Le civiltà cosiddette “primitive”

Miti e SimboliRiteniamo utile, prima di continuare nella nostra disamina, introdurre alcune considerazioni di tipo generale sulle civiltà c.d. “primitive”.
Anzitutto si deve considerare come non sia corretto giudicare con categorie di pensiero della mentalità occidentale, usi e costumi di civiltà culturalmente distanti dalla nostra.

Le civiltà cosiddette “primitive”

di Antonio D’Alonzo

Riteniamo utile, prima di continuare nella nostra disamina, introdurre alcune considerazioni di tipo generale sulle civiltà c.d. “primitive”. Anzitutto si deve considerare come non sia corretto giudicare con categorie di pensiero della mentalità occidentale, usi e costumi di civiltà culturalmente distanti dalla nostra.

Anche se determinate pratiche possono sembrarci aberranti, esse devono essere com-prese all’interno di un diverso paradigma culturale: non esistono cioè civiltà superiori o inferiori, perché non esiste una scala di valori universali con la quale poter giudicare ciò che si presenta come radicalmente eterogeneo.

Generalmente l’occidente ha sempre giudicato le altre culture sulla base del solo parametro del progresso tecnologico, ma una civiltà può benissimo essere inferiore sotto quest’aspetto ed essere superiore, per esempio, dal punto di vista etico o spirituale. Ad esempio i Bambara del Mali hanno sviluppato una moralità superiore a quella occidentale, circoscritta ad altri valori come la sacralità dell’amicizia e la lealtà dei rapporti interpersonali. Eppure i Bambara praticano riti di passaggio della pubertà particolarmente cruenti, dove gruppi di adolescenti vengono segregati per un lasso di tempo, per essere definitivamente accettati dal mondo degli adulti: tuttavia, gli occidentali non hanno il diritto di interferire con le altre culture, radicalmente diverse dalla loro.

Possiamo trovare aberranti certe pratiche rituali, ma non riusciremo mai a com-prendere se rimaniamo abbarbicati alla mentalità etnocentrica, per cui la sola civiltà degna d’essere imposta (magari con genocidi pianificati come quello degli Indiani d’America, o quello dei Maya e gli Atzechi) è quella occidentale.

Nelle culture “primitive” ogni cambiamento di condizione è regolato da “riti di passaggio”. Ne esistono per ogni momento topico dell’esistenza: per la nascita, per l’adolescenza, per il matrimonio, per la morte. Se l’individuo non passa il rito, non viene considerato come appartenente allo status successivo: ad esempio, se il neonato non subisce il rito di passaggio della nascita non viene considerato come nato, se il morto non subisce il corrispettivo rito non è ancora morto…

Per comprendere come le civiltà “primitive” siano estranee a categorie del pensiero occidentale come il “maschilismo” o la “misoginia”, ci si può documentare sui riti d’iniziazione maschili. Particolarmente duri sono ad esempio quelli dei Venda, comunità “primitiva” africana. L’adolescente, maschio o femmina, che non passa il rito di pubertà, non è considerato come adulto, ma ancora come infante: in nessun caso si tratta di una derisione ad personam che colpisce la sessualità, ma solo di una forma d’incoraggiamento per l’iniziando.

Le civiltà c.d. “primitive” hanno bisogno di un rito, per accettare ciò che a noi occidentali appare come un’inevitabile fase naturale. Oggi l’evoluzionismo storico-religioso applicato all’etnologia è definitivamente tramontato. Non vi sono culture “superiori” o “inferiori”, ma solo “differenti”, perché formate da processi storici diversi da quelli che hanno portato alla nostra civiltà. Noi occidentali non abbiamo il diritto di giudicare, ma solo di cercare di comprendere.

Questo vale per tutte le civiltà c.d. “primitive”, a prescindere dai loro millenari costumi: siano esse cacciatrici di teste come i Mundurucù dell’Amazzonia centrale o gli Ao-Naga dell’India, o antropofaghe. Non può sempre arrivare l’“uomo bianco” a portare le malattie e l’alcool: impariamo a rispettare l’alterità, invece di depredare e sterminare ciò che ci sembra “barbarico”.

Queste pratiche che agli occidentali paiono crudeli, fanno parte della cultura “primitiva”, del loro modo di radicarsi nel territorio e nella Natura. Se si leggono i libri dei primi missionari gesuiti dell’America centrale e meridionale, per esempio i testi di Acosta, ci si trova di fronte a posizioni che vedono nell’idolatria indigena, un risultato dell’azione di Satana, sconfitto in Europa e ritiratosi in queste terre. Gli indios sarebbero allora degli indemoniati, secondo Acosta: un “progresso” rispetto ai primi contatti in cui non venivano considerati nemmeno come esseri umani, ma come animali.

L’Occidente ha preteso di portare la civilizzazione nelle altre culture, perché è caduto storicamente vittima di una serie di errori:

  • a. La pretesa che esistesse una scala di valori unica, con cui poter giudicare e raffrontare;
  • b. il pregiudizio evoluzionistico con cui si credeva che il cammino storico della civiltà umana fosse unico e che le diverse civiltà corrispondessero alle diverse stazioni, raggiunte da un medesimo binario storico.

Con la definitiva confutazione dell’evoluzionismo storico-religioso, si è giunti quindi a capire che:

  • a. Non esistono civiltà superiori o inferiori, ma semplicemente diverse, perché nate da sviluppi storici differenti da quelli che hanno portato alla formazione della nostra;
  • b. Non esiste un paradigma culturale per giudicare il grado di evoluzione delle altre civiltà.
    A questo proposito, il presupposto di un progresso infinito è un evidente assioma scientista e positivista, perché una civiltà come quella occidentale può essere superiore a quella, ad esempio, dei Wintu californiani dal punto di vista del progresso tecnologico, ma non dal punto di vista morale.
  • c. È errato considerare queste civiltà come “primitive”, ossia fuori dalla storia, perché esse hanno una loro storia e si diversificano tra di loro. Ecco perché noi scriviamo di c.d. civiltà “primitive”: perché di fatto non possiamo considerarle inferiori a quella occidentale, ma solo differenti.

In queste civiltà, noi vediamo q.c. di “Inferiore”, perché siamo ignoranti dal punto di vista etnologico. La filosofia, come razionalità dialettica e analitica, esiste solo in Occidente ed è un tipico prodotto della civiltà greca. Si cade nel logocentrismo e nell’etnocentrismo se si pretende di spiegare a queste comunità che certi riti sono dannosi, prendendo come base, ad esempio, lo “schiacciate l’infame” di Voltaire o l’oppio dei popoli marxiano.

Prendiamo il caso degli Andamenesi, abitanti delle isole Andaman che si trovano nel Golfo del Bengala e si estendono dalla Birmania fino a Sumatra, studiati con precisione da A. Radcliffe Brown. Se prescindiamo dal carattere ineluttabile dei loro riti di passaggio – che possono sembrare coercitivi e “inumani” agli occhi di un occidentale – gli Andamenesi godono, al contrario, di una libertà invidiabile rispetto al tenore di vita medio di un abitante di una qualsiasi metropoli moderna.

I riti di iniziazione sono fondamentali per la maturazione della psiche, per dare dei segnali al proprio inconscio che è stato fatto un passaggio e per farlo il coinvolgimento emotivo «eventualmente anche per mezzo del dolore» deve essere grande.

La nostra libertà di occidentali è di svicolare al dolore delle iniziazioni, ed il risultato è che rimaniamo bambini fino alla morte, correndo dietro ai feticci che luccicano e pensando di essere più furbi degli altri.

Inoltre, si dovrebbe dare una definizione precisa del termine “umanità”, prima di determinarne il contrario, parlando d’“inumanità”. Se ci affidiamo alla tradizione illuministica e razionalistica, il carattere umano dell’homo sapiens è dato dall’uso della Ragione in rapporto agli altri animali. Purtroppo la storia insegna che di questa facoltà è stato fatto un cattivo uso.

La Ragione utilizzata per dominare la Natura ed asservirla all’uomo, ha finito paradossalmente per desacralizzare la stessa e per instaurare il domino dell’uomo sull’uomo. Nella Dialettica dell’Illuminismo, Adorno ed Horkheimer, mostrano il filo rosso che unisce il progetto prometeico di padroneggiamento della Natura ai campi di sterminio. Auschwitz, sarebbe il risultato di un percorso esplorativo della Ragione Strumentale che calcola come massimizzare gli effetti delle cause ricercate.

Una volta piegata la Natura, la gelida Ragione Strumentale, ormai volta all’industria e al profitto, non riconosce più alcun principio trascendente al di sopra di sé stessa. Sbarazzatasi di ogni residuo morale, la Ragione Strumentale decide che l’unica verità, a lei concessa, è la connessione causa/effetto. Se per raggiungere un determinato obiettivo, da essa fissato, è necessario sterminare altri esseri umani, nessun veto è posto da una morale naturale: l’unico problema risiede nell’ottenere il massimo utile con il minimo sforzo. Secondo questa linea di pensiero, il guardiano di Auschwitz diventa allora il campione della Ragione: nessuno come lui è volto alla “ottimizzazione” contabile dei prigionieri gasati. Ci sono delle testimonianze precise, dichiarazioni rilasciate a Norimberga, ad esempio, di come i nazisti non si sentissero altro che dei semplici “contabili” che cercavano di “lavorare” nel miglior modo possibile.

Le comunità Andamenesi, al contrario, non hanno capi, perché è vigente il parere degli anziani; non vi sono leggi, né sanzioni, perché basta la paura del disprezzo comunitario a scoraggiare la trasgressione individuale.

Nelle moderne civiltà occidentali, gli anziani sono dimenticati, se non beffeggiati, perché considerati inutili ai fini dei processi produttivi. Esistono leggi e sanzioni, che non solo non scoraggiano, ma sobillano inconsciamente la trasgressione: gli Stati Uniti, paese in cui esiste la pena capitale, hanno il più grande numero di serial killers. Nelle comunità Andamenesi nessuno si sognerebbe mai di violentare una donna o un bambino, perché la parola “onore” ha ancora un significato.

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