La caratteristica principale delle opere di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann è lo scheggiamento, il frazionamento dell’io. Vi sono narrazioni nelle quali l’io non solo è duplice, ma è multiplo, come per il fantasma del doppio dell’io di Medardo, già sosia di Vittorino negli Elisir del diavolo, fino alla esasperazione del tema nella Principessa Brambilla.
La caratteristica principale delle opere di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (24 gennaio 1776/25 giugno 1822) è lo scheggiamento, il frazionamento dell’io. Vi sono narrazioni nelle quali l’io non solo è duplice, ma è multiplo, come per il fantasma del doppio dell’io di Medardo, già sosia di Vittorino negli Elisir del diavolo (1815-1816), fino alla esasperazione del tema nella Principessa Brambilla (1820-1821), dove ho potuto contare ben sette diverse identità, abilmente camuffate per la protagonista [1]. È possibile affermare che questa costante nell’opera di Hoffmann sia dovuta all’ingente uso di alcool e a quello abituale di laudano, dunque ad esperienze di sdoppiamento, di alterazione della coscienza e di fuoriuscita dal corpo, vissute personalmente, e che divengono fonte di ispirazione. Il direttore d’orchestra Giovanni Kreisler può allora per traslato venir definito uno degli io di Hoffmann, l’io musicale dell’autore. Il personaggio di Giovanni Kreisler compare nel romanzo Punti di vista e considerazioni del gatto Murr sulla vita nei suoi vari aspetti e biografia frammentaria del maestro di cappella Johannes Kreisler su fogli di minuta casualmente inseriti (1820-1822). Questo romanzo, rimasto incompiuto per la morte dell’autore, avrebbe dovuto comporsi di tre libri. Ne abbiamo solo due. La costruzione è geniale e insuperata a tutt’oggi. Si tratta di due autobiografie, quella del direttore d’orchestra Johann Kreisler e quella del suo gatto di nome Murr. Per un gioco del destino le pagine dell’una finiscono disordinatamene in mezzo a quelle dell’altra e giungono così all’editore, il quale le stampa senza leggerle. Allora accade che la vita dell’uno venga narrata per alcune pagine e proprio sul più bello s’interrompa per riprendere la vita dell’altro. Il trucco perverso però consiste nel fatto che i racconti non riprendono quasi mai nel punto in cui sono stati interrotti e che, dunque, una parte della narrazione vada comunque perduta. Così anche il tentativo di leggere prima tutti i brani dell’una e poi quelli dell’altra biografia, risultano infruttuosi sotto il profilo di una coerente appercezione della ingarbugliatissima trama, che comunque soffre di sovrapposizioni. I Kreisleriana [2] dei quali ci occupiamo oggi qui sono una serie di brevi racconti pubblicati da Hoffmann dapprima in diverse riviste e successivamente inseriti nei Fantasiestücke in Callot’s Manier. Blätter aus dem Tagebuche eines reisenden Enthusiasten. I racconti fantastici alla maniera di Callot, usciti a Bamberg nel 1814-15. I Kreisleriana, sei racconti nella prima serie e sette nella seconda, per il numero totale e certamente non casuale di tredici, cui vanno aggiunte due introduzioni raggiungendo così le quindici unità, presentano alcune tematiche che cercheremo di lumeggiare. Ma prima di tutto ci curiamo del significato del sottotitolo, che poi è anche il titolo del primo racconto. Johannes Kreisler, des Kapellmeisters Musikalische Leiden. I dolori musicali del direttore d’orchestra Giovanni Kreisler sono molteplici, ma hanno tutti la stessa origine e natura. Essi provengono in massima parte dalla estrema sensibilità dell’orecchio del direttore e di conseguenza dalle quotidiane ingiurie che questo senso così raffinato patisce da parte di tutti i musicanti, gli strimpellatori, i dilettanti dell’ugola, tramite continue stonature, stecche e cattive esecuzioni, ferite per le quali è difficile reperire balsami. Chissà, forse per questa ragione, la serie dei primi sei racconti si apre con la sparizione del direttore stesso. Egli sarebbe stato visto l’ultima volta uscire saltellando dalle porte della città con due cappelli in testa e con due rastri, aggeggi che servono per rigare la carta da musica, infilati come pugnali nella cintura. Poi più nulla. Immaginandolo fuggito dalle torture descritte, apprestiamoci a gustare quanto nelle sue dichiarazioni può apparire di eccentrico ai nostri occhi attuali. Intanto nemmeno i Kreisleriana sono immuni dal doppio. Nella seconda serie a Kreisler pare di essere il Barone Wallborn [3], che a sua volta presta le sembianze al dottor Schulz [4], e il passaggio dall’uno all’altro è dato dalla trasformazione delle terze in settime! La preparazione musicale di Hoffmann è tale che quest’ultima osservazione ed altre analoghe in altre opere mi spingono ad ipotizzare che egli costruisse alcuni racconti con le regole della scienza della armonia [5]. Kreisler o chi per lui, si lamenta che si sia sparsa la voce che molta “dell’ispirazione degli artisti [venga] conseguita in grazia all’uso di forti bevande” [6], ma il direttore non può non ammettere che “a bevanda alcolica agevola il repentino e più attivo cambiamento delle idee…” [7] e a questo punto Hoffmann descrive una istituzione tedesca, che raccomando a tutti coloro che ancora non la conoscessero. Il giorno dopo però il mal di testa è assicurato. Si tratta della Feuerzangenbowle. Si accende una forma di zucchero solido, impregnata di cognac o di rum, adagiata su una rete al di sopra di un recipiente nel quale è stato versato del vino. Lo zucchero fonde e gocciola nel recipiente. Hoffmann giunge addirittura a suggerire di cambiare vino a seconda della musica da comporre; per musica chiesastica si potrebbe prendere vino francese o del Reno, per l’opera seria del Borgogna, per l’opera buffa dello champagne. E allora dice Hoffmann: “Mentre l’azzurra fiamma sale, io vedo l’ardente e sfavillante salamandra sguizzar fuori e combattere cogli spiriti della terra che abitano nello zucchero” [8]. Non è la prima presenza delle salamandre, quella appena citata. Alcune pagine prima Hoffmann aveva scritto: “Tutte le musiche che nel mio petto ferito il dolore ha irrigidito nel sangue, rivivono e si muovono e si eccitano e rigurgitano lampeggiando come scintillanti salamandre, ed io le afferro, le avvinghio, ne formo un manipolo di fuoco, che diviene poi un’immagine fiammeggiante, la quale illumina e mirifica te e il tuo canto.” [9] Penso che ci si possa chiedere chi o che cosa siano le salamandre. Hoffmann conduceva studi di teosofia e di alchimia. Un autore a lui ben noto era Paracelso, del quale conosceva un libricino che per altro era letto da tutti gli scrittori romantici. Si tratta di Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus (postumo 1566), ossia del Libro delle ninfe, silfidi, pigmei, salamandre e altri spiriti. C’è inoltre un altro testo che andava allora per la maggiore. È dell’abate di Montfaucon Le comte de Gabalis ou entretiens sur les sciences secretes [10], Il conte di Gabalis o dialoghi sulle scienze segrete, pubblicato a Parigi nel 1670, del quale circolava una traduzione in tedesco del 1782 [11]. Ne è stata pubblicata una traduzione in italiano nel 1986 [12]. Vi sono molti altri testi che trattano degli spiriti elementari, ma i riferimenti per Hoffmann più probabili sono i due testi or ora citati. Un’idea visiva la otteniamo dalla figura che segue; è contenuta nella Atalanta Fugiens di Michael Maier, un’opera del 1618 [13]:
Secondo la teosofia i livelli dell’essere sarebbero sette. Quattro di essi, inferiori, corrispondenti ai quattro elementi terra, aria, acqua, fuoco, e tre superiori, di energie fondanti l’universo. Tutti questi livelli dell’essere sarebbero animati ossia darebbero ricetto a entità spirituali, invisibili agli occhi umani. Entrare in contatto con loro sarebbe appannaggio di pochi iniziati, provvisti delle qualità necessarie a sopportare un simile dono. Alla terra corrispondono gli spiriti elementari detti gnomi, all’aria corrispondono gli elfi, le fate, le silfidi, all’acqua le ondine, le Melusine, e al fuoco le salamandre. Non vi è opera di Hoffmann nella quale gli spiriti elementari della natura non facciano la loro, seppur breve, comparsa. Non potevano dunque mancare nemmeno in racconti dedicati esclusivamente alla musica e nei quali, è interessante notare, compaiono solo gli spiriti elementari del fuoco, a significare la valenza ignea, volatile, incandescente, propellente e innalzante della materia sottile che la musica incarna, rappresenta, espande. Nel racconto Ombra adorata Hoffmann scrive quanto segue, e chiederei di ascoltare il testo tenendo già presente queste informazioni.
Ci sono proprio tutti gli elementi della teoria teosofica intorno agli spiriti che albergano nella natura. Il mistero che solleva l’essere umano dalla sofferenza del quotidiano, il dono di conoscere la lingua ignota del libro degli incantesimi, le apparizioni meravigliose, e la non diffusa capacità di percepirle. Qui Hoffmann si riferisce all’intero mondo degli spiriti, che attraversano la vita irraggiando luce e danzando melodie. Tanto più esclusive e ardenti saranno le schiere composte solo di spiriti del fuoco, di salamandre che lampeggiano, scintillano, fiammeggiano. Per Hoffmann tre sono i compositori che portano la musica strumentale alla gloria piena: Hayden, Mozart e Beethoven. Con Beethoven “[…] in mezzo a questo dischiuso regno degli spiriti l’anima beata ascolta la lingua sconosciuta e intende le parole più segrete che la incatenano” [15]. Per Mozart, Hoffmann si esprime come segue:
Abbiamo nuovamente il mondo degli spiriti, le loro schiere e figure. Ciò che ora maggiormente ci colpisce è l’eterna danza delle sfere. Ci troviamo di fronte ad un altro concetto teosofico. Se animati sono i quattro elementi inferiori di terra, aria, acqua e fuoco, animate sono anche le sfere celesti. I pianeti, i satelliti, le stelle e ogni altro elemento siderale è considerato dalla teosofia una intelligenza divina. Ogni elemento celeste sarebbe il corpo fisico di una entità spirituale. Questa visione del mondo è la stessa che fa dire a Goethe nel Prologo in cielo nella prima parte del Faust (v. 243) che Die Sonne tönt nach alter Weise, Il sole risuona secondo l’antica melodia. Sotteso a queste espressioni è il concetto pitagorico-armonicale, secondo il quale le distanze fra i pianeti rappresentano valori numerici, e comunque tutto ciò che si muove nell’universo percorre orbite fra di loro commensurate e corrispondenti a rapporti matematici, i quali, se espressi in note, danno luogo a melodie. In sostanza il cosmo muovendosi non solo danza, ossia si muove con un ritmo, ma questo ritmo sottolinea una serie di suoni che producono sequenze melodiose. Questa realtà iniziatica è nota ai più grandi autori delle letterature mondiali. Non solo Goethe la conosce. Ne discorre Dante. Shakespeare la cita [17]. I nostri orecchi assordati rammentano il sintagma Armonia delle sfere, ma incespicano se chiediamo loro il suo significato. C’è un altro autore della letteratura tedesca, cui le realtà che abbiamo percorse sono ben note, e Hoffmann lo sente così vicino, da citarlo per ben tre volte in questo suo commento alla essenza della musica. Si tratta di Novalis. Nel terzo racconto Pensieri sull’alto valore della musica Hoffmann scrive che [gli entusiasti] […] ritengono […] che l’arte dia all’uomo il presentimento del suo alto principio, e dal volgare affannarsi e agitarsi della vita quotidiana lo conduca al tempio di Iside dove la natura gli parlerà con suoni sacri e mai uditi, ma pur intelligibili [18]. Nel quinto racconto della seconda serie al sedicente nemico della musica che lamenta la propria inesperienza musicale Giovanni Kreisler dice egli potrebbe […] essere paragonato a quel discepolo del tempio di Sais che pur apparendo maldestro in paragone degli altri, sa però trovare la miracolosa pietra che gli altri hanno inutilmente cercato con tanto ardore [19]. Il cosiddetto nemico della musica però non conosceva gli scritti di Novalis. Manda allora qualcuno a prenderli alla biblioteca circolante (pur disperando di poterne venire in possesso, perché presume che tutti li leggano e che non ve ne siano dunque copie disponibili) e scopre invece che i libri di quell’autore non li legge nessuno. Hoffmann si riferisce ad una operina, della quale si sostiene che sia rimasta incompiuta, ma che ha invece una sua completa dignità e conclusione. Si tratta de Die Lehrlinge zu Sais, I discepoli i Sais di Novalis. Un gruppo di giovani adepti, iniziandi ai misteri di Iside, soggiorna al limitare del tempio della dea e quotidianamente assiste alle lezioni di un maestro. Ma sono lezioni molto particolari, perché il maestro non insegna, ma sprona i discenti a indagare in autonomia. Li manda quotidianamente fuori del recinto templare col compito di osservare attentamente i segreti della natura e di cercare ciascuno una pietra. Tutte le pietre insieme formeranno un mosaico e solo quando sarà stato trovato l’ultimo tassello sarà possibile l’accesso iniziatico, ossia la conoscenza. Se ne deduce che i misteriosi segni, che la natura ha inciso su tutto con geroglifici semplici ma inaccessibili, si conquistano con l’armonia e la giustezza dei rapporti. Sarà proprio il discepolo apparentemente meno dotato a trovare la piccola pietra in questione. Al centro di questa operina si trova poi un racconto, che è la quintessenza del romanticismo tedesco. Giacinto è un ragazzo taciturno. Ama un fanciulla bellissima di nome Fiordirosa. Un giorno arriva al villaggio un vecchio dalla lunga barba bianca, che racconta storie meravigliose e, prima di andarsene, lascia a Giacinto un libricino che nessuno è in grado di leggere. Per fortuna una vecchia incontrata nel bosco brucia il libro e incoraggia Giacinto a partire alla ricerca della sacra dea. Il viaggio è lungo, faticoso, incerto e la meta ignota a tutti coloro cui egli ne chiede notizia. Infine egli giunge nella terra delle stagioni eterne. Tra profumi celestiali s’addormenta, perché solo il sogno può condurlo all’interno del tempio di Iside, accompagnandolo con magnifici suoni e mutevoli accordi. Il romantico finale prevede che Giacinto tolga il velo che ricopre l’immagine della dea e anziché Iside sia Fiordirosa a cadergli tra le braccia. La terza citazione del tempio di Iside come metafora della musica, Hoffmann la pone nell’ultimo racconto per definire l’arte del comporre, come la capacità di mantenere in proprio potere, per mezzo di una particolare energia spirituale, le ispirazioni provenienti dalla natura, e di riversarle nella scrittura delle note. Procedimento di difficile attuazione, tanto che, quello che il compositore può fermare sulla carta non è che una piccolissima parte di ciò che ha intuito, di ciò che ha potuto rapire al mistero e dunque alla dea [20]. Gareggiare con Novalis nello scrivere una fiaba non è raccomandabile, ma Hoffmann lo fa ugualmente e nella lettera di Giovanni Kreisler a Giovanni Kreisler, ossia a se stesso, è inserita la narrazione che ora leggeremo. La fiaba di Novalis era alchemico-iniziatica. Gli adepti cercavano una pietra, che poi era la pietra. Hoffmann lo sa bene e allora invita a interpretare la propria fiaba non solo come un’allegoria della morte terrena per mano di una forza nemica e del demonico cattivo uso della musica, ma anche a vederla come elevazione verso mondi superiori, una liberazione per mezzo dei suoni e del canto [21]. Accettiamo dunque questo secondo invito e teniamo presenti alcuni particolari indispensabili. Nella fiaba compaiono un giardino, una foresta, un vecchio albero, una pietra, un castello, il sangue, uno sconosciuto, il signore del castello, la fanciulla, un usignolo, nonché la musica e la morte. Vediamo preliminarmente il loro significato più noto e poi quello che conferisce loro il cosiddetto linguaggio diplomatico, ossia il linguaggio simbolico dell’alchimia. Il giardino è sinonimo di paradiso, cosmo, oasi, rifugio, vita, ricchezza; in alchimia è il vaso che contiene la materia della Grande Opera. La foresta è un santuario naturale, ma in alchimia è la materia terrestre o superflua nella quale è frammista la materia utile all’opera, che dalla foresta stessa deve venir prelevata, estratta, tolta, come dal caos. L’albero ha valenze molteplici; è vita in evoluzione, asse del mondo, via di comunicazione fra gli inferi e i cieli, fecondità, universalità del sapere; in alchimia l’albero è il nome dato alla materia utile della pietra filosofale, perché essa è vegetativa. La pietra è l’elemento della costruzione, può essere grezza, oppure cubica, ben scalpellata dall’uomo o ben levigata dalla natura. In alchimia la pietra è per antonomasia filosofale, medicina per ogni male, oro potabile, elisir perfetto, quintessenza di tutti i regni di natura. Il castello è segnale di inaccessibilità, sicurezza, mistero, desiderio, protezione, trascendenza. In alchimia il castello è una delle figurazioni dell’athanor, del fornello nel quale viene posto il vaso che contiene la materia da trasformare. Il sangue è fuoco, calore, vita e passione. Il suo rosso naturale è nero in alchimia. La morte, sappiamo tutti che cosa sia nel quotidiano; in alchimia è la putrefazione della materia, stadio indispensabile che prelude alla rigenerazione. La musica nel linguaggio diplomatico è l’arte segreta, la lingua sconosciuta e poco accessibile, mezzo per il coronamento dell’opera alchemica. Restano lo sconosciuto, il signore del castello e la fanciulla che non hanno utilizzazione alchemica, se non in funzione delle nozze chimiche che qui però non hanno luogo, e l’usignolo. Leggiamo allora la fiaba tenendo presente le valenze simboliche elencate. Il giardino di mio padre confinava con una foresta tutta melodie e canti. Da un anno all’altro un usignolo faceva il suo nido su un vecchio e magnifico albero, ai cui piedi c’era una pietra con delle rosse vene e dove crescevano tutte le sorte di muschi. Quel che mio padre narrava di questa pietra pareva davvero una fiaba. Molti, molti anni fa era venuto al castello feudatario uno sconosciuto di bell’aspetto ma di strani modi e singolarmente vestito. Tutti trovavano il forestiero molto bizzarro, non era possibile guardarlo a lungo senza un intimo brivido e nello stesso tempo non si poteva allontanare da lui lo sguardo ammaliato. Il nobile del castello lo prese ben presto a benvolere sebbene spesso confessasse che in sua presenza provava strane sensazioni e un brivido freddo gli correva le membra, mentre lo straniero col bicchiere ricolmo narrava di lontani paesi sconosciuti e di strani uomini e bestie, che aveva veduto nelle sue lontane peregrinazioni e la sua lingua moriva poi in risonanze strane in cui egli esprimeva senza parole e pur in modo comprensibile ignote cose piene di mistero. Nessuno sapeva staccarsi da lui e mai si saziava di ascoltare le sue narrazioni, che in modo inspiegabile sapevano portare dinanzi l’occhio dello spirito, in forma chiara e intelligibile, oscuri e informi presentimenti. Se poi lo straniero cantava sul suo liuto in una lingua sconosciuta i più svariati canti mirabilmente armoniosi, tutti quelli che stavano ad ascoltarlo si sentivano afferrati come da una forza sopraterrena e dicevano che non poteva essere un uomo ma un angelo, che aveva portato in terra le armonie del concerto dei cherubini e dei serafini. La bella e giovane signorina del castello fu avvinta allo straniero da misteriosi e indissolubili lacci. Siccome lui le dava lezioni di canto e di liuto, furono in breve tempo intimi e spesso verso la mezzanotte lo straniero si appressava in silenzio all’albero ove ella lo attendeva. Allora lontano lontano si udiva il canto di lei e i suoni morenti del liuto dello straniero, ma le melodie risuonavano così stranamente e così paurosamente che nessuno osava appressarsi o tradire gli amanti. Una mattina improvvisamente lo straniero scomparve e inutilmente si cercò per tutto il castello la fanciulla. Preso da un’ansia tormentosa, dal presentimento di qualcosa di terribile, il padre balzò a cavallo e cavalcò alla volta della foresta ripetendo ad alta voce in un dolore senza conforto il nome della sua figliola. Quando giunse alla pietra dove così spesso alla mezzanotte si eran seduti carezzandosi lo straniero e la fanciulla, la criniera del cavallo si alzò, l’animale sbuffò e fremé, e come incantato da uno spirito infernale non volle più andare avanti. Il signore pensò che il cavallo avesse paura della strana forma della pietra, e scese per condurlo a mano, ma irrigidito dallo spavento gli si ghiacciò il sangue e rimase là immobile scorgendo delle chiare gocce di sangue che di continuo sgorgavano dalla pietra. Come mossi da una forza superiore i cacciatori e i contadini che accompagnavano il signore rimossero con gran fatica la pietra e ci trovarono sotto la povera fanciulla uccisa da molti colpi di pugnale e là sepolta e presso di lei il liuto dello straniero, tutto in pezzi. Da quel tempo ogni anno fa il suo nido su quell’albero un usignolo che canta a mezzanotte in modo lamentoso e che penetra sino in fondo all’anima, e dal sangue sorsero le magnifiche erbe e i muschi che con strani colori luccicano ora sulla pietra [22]. L’intera fiaba è, come spesso in Hoffmann (l’ho constatato in più di un’opera) una contraffazione del procedimento alchemico, un gioco sapientemente costruito. La prima e più evidente interpretazione legge in questa fiaba appunto un’allegoria della morte terrena per mano di una forza nemica e del demonico cattivo uso della musica, l’altra, ossia quella che Hoffmann ci chiede di considerare maggiormente, vede la fiaba che abbiamo letto come allegoria della elevazione verso mondi superiori, una liberazione per mezzo dei suoni e del canto. Ma questa lettura è possibile solo se supportata dalla simbologia alchemica. Il giardino che apre la narrazione farebbe pensare ad un epilogo fausto, ma presto esso cede il passo alla foresta, che è il vero luogo nel quale la fiaba si svolge. Nella foresta, o materia informe, ci sono un albero secolare, materia utile, ed una pietra, materia perfetta, verso i quali converge ogni accadimento. È il luogo dei convegni dei due amanti. Lo straniero, che tanto per non smentire l’autore, tiene in mano un generoso bicchiere, introduce la musica negli eventi. Egli attira su di sé le simpatie del signore del castello e della figlia di lui e di tutti coloro che lo ascoltano, inducendoli a pensare che egli sia un emissario celeste. Non c’è presenza materna nell’azione e dunque non c’è baluardo alla sventura. Lo straniero è in possesso di un liuto dal quale fa sgorgare le melodie più armoniose, cantando per di più in una lingua sconosciuta. Ma è proprio la musica, in linguaggio diplomatico arte segreta e lingua sconosciuta e poco accessibile, il mezzo attraverso il quale si corona l’opera alchemica. Essa si attua infatti solo in presenza di elementi accordati in armonia. Il fatto drammatico della uccisione della fanciulla, della sparizione del misterioso straniero e soprattutto la frantumazione del liuto stanno ad indicare le difficoltà di raggiungimento della perfezione dell’opera, e non solo. Analogamente ad Orfeo, che ottenne il dono di commuovere l’intera natura con lo splendore del suo canto dalla perdita definitiva dell’amore, qui dopo il tragico epilogo, compare in scena il primo ed ultimo, vero protagonista della fiaba, l’usignolo, simbolo da sempre della assoluta perfezione del canto. Lo si sente prima dell’allodola, la quale invece avverte gli amanti della necessità di separarsi, per non essere traditi. L’usignolo è amore, ma insieme anche morte, ad indicare l’impossibilità di trattenere a lungo l’attimo supremo del compimento dell’arte. Il secondo significato della fiaba allora è: nella materia informe sono a priori inclusi la materia utile e la pietra. Per rendere viva e operante la pietra occorre un procedimento. È dato dalla storia d’amore. Essa termina, ma non si conclude con la morte, perché immediatamente dopo, dal sangue la pietra si rigenera, rivestendosi di splendida vita e di colori lucenti, mentre in alto si instaura l’armonia. La musica è allora davvero “a più romantica di tutte le arti” [23]. Essa avrebbe come meta l’infinito e quando è accompagnata dal canto, quindi coadiuvata dalla poesia, agirebbe come un elisir filosofale, di cui basta una goccia per rendere preziosa e simile all’ambrosia ogni bevanda [24]. Per definire il culmine della perfezione musicale non sembra dunque possibile al nostro autore, che volentieri seguiamo sul suo percorso, prescindere dall’Alchimia, arte che unisce in sé la duplice potenza risanatrice dell’armonia delle sfere e dell’elisir filosofale od oro potabile. __________ Note1. Cfr. Maria Franca Frola, Prinzessin Brambilla, Celia alchemica, I.S.U., Milano 2003, pp. 71-73. (torna al testo) 2. Le citazioni saranno tratte da E.T.A. Hoffmann, Kreisleriana, dolori musicali del direttore d’orchestra Giovanni Kreisler, BUR, Milano 20022, d’ora in avanti contrassegnati dalla sigla K, seguita dal numero della pagina. (torna al testo) 3. Cfr. K, p. 76 e 78. (torna al testo) 4. Ivi, p. 77. (torna al testo) 5. Cfr. Maria Franca Frola, Prinzessin Brambilla, cit., p. 89. (torna al testo) 6. K, p. 59. (torna al testo) 7. Ibidem. (torna al testo) 8. Ivi, p. 60. (torna al testo) 9. Ivi, p. 39. (torna al testo) 10. Montfaucon Le comte de Gabalis ou entretiens sur les sciences secretes, A Paris, Chez Claude Barbin, au Palais sur le Perron de la Ste Chapelle, M.DC.LXX. Avec Privilege du Roy. (torna al testo) 11. Graf von Gabalis oder Gespräche über die verborgenen Wissenschaften. Aus dem Französischen, Friedrich Maurer, Berlin 1782, p. 29. (torna al testo) 12. Nicolas H. Montfaucon de Villars/Gioseppe Francesco Borri, Il conte di Gabalì, Ragionamenti sulle Scienze Segrete, commento e note di Clara Miccinelli e Carlo Animato, Ecig, Genova 1986. (torna al testo) 13. Michael Maier, Atalanta Fugiens, a cura di Bruno Cerchio, Con trascrizione in notazione moderna delle 50 fughe, Mediterranee, Roma 1984, p. 164. (torna al testo) 14. K, p. 36. (torna al testo) 15. Ivi, p. 51. (torna al testo) 16. Ivi, p. 45. (torna al testo) 17. Cfr. Hans Kayser, Bevor die Engel sangen, Benno Schwabe, Basel 1953. (torna al testo) 18. Ivi, p. 41. (torna al testo) 19. Ivi, p. 104. (torna al testo) 20. Cfr. Ivi, p.120. (torna al testo) 21. Cfr. Ivi, p. 121. (torna al testo) 22. Ivi, pp. 115-116. (torna al testo) 23. K, p. 43. (torna al testo) 24. Cfr. K, p. 44. (torna al testo)
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