista diversi, interessi o obiettivi diversi o addirittura contrastanti. Un buon leader è consapevole del fatto che il conflitto è una componente naturale e potenzialmente produttiva, nell’ambito delle relazioni di gruppo e delle relazioni interpersonali. Infatti, il conflitto stimola il pensiero, fa si che varie prospettive riguardo ad una situazione siano considerate e stimola i componenti del gruppo a comprendere meglio i fattori chiave, in merito alla decisione da prendere. Tutto questo quando il conflitto è gestito bene in modo consapevole e costruttivo.

L’aspetto centrale non è quello di decidere se stimolare o evitare il conflitto, bensì come gestirlo al fine di renderlo efficacemente produttivo per il lavoro di gruppo. A seconda di come è gestito il conflitto all’interno del gruppo può divenire costruttivo o distruttivo. Una leadership efficace facilita dinamiche di comunicazione che stimolano costruttività. Approfondiamo queste due facce del conflitto all’interno di gruppi di lavoro.

Il conflitto distruttivo è presente quando interferisce con l’efficacia del lavoro svolto e con un clima di lavoro salutare. Tipicamente, questo tipo di conflitto si contraddistingue da un modo di comunicare competitivo, in cui ciascun membro del gruppo cerca di influenzare gli altri, semplicemente allo scopo di avere ragione riguardo alle proprie idee, le proprie soluzioni e punti di vista. Si crea dunque un tipo di rapporto “win-lose” (chi perde e chi vince). I singoli membri del gruppo ritengono che soltanto uno di loro (o una parte di loro) possono “vincere” e affermarsi sugli altri, portandoli ad accettare i loro punti di vista. Un risultato evidente di queste dinamiche è il rapido deteriorarsi del clima di gruppo e delle relazioni interpersonali.

Si viene a creare un contesto in cui la maggior parte dei membri del gruppo stanno sulla difensiva, limitando l’espressione delle loro idee per non rischiare che siano valutate aggressivamente (o giudicate con sarcasmo) dagli altri. All’interno di queste situazioni sono frequenti gli attacchi personali che vanno ben oltre il contenuto del tema in causa. Questo contesto emerge da un tipo di comunicazione che mette le persone sulla difensiva e le distrae dagli obiettivi comuni. È una comunicazione caratterizzata da: il valutare; il giudicare; la superiorità dell’uno nei confronti dell’altro; un modo di pensare e di vedere le cose solo da una prospettiva con un atteggiamento di certezza e rigidità. Così, come questo modo di comunicare mina alla base le relazioni interpersonali, interferisce anche nell’efficacia e nell’efficienza del gruppo.

Il conflitto costruttivo è presente quando i membri di un gruppo di lavoro sono consapevoli del fatto che il disaccordo è un aspetto naturale all’interno del gruppo, anzi può essere un fattore chiave al raggiungimento di obiettivi comuni.

Questo tipo di atteggiamento si riflette in un modo di comunicare caratterizzato dalla cooperazione: si ascoltano le idee e le opinioni degli altri con attenzione, interesse e positività. La comunicazione viene utilizzata per mettere in evidenza gli obiettivi comuni ai membri del gruppo ed i fattori che li accomunano. È un tipo di comunicazione che incoraggia un orientamento “win-win”, in cui tutti possono affermare di essere vincitori e questo porta le persone ad esprimere e motivare liberamente i propri punti di vista, concentrandosi sul contenuto dei temi piuttosto che su aspetti caratteriali o personali.

Allo scopo di incoraggiare il conflitto costruttivo, la comunicazione dovrebbe chiaramente mettere in evidenza l’interesse dei membri del gruppo nell’ascoltare le reciproche idee e punti di vista, la disponibilità a cambiare la propria prospettiva su un tema, ed il rispetto per l’integrità degli altri membri del gruppo e le opinioni che rappresentano. È in questo contesto che le persone si sentono a loro agio nell’esprimere il proprio pensiero e partecipano attivamente e costruttivamente alle attività di gruppo.

Per questi motivi il conflitto costruttivo è un fattore importante all’efficacia del lavoro di gruppo. Infatti, consente ai membri del gruppo di ampliare la loro comprensione dei temi in causa, mettendo il gruppo in condizione di sviluppare una gamma più ampia di idee e soluzioni. Raggiungere questo tipo di contesto non è sempre semplice perchè è innanzi tutto necessario vincere fonti di orgoglio ed egocentrismo individuale e cercare in modo attivo, di riconoscere l’importanza del contributo di ogni singola persona stimolandone l’attiva partecipazione.

Gestire il conflitto nelle dinamiche di gruppo

Un buon leader sa riconoscere i sintomi che contraddistinguono un conflitto costruttivo o distruttivo all’interno di un gruppo di lavoro. Di seguito, le caratteristiche che distinguono i due tipi di conflitto:

Il conflitto distruttivo. Può essere riconosciuto dalla presenza dei seguenti sintomi:

Competizione. Competizione fra i membri del gruppo.

Attenzione ai benefici del singolo.I membri del gruppo sono più interessati ai propri benefici che a quelli del gruppo.

Approccio “win-lose” (vicitore-perdente) le decisioni e le soluzioni formulate sono a beneficio solo di uno o pochi membri del gruppo.

Clima chiuso.Il gruppo non accetta commenti o spunti da persone che non fanno parte del gruppo stesso.

Comunicazione difensiva.Permalosità; resistenza al cambiamento (i membri del gruppo vedono ogni nuova idea o suggerimento come una minaccia al modo corrente di fare le cose).

Attacchi personali. I singoli sono resi ridicoli (o oggetto di sarcasmo) per esprimere le loro opinioni o suggerimenti.

Il conflitto costruttivo. Può essere riconosciuto dalla presenza dei seguenti sintomi:

Cooperazione.I membri del gruppo lavorano volentieri assieme; partecipano attivamente; è presente

Il conflitto costruttivo. Può essere riconosciuto dalla presenza dei seguenti sintomi:

Cooperazione. I membri del gruppo lavorano volentieri assieme; partecipano attivamente; è presente dialogo e rispetto reciproco; si respira un’aria di positività e costruttività.

Attenzione ai benefici del gruppo. I membri del gruppo concentrano la propria attenzione sugli obiettivi del gruppo e non semplicemente a quelli del singolo.

Approccio “win-win” (doppiamente vincente). Le decisioni prese e le soluzioni identificate sono a beneficio di tutti i membri del gruppo non solo del singolo o dei pochi.

Clima aperto. I membri del gruppo accolgono suggerimenti e spunti che provengono da persone esterne al gruppo stesso. Occorre un facilitatore della comunicazione, in grado di sviluppare in ciascuno la consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo all’interno del gruppo valorizzandone la creatività.

Come fronteggiare i conflitti interpersonali

Prima di tutto è utile distinguere cosa si intende per ‘‘contrasto’’ e cosa, invece, per ‘‘conflitto’’.

Contrasti: sono ‘‘difetti’’ di comunicazione riconducibili a divergenze di opinioni.

Conflitti: sono ‘‘difetti’’ di comunicazione relativi alle relazioni. Nel qual caso il contenuto della comunicazione diventa d’importanza secondaria, poiché l’attenzione si sposta sulla relazione, perciò sul “come” si sta comunicando, piuttosto che sul “cosa”.

Contrasto e conflitto, perciò, sono concetti diversi non tanto dal punto di vista quantitativo, bensì qualitativo. Un contrasto, forte o debole che sia, rimane comunque un contrasto, e non si trasforma in conflitto. E ciò vale anche per il conflitto.

Di fronte ad una situazione relazionale critica è dunque importante saper distinguere su quale piano contenuto o relazione, si sta sviluppando il problema. Ovvero, se si è di fronte ad un contrasto, oppure ad un conflitto. Questo consente di attuare le strategie più adeguate per cercare di ‘‘ristabilire’’ la situazione, riconducendola entro confini accettabili.

Una situazione conflittuale può essere generata da diverse cause, in particolare in presenza di:

  1. a) soggetti litigiosi: persone per indole predisposte al conflitto, ovvero che tendono a generare situazioni relazionali di tipo conflittuale, indipendentemente dal contenuto delle comunicazioni trasmesse;
  2. b) scarsità di risorse: situazioni di conflitto possono essere generate da una scarsità di risorse, ovvero da situazioni in cui una persona necessità di una qualsiasi tipo di risorsa, che però gli viene negata;
  3. c) lotta di potere: nella relazione tra due persone possono essere distinti due piani:

piano verticale, quando tra le due persone c’è un rapporto gerarchico;

piano orizzontale, quando le due persone sono legate da un rapporto paritario, non gerarchico.

La disparità di piano diventa potenzialmente conflittuale quando genera una lotta di potere in cui uno intende prevaricare l’altro;

  1. d) Invasione di campo: il conflitto può essere generato anche dall’invasione del proprio ambito spaziale e/o psicologico (detto uovo prossemico) di ruolo, o professione;
  2. e) disconferma: il conflitto interpersonale può essere generato anche da un atteggiamento di indifferenza dell’altro, che significa il mancato riconoscimento dell’esistenza dell’altro;
  3. f) differenza di bilancio: una situazione conflittuale può scaturire quando una persona presume di aver maturato un credito nei confronti dell’altro, che però non gli viene restituito (es. “dopo tutto quello che ho fatto per te…”). Questa situazione è particolarmente pericolosa perché le due persone maturano due percezioni diverse rispetto alla posizione reciproca.

Strategie

Date queste premesse, è importante sottolineare che il conflitto non può essere risolto, bensì gestito e trasformato in altro, andando ad incidere sulla relazione. A questo proposito si possono utilizzare alcune strategie:

La metacomunicazione: per riequilibrare i piani relazionali tra due soggetti, si può decidere di andare oltre il contenuto della comunicazione e spostare la conversazione sul problema di comunicazione insorto. Il che significa, travalicare la situazione per parlare della situazione in sé;

Disarmo unilaterale: di fronte ad una persona ‘‘armata’’ si può reagire tentando di fargli “posare le armi” gettandole per primo, oppure facendo leva su un atteggiamento assertivo;

Intervento di una terza persona: per essere gestite, situazioni di conflitto possono richiedere l’intervento di un soggetto terzo, che però per essere efficace deve possedere due caratteristiche: essere equidistante, ovvero mantenere una distanza orizzontale uguale tra le due persone in conflitto, ed essere “super partes”, ovvero mantenere un’uguale distanza verticale nei confronti delle due persone;

Ristrutturazione: di fronte ad un conflitto posso decidere di riprendere la relazione allo scopo di ristrutturarla su piani diversi e più positivi. Posizione che si può semplificare così: rivedo la mia opinione andando incontro a quella dell’altro; ristrutturo cambiando la mia posizione allo scopo di sedare l’aggressività: ‘‘Tu hai ragione, tuttavia…’’.

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Bibliografia

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http://it.geocities.com/evidda/Dinamichemobbing.html

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http://www.professionelavoro.net/newsletter/news_2004_04.html

http://www.giovanindustrialicomo.it/scuola.asp

D. Scaglione, P. Vergnani, Manuale di sopravvivenza al conflitto Amnesty International Bologna 2000

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