Il mito delle «Verità assolute»

Domande e RisposteEpistolari d’Esoterismo

Cos’è la verità, e soprattutto dov’è? Credo che ognuno di noi sia un frammento di verità assoluta nel relativo. È vero ciò che vedo. È vero ciò che sento. È vero ciò che provo. L’immagine che vedo è assoluta. Il suono che sento è assoluto. Il sentimento che provo è assoluto… per me.
Spostandomi su un’altra coscienza, però, troverei altre verità totalizzanti, relative alle dimensioni, capacità, limpidezza e profondità di quella mente-coscienza.

Il mito delle «Verità assolute»

degli Autori di Esonet

1 settembre 2007

Athos A. Altomonte scrive:

Cos’è la verità, e soprattutto dov’è? Credo che ognuno di noi sia un frammento di verità assoluta nel relativo. È vero ciò che vedo. È vero ciò che sento. È vero ciò che provo. L’immagine che vedo è assoluta. Il suono che sento è assoluto. Il sentimento che provo è assoluto… per me.

Spostandomi su un’altra coscienza, però, troverei altre verità totalizzanti, relative alle dimensioni, capacità, limpidezza e profondità di quella mente-coscienza.

Di qui due iniziative: 1) smettere di occuparsi delle etichette 2) sperimentare i contenuti.

Come esempio userei quello di chi, trovandosi d’innanzi tanti barattoli di marmellate, di cui non conosce il sapore, prova ad immaginarselo leggendo le etichette con gli ingredienti. In mancanza di meglio questa può essere un’alternativa, ma il metodo migliore è quello di ficcarci dentro un dito e portarselo in bocca. Quello che si sentirà sarà “sapore vero”, che magari ad un altro sembrerà diverso, ma individualmente quel sapore è assolutamente vero. Per cui dico, cominciamo dallo sperimentare ciò che ci viene trasmesso. Non limitiamoci a conoscere le etichette, ma immergiamo le dita nella marmellata dell’insegnamento esoterico, o ermetico, o alchemico.

Come un tempo tutte le strade portavano a Roma, ogni scuola di pensiero, se non ce se ne innamora, e si è capaci di lasciarla quando ci ha dato tutto ciò che poteva darci, tende ad un centro comune a tutte le filosofie. Quel “centro comune” è il santo graal dei filosofi. È la sintesi di tutti i pensatori. Ma bisogna essere capaci di oltrepassare ogni verità totalizzante ma relativa, per raggiungere lo scopo.

Ciò premesso, non posso che abbracciare la via sperimentale, facendo di me stesso l’unico vero Athanor alchemico, con cui lavorare.

Il laboratorio, gli alambicchi, le storte saranno i pensieri, e la capacità di elaborarli, trasformarli, colorarli emotivamente. Prova e controprova fatta dall’ideatore sull’ideatore stesso che diventa, così, generatore, generante e generato di se stesso. Ecco un altro modo per rappresentare l’auto-iniziazione, in una dimensione dove non possono esserci verità ultime, visto che evoluzione e progresso significano moto e, quindi, trasformazione continua.

Eppure, eccezionalmente esistono casi di verità assolute. Sono le idee di menti mineralizzate, immobili e chiuse al progresso, la cui immutabilità fa credere che “oltre loro” non ci sia nulla.

In realtà si tratta di stati di morte apparente.

Ho sempre sperimentato prima di metterlo in pratica, quello di cui nutrivo la mia mente, preoccupandomi più dei contenuti (le marmellate) che dell’aspetto formale (l’etichetta).

Ti lascio ricordandoti una delle farsi che hanno cambiato direzione alla mia la vita: “parlare non fa cuocere il riso”.

000 Athos

1 settembre 2007

Antonio D’Alonzo scrive:

Caro Athos, mi sento di sottoscrivere in pieno molte delle idee che hai espresso. Finalmente proviamo a pensare alla storicità dell’idea di «verità»; dove l’ipostasi, l’immutabilità dottrinale conduce alla morte apparente del pensiero. Immutabilità dottrinale che, oltretutto, nella storia delle religioni non si è mai verificata.

Il buddhismo mahayana diffondendosi in Cina si è trasformato nel chan (buddhismo cinese), ma a sua volta ha subito l’influsso del tao e del confucianesimo ridefinendo alcune dottrine iniziali. Sempre il mahayana penetrando in Giappone, dopo un’opposizione iniziale, si è trasformato nello zen, ma è stato a sua volta influenzato dalla shintoismo. Nella realtà dei fatti l’ibridazione assimilatrice si sempre verificata, nella filosofia come nelle religioni.

Ad esempio, per ritornare a quanto hai scritto, la riduzione della verità con ciò che (io) vedo/sento/provo e che differisce dalla verità che l’altro vede/sente/prova, conduce a relativizzare la pretesa di una «verità» assoluta, data una volta per tutte, ed apre lo spazio dell’interpretazione. La mia «verità» non è superiore alla «verità» dell’altro. Ma se la «verità» è data dalla pletora delle concezioni individuali su di essa – oltre che dall’«ancora-impensato» – si decostruisce l’idea di una Verità centrale (con la maiuscola) in favore dell’interpretazione pluralistica.

Cito il celebre esempio delle monadi leibniziane che come tante case con una sola finestra osservano la città (la verità) soltanto dalla loro relativa posizione spaziale, peculiare e differente da quella di tutte le altre monadi. Ecco perché trovo fondamentale il tuo invito alla sperimentazione e alla ricerca infinita.

Personalmente riesco a farlo più con il pensiero che con la pratica. Ma questo è un mio limite e, forse, una deformazione professionale. Nonostante questo non vedo in base a quale argomentazione potrei negare la possibilità di una ricerca operativa, condotta da operatori più capaci di me. Come dice un aforisma greco: «conoscere i propri limiti significa non dover temere il destino».

Ritornerò dunque ad interrogarmi dal punto di vista che mi è proprio, dalla mia finestra monadica.

Sulla scia di Heidegger, penso alla verità come alla radura nella quale ogni tanto si viene a trovare l’esser-ci (l’uomo). La «verità» è il «-ci» (il «qui», l’hic et nunc) dell’esser-ci in cui si apre il pensiero dell’essere. L’errore della metafisica occidentale è quello di aver spazializzato la dimensione temporale. Di avere pensato la verità soltanto come spazio e non come tempo, storia, diacronia, epocalità. Un errore in cui inevitabilmente un soggetto conoscente si limita a contemplare un ente reificato, spazializzato, ipostatico. Pensare la verità, ma preferisco usare il termine «essere», come epocalità significa pensare la verità storica di questo aprirsi della com-prensione alla finitezza dell’esserci (l’uomo).

L’essere è un’epifania che si declina nella storia: se ai tempi di Platone la «verità» era la dottrina delle idee, per l’uomo contemporaneo essa si apre nella «tecnica». In effetti, non si può negare che oggi la «tecnica» abbia sostituito il «vecchio» Dio del cristianesimo. Il nuovo che avanza tra i blocchi granitici dei fondamentalismi e dei laicismi vari, è la «mediamanzia». A mio avviso, andiamo incontro ad un’epoca nuova che costringerà a ripensare la nostra idea classica della «verità». Un pensiero nuovo che produrrà una frattura con il modo in cui abbiamo sempre elaborato le idee e si fonderà sulla visione, più che sulla logica del terzo escluso o del principio di non-contraddizione.

000 Antonio

2 settembre 2007

Athos scrive:

Caro Antonio, concordo che le uniche “verità assolute” in cui possiamo ragionevolmente imbatterci sono le dottrine di fede. Ma è difficile ritenerle tali, anche solo per il fatto che confliggono l’un l’altra, adducendo di essere l’unica depositaria del crisma divino. Ognuna si dice vera ed immutabile, ma la storia dimostra quanto, in realtà, siano mobili le loro norme. Perciò, licenzierei rapidamente le “verità assolute” delle religioni, ricordando quanto scritto da Popper:

« Appartengono a sistemi chiusi le tesi totalmente astratte (astruse), le asserzioni ideologiche o più specificatamente i dogmi religiosi che trovano conferma solo all’interno dei loro costrutti e solo per mezzo dei propri strumenti, per cui, non possono incorrere in smentite. Queste sono dette auto-immunizzanti perché fondate su moduli ragionevoli, che si sostengono non ponendo in discussione nessuna parte di sé, immunizzandosi così da ogni possibilità di smentita che possa derivare da un contraddittorio dialettico o da un confronto intellettuale. Inoltre sono considerati a sistema chiuso, quelle tesi ideologiche o di credo, che si affermano come proposizioni onnicomprensive cioè, quei sistemi speculativi all’interno dei quali si trova la spiegazione di tutto e per tutto

Un altro aspetto da considerare è chi scambia per verità, giudizi, opinioni, idee, personali o condivise. Fatto è, che si scambia per verità l’infinita gamma di realtà ordinarie e mutevoli, e questo porta l’individuo a lottare contro il tempo, che passa, modificando tutto e tutti.

La rincorsa alle diete e alla chirurgia plastica sono solo la punta della paura del tempo e della morte, che ognuno cerca di esorcizzare costruendo i propri totem consolatori. Dunque, il cerchio filosofico si chiude, riportandoci al fatto che l’unica verità a cui l’uomo comune può aspirare è la realtà relativa, compatibilmente alla sua capacità di capire e di contenere. E il solo grado di comprensione e la capacità di contenere, sono fattori che comportano differenze sostanziali tra ciò che crede l’uno e l’altro.

Esiste un percorso verso la realtà, che l’aspetto più prossimo alla verità che l’uomo possa concepire, enunciato da Immanuel Kant nella formula del «ding an sich», la comprensione della cosa in sé. Kant ci ha indicato il metodo di osservare la realtà oggettiva, preservando la centralità di ciò che viene osservato, a scapito di quella di chi osserva. Quindi, osservare una realtà per ciò che è, e non per ciò che intende o crede che sia chi l’osserva. I testi sacri sono indicativi di accadimenti in sé naturali, ma straordinari per l’ignoranza di chi a quel tempo ne era testimone.

Con il «ding an sich», Kant ha teso una linea verso la comprensione della verità, in quanto realtà oggettiva. Osservando un oggetto concettuale come soggetto osservato e non come oggetto d’osservazione. Se l’osservazione d’un oggetto concettuale viene disgiunta dalle opinioni personali e dall’entroterra culturale che caratterizza la soggettività dell’osservatore, questo porta all’empatia, la soglia che porta alla vera capacità di comprendere. Aggiungendo che «per la cosa in sé… non basta la fede in un’idea, anche se sentita sinceramente, per fare una religione. Come non basta credere ad una religione perché essa diventi la «Religione».

Per avvicinare la “verità”, dunque, bisogna allontanarsi da sé stessi, dalle proprie idee, dalle proprie opinioni, facendoci avvicinare al concetto di “distacco” del mistico, ed alla “dis-integrazione” psicoanalitica. Per cui la ragione è la maggiore fonte d’illusioni.

Maggiori sono le illusioni e più sembrano attendibili, e quando le illusioni sono affermate alla stregua di “verità assolute”, qui siamo nella sfera dell’autoerotismo, dell’onanismo mentale. I “portatori di verità” toccano picchi d’esaltazione pari al godimento sensuale. Uno stato che cercano di mantenere il più a lungo possibile, anche a costo di precludersi ogni contatto con la realtà realizzante e realizzata. Perciò, le “verità assolute” sono più spesso sogni instabili, che mutano mentre passano da portatore a portatore.

Per rappresentare la verità il simbolismo usa il colore bianco, perché, è il colore della sintesi. L’insegnamento iniziatico rappresenta la “verità” come luce che illumina. Dandoci un ottimo indizio. Ho paragonato l’intuito ad un “big bang” psichico. Un colpo di luce che attraversa mente e coscienza, facendogli comprendere ciò che prima non sapevano. È questa la via verso la verità? Io lo credo.

Credo che chi ambisce a capire, a comprendere verità metafisiche, debba piuttosto sviluppare l’intuito. Quel filo di conoscenza che proviene da un serbatoio d’idee che seppure nostre, ancora non ci appartengo. Il big bang, è una precipitazione psichica, che proviene da una dimensione mentale che dobbiamo ancora scoprire. Una dimensione chiamata anima, da cui proviene quella che gli antichi chiamarono gnosi.

La conoscenza per contatto (o Ragion pura) non è una graziosa concessione, non è un dono che viene dall’alto, ma una dimensione da raggiungere conquistandosi giorno dopo giorno il diritto a tante “piccole illuminazioni” che amplino mente e coscienza.

La via iniziatica non è una via rituale, o devozionale. Ma è un processo di trasformazione che avviene attraverso il fuoco della consapevolezza, che comincia con l’illuminare il proprio inferno interiore (il subconscio), dove si scende alfine di liberarne le potenzialità represse.

Questo Viaggio comincia per “conoscere se stessi”, come era inciso sui frontoni dei Templi dedicati ai Misteri. Recuperare questa antica idea potrebbe essere il pensiero nuovo che produrrà una frattura con il modo in cui oggi si elaborano le verità del mondo profano.

Verità in cui siamo ma nelle quali, per fortuna, non ci riconosciamo.

000 Athos

2 settembre 2007

Antonio scrive:

Caro Athos,

Ancora una volta mi fa molto piacere questo scambio d’idee per riuscire a definire le nostre reciproche posizioni; anzi, sarebbe interessante se nel dibattito intervenissero altri membri di Esonet.

Personalmente licenzierei non soltanto le verità assolute delle religioni, ma anche tutte le altre pretese verità «assolute» delle scienze, della metafisica, ecc. Ma possiamo ancora oggi credere all’esistenza di verità «assolute»? Credo di no.

Esiste un paradigma scientifico che più si approssima alla spiegazione dell’evoluzione del genere umano: il neo-darwinismo, versione aggiornata della vecchia dottrina evoluzionistica. Per il momento è la dottrina che più «verosimilmente» ricostruisce il cammino dell’homo sapiens sapiens, e fornisce risposte convincenti sotto il profilo scientifico. Forse tra un anno o due sarà confutata e scartata. Ma questo è il destino della scienza e anche del pensiero critico. Quando questa evenienza si sarà verificata, saremo autorizzati a sostenere che il neo-darwinismo è una dottrina superata ed erronea. Ma per il momento, finché regge all’impatto critico, è valida. Finché non si dimostra, fino a prova contraria, che è errata, la dottrina «neo-darwiniana» è vera. Naturalmente non per questo è «assoluta». Ecco perché esistono soltanto verità relative.

Con Nietzsche, «non esistono fatti, ma solo interpretazioni. E forse anche questa è un’interpretazione». Ma questo non deve scoraggiare un pensiero che voglia ancora dirsi teoretico. Nella Critica della Ragion Pura, Kant introduce la distinzione tra fenomeno e noumeno (la cosa in sé). Per Kant l’intelletto possiede soltanto un uso empirico dei concetti a priori, limitato all’esperienza. Ma non possiede un uso trascendente, al di là dell’esperienza, degli stessi. Può applicare i concetti a priori solo ai fenomeni, ma non ai noumeni. La cosa in sé, il noumeno, può essere pensato soltanto in senso negativo, come qualcosa di cui non possiamo avere alcuna intuizione «attiva»: né sensibile, né intellettuale. Nondimeno il noumeno serve a circoscrivere il campo della nostra sensibilità, ponendosi come un «concetto-limite».

In altre parole, del noumeno, della cosa in sé, si può solo postulare l’esistenza, necessaria per definire i limiti della conoscenza. Ma non possiamo conoscerne l’essenza, la natura. La nostra conoscenza si ferma al fenomeno.

Sarebbe fantastico se contemplando la cosa in sé, riuscissimo a liberarci della nostra soggettività, da noi stessi, dalle nostre opinioni. In realtà è un compito pressoché impossibile, se non come possibili stati mistici periodici dell’individuo. Ricorderai il principio d’indeterminazione di Heisenberg, per il quale l’oggetto fisico osservato è influenzato dallo stesso osservatore. Soltanto le modalità con cui si attivano le facoltà percettive o intellettive risentono della dimensione prospettica o psicologica del soggetto osservatore. La prova empirica di quanto sto dicendo è offerta dall’impossibilità di ricostruire una scena del delitto univoca ed attendibile attraverso le testimonianze degli osservatori. Ciascun testimone fornirà una versione diversa dell’accaduto e della dinamica dei fatti.

La distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno si ritrova, sotto categorie diverse, in tutta la filosofia indiana: nirvana/samsara, maya/moksha, prakriti/purusha, ecc. Ma senza la possibilità di una «Liberazione», che del resto anche in India è appannaggio di pochissimi.

Molto difficile per chi «vive-nel-mondo», nella vita mondana. Più frequente per chi ha scelto la vita contemplativa. Come evenienza può verificarsi saltuariamente, Freud parlava di «sentimento oceanico», Jung di fenomeni «sincronici», soprattutto attraverso l’arte, la vera «partecipazione mistica» del mondo contemporaneo. Ma anche per chi segue un ideale di vita contemplativa, la surmodernità è sempre in agguato.

Hermann Hesse ha trattato più volte, attraverso i protagonisti dei suoi romanzi, l’impossibilità di resistere al flusso vitale del divenire, alla vita che scorre. Ricordo anche due narrazioni filmiche asiatiche sull’argomento: Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003) di Kim Ki-duk e Samsara (2001) di Pan Nalin. I protagonisti dei film sono due giovani monaci che cedendo a kama, al desiderio, infrangono il dharma per l’amore sensuale. Naturalmente, potrebbe trattarsi della narrazione filmica di due casi contingenti, dove proprio la peculiarità delle vicende si erge a materia di riflessione.

Sennonché mi sembra che l’Oriente tradizionale ormai esista soltanto nei libri. L’islam spirituale e mistico, purtroppo, non riesce a fare valere la sua voce tra salafitismo e fondamentalismo; l’India ormai è una potenza capitalistica a livello mondiale, dove la sinergia con altri paesi, come la Cina («Cindia»), è avallata per ragioni di partnership economica più che per ragioni spirituali. Forse l’ultimo fuoco della tradizione arde nel Tibet e in alcune civiltà «primitive». Tutto questo è solo frutto del dominio della ragione scientifica versus la conoscenza metafisica? È improbabile che questa sia la chiave di lettura più proficua, fermo restando che vi sono molteplici interpretazioni nella storia dello spirito. Mi sembra, con Heidegger, che il nichilismo sia il destino della storia della metafisica occidentale e non la sua negazione. Nella storia della metafisica, così come elaborata in Che cos’è la metafisica?, Heidegger rintraccia l’errore fondamentale del pensiero nel mito della caverna di Platone che determina una serie di fraintendimenti epocali: «idea» (Platone), energeia (Aristotele), ens creatum (cristianesimo), soggetto (Descartes), monade (Leibniz), spirito (Hegel), volontà di potenza (Nietzsche), fino al gestell, della tecnica contemporanea.

Molti cultori contemporanei di dottrine esoteriche o gnostiche continuano a pensare ad un «Centro», ad una dimensione ideale dello Spirito ipostatica e contrapposta alla sfera del divenire. La classica dicotomia platonica tra mondo «vero» e mondo «apparente», già sconfessata abbondantemente da Nietzsche. L’errore metafisico fondamentale è di pensare ad una «verità», ad un centro metafisico strutturandolo nella sola dimensione dello spazio. Ma il «trascendente» non può essere semplicemente presente allo sguardo dell’uomo. È allora necessario ripensare l’essere (il «trascendente», «Dio»), come uno svelarsi che nel darsi si ritrae e sottrae alla presa antropocentrica della metafisica occidentale.

Pensare dopo Heidegger significa pensare l’essere, non soltanto come spazio, ma anche come tempo. Pensare la radura nella quale ogni tanto l’esser-ci (l’uomo) si viene a trovare. Semplificando, l’essere si manifesta in modo diverso nelle diverse epoche, assecondando l’essenza dell’uomo che si declina storicamente. Non è possibile pensare oggi la metafisica alla maniera di un platonico o di un teosofo del seicento, perché non soltanto il soggetto non è più lo stesso, ma non lo è neanche l’oggetto.

La modalità con cui si deve pensare l’essere, con cui la metafisica viene a compimento nell’era contemporanea è la tecnica. Ecco perché, nel mio piccolo, sto cercando di pensare le correlazioni tra cyberspazio ed immaginale. Ma forse per il momento è meglio fermarsi e rinviare gli ulteriori approfondimenti ad un’altra occasione.

Caro amico ti saluto cordialmente,

000 Antonio

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