Diomede o lo zelo

Miti e SimboliQuando Diomede rifulgeva di grande ed esimia gloria ed era oltremodo caro a Pallade, da questa fu provocato (quasi che egli non fosse più audace di quanto occorresse) a non risparmiare Venere se per caso l’avesse incontrata in battaglia. Diomede spregiudicatamente obbedì e ferì la mano destra a Venere.

Diomede o lo zelo

di Francesco Bacone – (tratto dagli Scritti Filosofici – Ed. UTET – a cura di Paolo Rossi)

Quando Diomede rifulgeva di grande ed esimia gloria ed era oltremodo caro a Pallade, da questa fu provocato (quasi che egli non fosse più audace di quanto occorresse) a non risparmiare Venere se per caso l’avesse incontrata in battaglia. Diomede spregiudicatamente obbedì e ferì la mano destra a Venere. Questa delittuosa impresa rimase a lungo impunita, e Diomede ritornò in patria illustre e famoso per le imprese compiute; ma qui, sperimentati i mali domestici, se ne fuggì all’estero, in Italia. Quivi pure ebbe inizi abbastanza prosperi e fu onorato dall’ospitalità e dai doni del re Dauno, e in quella terra gli furono erette molte statue.

Non appena però una calamità afflisse il popolo presso il quale si era rifugiato, subito Dauno pensò di aver condotto tra i suoi penati un uomo empio negatore del cielo ed inviso agli dèi, che aveva profanato e assalito col ferro una dea che era peccato perfino sfiorare.

Pertanto, per liberare la sua patria prostrata da una maledizione, senza preoccuparsi dei doveri d’ospitalità, che gli parvero meno antichi di quelli della religione, immediatamente uccise Diomede e ordinò che le sue statue ed onori fossero distrutti o abrogati.

Non era consentito neppure avere pietà di un sì grave fatto; gli stessi suoi compagni che piangevano la morte del loro comandante e riempivano ogni luogo di lamenti, furono trasformati in uccelli, della specie dei cigni, i quali al momento della loro morte, fanno sentire un canto melodioso e lugubre.

Questa favola tratta un tema caro e per così dire singolare. Non è stato ricordato infatti in alcuna altra favola nessun eroe, eccetto il solo Diomede, che col ferro ferisse un qualche Dio.

Certamente la favola sembra voler dipingere il carattere ed il destino di colui che di proposito propone e determina come fine delle sue azioni di perseguitare e distruggere con la forza e la spada qualche culto divino o una setta religiosa, sia pur vana e superficiale. Infatti, sebbene agli antichi siano rimasti ignoti i cruenti dissidi religiosi (non essendo sfiorati gli dèi del paganesimo dalla gelosia, attributo del vero Dio) tuttavia tanta e tanto estesa sembra essere stata la sapienza degli antichi tempi, che essa comprese con la riflessione e le rappresentazioni simboliche ciò che per esperienza non poté conoscere.

Infatti, coloro che si affannano per correggere e convincere una qualche setta religiosa, per quanto vana e corrotta e infame essa sia (come è rappresentato sotto il simbolo di Venere), non già per via di forza razionale, di sapere, di santità di vita, o col peso degli esempi o della autorità, ma bensì la distruggono e la sterminano, col ferro, col fuoco e con l’asprezza delle pene, forse sono spinti a far questo da Pallade, cioè da una sottile prudenza e da un severo giudizio. Per la forza e la maturità di tale giudizio scorgono la fallacia e la malvagità di simili errori; e sono spinti anche da odio e da zelo; per lungo tempo acquistano grande gloria, e dal volgo (per cui nulla di moderato vi può essere) sono celebrati e quasi adorati come unici difensori della verità e della religione (mentre gli altri sembrano tiepidi e meticolosi). Tuttavia, questa gloriosa felicità raramente arriva fino alla fine: perché quasi ogni violenza, se non sfugge con rapida morte alle vicissitudini delle cose, ha un triste esito.

Così se accade che avvenga un cambiamento di situazione e quella setta proscritta e schiacciata riacquisti forza e vigore, allora tutto lo zelo e le violenze sono condannate, persino il ricordo viene in odio, e tutti gli onori vanno a finire in obbrobrio.

Il fatto che Diomede fu ucciso dall’ospite, indica che il dissidio religioso eccita tradimenti ed insidie anche tra persone unite da vincoli strettissimi. I lutti e i lamenti non sopportati, ma puniti col supplizio, ammoniscono che in tutti i delitti deve essere lasciato spazio all’umana commiserazione, in modo che anche coloro che odiano i crimini commiserino per umanità le persone e i tormenti dei colpevoli; è infatti l’estremo dei mali se è tolta la possibilità della misericordia.

Ma tuttavia quando si tratta di religione e di empietà, anche le umane commiserazioni possono essere notate e considerate sospette. I lamenti e le querimonie dei compagni di Diomede, invece, cioè di uomini della stessa setta ed opinione, sono molto patetici e melodiosi come quelli dei cigni, gli uccelli di Diomede. Anche questa parte dell’allegoria è nobile e insigne, infatti, le voci di coloro che subiscono il supplizio per cause religiose sembrano, al momento della morte, canti di cigno, perché scuotono l’animo umano in modo incredibile e restano poi per lungo tempo nell’impressione e nella memoria.

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