Teologia, Metafisica ed Esoterismo in Dante /1

L'Opera al RossoDante – La Città Di Dante – La cultura fiorentina ai tempi di Dante – Metafisica ed Eresia a Firenze ai tempi di Dante – Testimonianze di metafisica ed esoterismo – I concetti basilari della dottrina dantesca – I Fedeli d’Amore

La Schola a cui Dante si rifaceva, già dai primi secoli del cristianesimo, interpretava i Sacri testi in quattro modi fondamentali: letterale, allegorico, morale e anagogico. Ai tempi di Dante questo metodo interpretativo era esteso anche alle opere letterarie e poetiche. Nell’epistola Dantesca a Cangrande della Scala il Poeta riconosce che anche nella sua Commedia esiste un senso anagogico, come in ogni opera che parli di ciò che è eterno e spirituale.
Nel Convivio Dante stesso definisce i quattro metodi: quello letterale consisteva nella più piana e piatta comprensione del testo. L’allegorico consiste nell’intuizione simbolica del letterale. Dal simbolo, poi, si intravede la connotazione morale. Ma anche l’interpretazione morale dei simboli, che ci riporta ad un concetto religioso, è comunque inferiore al senso “anagogico”.

Teologia, Metafisica ed Esoterismo in Dante /1

di Vittorio Vanni

Sommario: DanteLa Città Di Dante – La cultura fiorentina ai tempi di Dante – Metafisica ed Eresia a Firenze ai tempi di Dante – Testimonianze di metafisica ed esoterismo – I concetti basilari della dottrina dantesca – I Fedeli d’Amore

Dante

“O voi che avete gli intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame delli versi strani.”

Inferno, IX, 61-63

Nel Convivio Dante afferma che ogni scrittura, e non solo quella sacra, si può intendere:

“e debbosi intendere massimamente per quattro sensi”

di cui il più alto e spirituale era l’anagogico.

La Schola a cui Dante si rifaceva, già dai primi secoli del cristianesimo, interpretava i Sacri testi in quattro modi fondamentali: letterale, allegorico, morale e anagogico. Ai tempi di Dante questo metodo interpretativo era esteso anche alle opere letterarie e poetiche. Nell’epistola Dantesca a Cangrande della Scala il Poeta riconosce che anche nella sua Commedia esiste un senso anagogico, come in ogni opera che parli di ciò che è eterno e spirituale.

Nel Convivio Dante stesso definisce i quattro metodi: quello letterale consisteva nella più piana e piatta comprensione del testo. L’allegorico consiste nell’intuizione simbolica del letterale. Dal simbolo, poi, si intravede la connotazione morale. Ma anche l’interpretazione morale dei simboli, che ci riporta ad un concetto religioso, è comunque inferiore al senso “anagogico”.

Il significato etimologico di anagogia, dal greco ana, “su” e ago “io conduco”, ovvero “porto in alto”, “ascendo”, indica una via di ascesa intellettuale e spirituale attraverso il quale, gradualmente, si supera una concettualità meno perfetta, fino a giungere la perfezione del concetto puro, a quel Fiore dell’Intelletto neoplatonico che non è più una condizione puramente umana, ma iniziatica ed esoterica.[1]

Quando si esamina e si cerca di interpretare il pensiero di un genio come Dante vi è certamente la tentazione di astrattizzare, di commentare con il pensiero della nostra epoca quello del passato.

Inquadrare una ricerca soltanto con l’interpretazione filosofica è certamente un errore, perché ogni atto del pensiero nasce dal suo quotidiano, dai suoi parametri apparentemente minimi.

La moderna storiografia ha superato i limiti che le imponeva la metodica ottocentesca, ricercando l’origine della vita pubblica e dei grandi avvenimenti nella vita privata, negli avvenimenti quotidiani.

L’immaginazione vede Dante come un gigante ed un genio, ma molto spesso non si conosce la realtà vivente della sua esistenza, della città in cui viveva, degli ideali e delle crisi che coinvolgevano il suo mondo.

Cercheremo quindi di dare un ritratto fedele neutrale di quest’ambito, mettendo soprattutto in risalto ciò che lo stesso Dante dice di sé. Soltanto dopo questa sintesi potremo verificare se le fonti del mito sono genuine. Non si può staccare Dante dall’ambiente in cui è nato e vissuto, perché fu uomo dei suoi tempi e della sua città.

Chi era Dante? Un figlio del suo tempo, come ognuno. Cerchiamo quindi, anche se minimamente, di comprendere i suoi tempi.

L’amore ed il rancore di Dante per la sua città e i suoi personaggi è fondamentale per seguire il suo pensiero.

Dante ebbe nobili natali, ma la sua famiglia conobbe soltanto una modesta agiatezza. Sua madre veniva dalla potente famiglia dei Donati, e suo trisavolo fu quel Cacciaguida, cui Dante portava una particolare venerazione, e lo riconosceva come sua “radice”.

Cacciaguida, armato cavaliere e morto in battaglia, prese il nome d’Alighiero dalla sua donna, che proveniva dal paese ferrarese di Altichiero, in “val di Pado”, figlia della nobile famiglia degli Altichieri. Suo bisnonno fu Alighiero I, che ebbe in moglie una figlia di Bellincion Berti Ravignani, suo nonno materno, imparentato con gli Elisei.

Da Altichiero I, nasce Bellincione, nonno di Dante, che essendo un personaggio di particolare importanza, mercantile e culturale, nella Firenze dell’epoca, avrà sicuramente avuto importanza per la formazione di Dante. Bellincione ebbe sei figli maschi, di cui uno fu Alighiero II, padre di Dante.

Nella contesa poetica, una “disturna” con Forese Donati, questo fa una curiosa allusione al padre di Dante “ben ti strignea il nodo Salomone”, che potebbe essere un’accusa d’usura, il peccato più abusato dai fiorentini, o anche ad una possibile discendenza ebraica della famiglia degli Elisei.

È possibile che Dante abbia conosciuto il nonno Bellincione ed abbia avuto direttamente da lui testimonianza delle vicende pubbliche di sanguinose faide fra nobili, e quelle private dei coinvolgimenti della sua famiglia. Dante nacque verso la fine di Maggio del 1265, nella casa degli Alighieri nel Popolo di S. Martino del Vescovo, di fronte alla torre della Castagna.

Dante, fu un “fiorentino spirito bizzarro”. Nelle iconografie conosciute lo vediamo corrucciato, grifagno. L’immagine di Dante è quella di un’altera sfinge dal volto impenetrabile, amaro, doloroso, che non cede facilmente il suo mistero.

Ma nella sua immagine giovanile, recentemente ritrovata, ed in Giotto il suo volto acquista trasparenza e chiarità, in una giovinezza attenta e raccolta, dagli occhi chiari e limpidi, immensamente pieni di quella luce calma ed intensa che rompe il buio dei vicoli fiorentini. Nel volto giottesco permane, viva, una fiduciosa umanità, in un momento forse di momentanea pace cittadina, tanto effimera e bugiarda quanto nascostamente fosca d’odio profondo e di faide omicide.

Dopo Giotto il volto di Dante è quello di un’immota maschera, raggelata nel suo silenzioso sdegno, nella sua interiore e quasi disumana spiritualità.

Fra gli splendidi affreschi della Cappella Brancacci, nella Chiesa del Carmine a Firenze, vi è una curiosa raffigurazione di Dante Alighieri, corrispondente a ciò che la tradizione, sia colta sia popolare, attribuiva alla mitica e favolosa personalità del gran fiorentino. Alla Cappella Brancacci del Carmine, Filippino Lippi ci ha trasmesso il noto profilo, aquilino e sdegnoso, sotto lo spoglie di Simon Mago, denunciante a Nerone gli apostoli Pietro e Paolo come nemici dell’Impero, perturbatori della quiete pubblica, corruttori della gioventù e falsi profeti.

Cappella Brancacci – Chiesa del Carmine – Firenze

Questo leggendario episodio deriva da un aneddoto narrato da Ippolito Romano, una singolare figura di santo (canonizzato) e nel contempo antipapa, che nel IV secolo scrisse il suo Philosophumena contro gli eretici, ed in particolare contro gli gnostici. Questo episodio, certamente apocrifo, ci dimostra, nella mancanza di notizie storiche dei primi secoli cristiani, come le correnti gnostiche erano considerate più vicine alla società pagana e forse anche a lei alleate.

Dante stesso si scaglia, nel XIX Canto dell’Inferno contro Simon Mago ed i simoniaci (ma solo per il loro mercimonio del sacro):

“O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontade
deon esser spose, voi rapaci
per oro e per argento avolterate.”

Il gioco inquietante di Filippino, che inserisce la già mitica e affabulata personalità di Dante in un’allusiva leggenda, è un sofisticato collage temporale a testimonianza della trasmissione di conoscenze filosofiche e simboliche attraverso l’arte.

Se l’inquadramento allusivo e simbolico della figura di Dante in Filippino risulta ben chiara a chi conosca l’origine dell’allegoria usata, ancor più facile risulta inquadrare nell’ambiente storico ed artistico fiorentino i presupposti filosofici e metafisici che indicavano l’uso di un preciso simbolismo.

Proprio a Firenze e in quel tempo tornavano alla luce i concetti del neoplatonismo e di quella prisca religione, che pur non rinnegando la salvezza cristiana, ammirava ed affermava nel contempo la spiritualità misterica del passato.

Pochi anni dopo la morte di Dante, la sua leggenda, popolare e colta assieme, lo indicava come eretico, ma anche eccelso astrologo e mago – come lo definiva Antonio Pucci, trombetto del comune, poeta e cronachista e pettegolo – e come lo riteneva Giovanni XXII, che lo accusò, su testimonianza di Galeazzo Visconti, di aver tentato assieme al vecchio Maffeo Visconti di procurargli morte, attraverso immagini di cera e varie malie.

Quelle labbra sottili e serrate, che hanno pronunciato la preghiera ermetica di Bernardo alla Vergine, nel XIII canto del Paradiso, l’aulica retorica del “De Monarchia”, le rime d’amor sacro e d’amor profan, sanno essere terribili nell’invettiva.

Forse, più che l’indole, furono le amarezze le delusioni subite a trasformare il suo volto.

Così dice dei suoi concittadini:

Filippo Argenti degli Adimari Caviccioli:

Tutti dicevano: A Filippo Argenti!
E ‘l fiorentino spirito bizzarro
A sé medesmo si volgea co denti

Della famiglia Adimari Caviccioli

L’oltracotata schiatta che si indraca
Dietro a chi fugge, ed a chi mostra il dente
Ovver la borsa, com’agnel si placa

I Visdomini

Color che quando nostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a concistoro

I Fiorentini in genere:

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi
Gente avara, invidiosa e superba
…………………………………..

quell’ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico
E tiene ancor del mondo e del macigno
…………………………………………

faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme e non tocchin la pianta
S’alcuna sorge ancora in lor letame
………………………………………

Godi Fiorenza che se così grande
Che per mare e per terra batti l’ale
E per lo ‘ferno il tuo nome si spande!

La leggenda medioevale indicava già in Virgilio il mago e la sua scelta come guida, caratterizzava già il discepolo.

Le simpatie di Dante per i movimenti dei fraticelli e dei pauperisti, la difesa dei Templari ingiustamente perseguitati da Filippo il bello e da Clemente, non eccede le opinioni colte del tempo suo ed in esse non vi è traccia d’eresia.

Non vi sono quindi ragioni sufficienti per ritenere Dante eretico. Lo sdegno contro gli eresiarchi nell’Inferno n’è la prova già sufficiente. Nell’ Esoterismo di Dante [2] René Guènon afferma che:

“…il vero esoterismo è una cosa del tutto differente dalla religione esteriore, e, se ha qualche rapporto con questa, non può essere se in quanto trova nelle forme religiose un modo d’espressione simbolico; d’altronde, importa poco che queste forme siano quelle di tale o tal’altra religione, perché ciò di cui si tratta è l’unità dottrinaria essenziale la quale si dissimula dietro la loro apparente diversità.”

Da questo punto di vista, è insussistente la domanda che alcuni commentatori si fanno, e cioè se Dante fu un cattolico ortodosso o meno.

Certo, Dante e la fazione dei Bianchi cui apparteneva si opponevano all’estendersi dell’influenza clericale che Bonifacio VIII (Tanto nomini…) “De servitio faciendo domino Papae nihil fiata”.

La prima opposizione di Dante al temporalismo era di natura politica, e solo successivamente diviene filosofico-religiosa.

Dante afferma nel De Monarchia che l’autorità deriva da Dio e dal popolo romano che n’è il mandatario e che al Pontefice si deve soltanto la riverenza, che è l’unico appannaggio del potere spirituale. Gli accenni astrologici nell’opera dantesca sono numerosi e non mancano alcuni accenni di mistica ebraica che solo nel XIII secolo iniziò ad avere connotazioni cabbalistiche.

La Divina Commedia rappresenta una summa della cultura medioevale e dimostra in Dante non soltanto il genio poetico e letterario, ma anche la sua immensa cultura, che tuttavia non si discosta, e non potrebbe essere altrimenti, da quella dei suoi tempi.

Vi sono quindi due linee interpretative per comprendere la realtà interiore di Dante, ciò che effettivamente era e quale erano le sue opinioni ed appartenenze. Una consiste nell’esaminare, senza alcun pregiudizio, tutta la letteratura che da metà dell’ottocento in poi ha reinterpretato Dante.

La mole e la profondità di questa saggistica non si può eludere, e rappresenta una branca di studi danteschi ormai indispensabili.

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Note

1. Il motto della cinquecentesca Accademia del Disegno a Firenze   (di carattere proto massonico) aveva per motto “ Sale di terra in ciel nostro intelletto ” riferendosi all’interpretazione anagogica dell’Arte. (torna al testo)

2. L’Esoterismo di Dante, Atanòr, Roma, 1971. (torna al testo)
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La Città Di Dante

Firenze nel ‘300

“Io fui nato e cresciuto sopra il gran fiume d’Arno alla gran villa”

Questo è tutto ciò che dice Dante della sua infanzia e della sua adolescenza.

Ma questa gran villa, in che consisteva? Vicino ad un borgo etrusco, identificato in un piccolo quadrato fra Piazza S. Firenze, Borgo de Greci, via dell’Anguilla e Piazza S. Croce, nel I secolo a.C. i romani edificarono le mura della prima cerchia, un quadrilatero di circa 1800 metri, circa 20 ettari, bastante per ospitare 2000/2500 abitanti. La “cerchia antica” in cui viveva Cacciaguida, l’avolo di Dante, risale al 1078. Fu edificata da Matilde di Canossa, per la continua minaccia dei cavalieri tedeschi, al tempo per la lotta delle investiture, tra Enrico IV ed il Gregorio Papa VII.

La cerchia mateldina poteva ospitare circa 20/25.000 abitanti. Dante abitò nel periodo della costruzione della seconda cerchia comunale, resasi necessaria per conglobare i vari borghi che erano nati all’esterno della prima cerchia comunale. All’inizio del XIV secolo i vari focolari comportarono 85.000 abitanti.

Per i parametri dell’epoca Firenze era quindi una gran città, considerando che Parigi, nello stesso periodo, non superava i centomila.

La città era caratterizzata, come tutte le città medioevali, da alte torri e da vicoli strettissimi, con una grave carenza di piazze in cui la popolazione poteva radunarsi. La piazza della Signoria, che fu il compimento delle lunghe e gravi lotte fra il Comune e le famiglie feudali, fu edificata solo dopo che l’antica famiglia degli Uberti, che aveva case e torri in quel luogo, poté essere distrutta.

Nei vicoli ai piedi delle torri magnatizie (che dovevano essere alte, al massimo, 50 braccia fiorentine, 29 metri) e delle case di pietra fortificate del “popolo grasso” vi erano catapecchie di legno o di materiale di recupero.

Così, nei borghi fuori le mura, la popolazione minuta viveva in abitazioni meschine, spesso anche di una sola stanza, con un pavimento in terra battuta, ricoperto di fieno o di stoppie.

Il piccolo negoziante, l’artefice di concetto aveva a volte due stanze, una per la cucina ed una per il letto. Ma anche le grandi dimore magnatizie non avevano molti agi. La poca luce passava attraverso le inpannate, specie d’imposte di tela grezza a copertura di finestrine minuscole.

I cessi erano spesso fatti di tavole di legno fra una torre e l’altra, e scaricavano nel “chiassetto” di sotto, quando non si gettava tranquillamente il vaso ed il suo contenuto direttamente nella strada, come ricorda il Boccaccio nella sua novella di Masuccio salernitano.

Rari erano i camini per i poveri, e per cucinare si usava un semplice fornello.

Per i magnati, le cucine e le lavanderie erano o fuori della torre, o all’ultimo piano per i rischi d’incendio.

L’alimentazione dei poveri era problematica in quanto soltanto il grano era importato e le derrate provenivano direttamente dal contado, dove a volte i raccolti erano scarsi e producevano carestie.

Firenze poi non aveva porti propri e dipendeva da Pisa, spesso nemica. Dante, che è un puritano, e critica spesso i cosiddetti “lussi” della sua epoca, non ha niente da dire sull’alimentazione, che era spartana al tempo suo, criticando il solo Ciacco, noto ghiottone.

Comunque, per quanto scarsa e sottoposta a cicliche carestie, l’alimentazione era sufficiente e la solidarietà nutriva anche i più poveri. I pasti principali erano due: il desinare, fra le nove e le dieci, e la cenare, in inverno al tramonto, l’estate un po’ prima.

Per i ricchi, la merenda, a metà giornata. Si cucinava solo al mattino e la sera si consumava i resti. Zuppa di legumi, con o senza i primitivi “maccheroni”, pasta lavorata a mano di schietta discendenza etrusca, o pane e “rizzati” come dicono i fiorentini.

Due volte la settimana (giovedì e domenica) un po’ di bollito di manzo o arrosto di pecora, vitello, agnello. Le vigilie, venerdì e quaresima, rigidamente osservate, ceci, fagioli, cavolfiore, verdura in genere, pesci d’Arno o ranocchi (per i ricchi, raramente, pesce di mare), acciughe, tonno o tonnina.

Dopo la scoperta, da parte dei mercanti fiorentini, delle pescherie nordiche, iniziarono ad arrivare aringhe e baccalà. Si consumavano soprattutto, grandi quantità di pane, base dell’alimentazione. Scuro ed integrale, ma non solo di grano, ma anche di vecce, segale, lupini ecc. Nei giorni di festa, piccole quantità di maiale, selvaggina, pollame. Per chi se lo poteva permettere, gran quantità di pepe, soprattutto a causa della scarsa possibilità di conservazione della carne, il cui gusto veniva così coperto. I poveri usavano l’aceto.

Come bevanda, acqua, o vinaccia annacquata (acquerello). Il vino era solo per gli uomini, all’osteria. I grassi alimentari sono scarsi. La coltivazione dell’ulivo non era ancora nella sua massima espansione e per cucinare si consumava per lo più lardo e, per i più poveri, anche la sugna.

Un piatto medioevale tipico della tavola fiorentina popolare? Si mette nel paiolo un trito di cipolla ed aglio, un po’ di sugna, ma a miccino, (scarsamente) e cavoli affettati. Si aggiunge poi acqua e sale. A bollitura si aggiunge un po’ di pasta casalinga o fette di pane abbrustolite.

Anche l’insalata si condisce spesso con un grasso di pancetta, o lardo, sciolti un po’ nella padella.

Un bicchiere d’acquerello (detto anche sprezzantemente ed amaramente “cerborea”, acqua d’inferno), completava il pasto. Di tutto ne deve rimanere anche per la cena.

Il concetto di tempo era molto diverso dal nostro. I rari che scrivevano di notte lo misuravano con la candela graduata, con l’arenario o clessidra e con la meridiana di giorno.

Ma soprattutto con le campane, a Firenze quella di Badia, con cui s’indicava “e terza e nona”, vale a dire, secondo il commentatore dantesco Jacopo della Lana, l’ora di inizio e della fine del lavoro.

La campana del Palazzo dei Priori pesava 5.775 chili e richiedeva dodici uomini per muoverla.

Qual era la giornata del fiorentino medio? Sveglia alle sei, (la prima ora), un’abluzione molto sommaria, viso, mani e collo, un tozzo di pane con l’immancabile acquerello, e tutti, soprattutto le donne, a messa. Gli uomini al lavoro, con una mela o poco più in tasca. Gli uffici pubblici aprono all’alba e chiudono alla “nona” (le 15), orario cui avrebbero dovuto teoricamente smettere il lavoro anche gli artigiani, ma più probabilmente si lavorava finché durava la luce del giorno (a Vespero, circa le ore 18).

La cena e poi subito a letto, tranne che d’estate, quando si poteva passeggiare fino al coprifuoco. Solo i bordelli e le osterie potevano restare aperti fino a compieta, ma chi era fuori a quest’ora era considerato con sospetto. Il sabato pomeriggio era libero e dedicato alle pulizie della casa e della persona.

Le stufe, nelle antiche terme romane, permettevano una pulizia meno sommaria di quella del mattino. La domenica la messa era obbligatoria ed il lavoro interdetto, tranne nel caso dei barbieri, dei fornai, del calzolai e degli speziali.

Le riunioni pubbliche dei privati cittadini erano concesse solo per motivi religiosi. Da ciò deriva l’incredibile sviluppo delle Confraternite religiose dei laudesi, unica occasione d’aggregazione sociale.

Anche ai matrimoni, funerali e battesimi era imposto un numero massimo di partecipanti. Il controllo politico, in mano alle Arti, era rigoroso ed opprimente. In questa Firenze austera, poco luminosa, grigia e monotona, le uniche attività più vivaci erano la partecipazione alle cerimonie religiose, quella alla vita pubblica, per quanto molto pericolose, e lo studio.

Pianta di Firenze

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