L’obiettivo specifico di questo saggio è quello di configurare il complesso di Cibele e la teoria della mente postanalitica all’interno di un confronto sinottico interdisciplinare. Questo nostro obiettivo viene suffragato dal fatto che i termini teorici postanalitici hanno avuto una vasta eco, grazie, alla pubblicazione del primo saggio postanalitico “La genesi della violenza in occidente”.
La dea Cibele, mito e complesso /1
di Mario Bulletti
Un ponte antropologico dalla preistoria ai nostri tempi.
Sommario: 1. I presupposti della postanalisi – 2. Breve introduzione al metodo postanalitico – 3. Gli antefatti – 4. Analogie fra il caso A con quello dei vissuti freudiani – 5. L’esiodea Gaia e la frigia Cibele: due espressioni ambivalenti del mito della Grande Madre – 6. I seicento anni del culto di Cibele a Roma – 7. Il tempio romano del Pantheon e Cibele – 8. L’analogia distorta fra il mito di Cibele e la teologia del cristianesimo – 9. Cibele e la psicosi – 10. La Cibele dell’indagine post analitica – 11. Dal pacifico matriarcato monoteista all’aggressivo patriarcato politeista pagano – Appendice
1. I presupposti della postanalisi
Il complesso di Cibele, il metodo d’indagine postanalitico e la teoria della mente ad esso relativa sono oramai un’acquisizione riconosciuta a livello internazionale.
L’obiettivo specifico di questo saggio è quello di configurare il complesso di Cibele e la teoria della mente postanalitica all’interno di un confronto sinottico interdisciplinare. Questo nostro obiettivo viene suffragato dal fatto che i termini teorici postanalitici hanno avuto una vasta eco, grazie, alla pubblicazione del primo saggio postanalitico “La genesi della violenza in occidente”.
L’obiettivo del confronto sinottico interdisciplinare, certamente non facile da raggiungere, verrà iterato, in questo saggio, mettendo in rapporto fra di loro teorizzazioni quali quella del filosofo presocratico della natura, Eraclito da Efeso con la semantica etimologica, il mito e la letteratura classica, la psicoanalisi freudiana, l’antropologia di scuola gimbutiana, la fisica einsteiniana e le sue attuali elaborazioni, la neuro-fisiologia macleaniana e, non per ultima, la simbolica esoterica.
Il quadro desumibile da tale confronto si presenta legato a tutta una serie di fattori che attualmente possono essere definiti come incommensurabili e perciò evidenziabili con maggior precisione solo durante il cammino di questa ricerca. Un cammino, una teorizzazione estremamente perigliosi i cui passaggi sono stati definiti dal filosofo francese Pierre Duhem e così compendiati dall’eminente fisico teorico Pietro Greco [1]: “il processo che coinvolge la teoria nella spiegazione di un fenomeno naturale sottoposto ad osservazione consiste, secondo il filosofo francese, di almeno quattro diversi passaggi: 1) la definizione e la misura delle grandezze fisiche coinvolte; 2) la scelta delle ipotesi di spiegazione ; 3) lo sviluppo matematico della teoria; 4) il confronto della teoria con l’esperienza (esperimento). L’ultimo passaggio è l’unico che possa servire come criterio per stabilire la verità della teoria scientifica proposta. Tenendo presente che in ogni caso si tratta di una verità provvisoria.
Una verità provvisoria che si rivela piuttosto come uno stato di precarietà sul quale lo scienziato, più che cercare di attingere alla verità, cerca di ‘salvare i fenomeni’. Da notare, ancora, che secondo Duhem la teoria è,in qualche modo, un’ipotesi scientifica matura, cioè matematizzata. E da notare, infine, che queste definizioni, per quanto articolate, ancora nulla ci dicono su come gli scienziati elaborano le teorie (psicologia della scoperta scientifica) e, soprattutto come le teorie si relazionano ai fenomeni della natura.” [2]
Nello specifico la risposta al quesito in quale modo avvenga la scoperta scientifica è oltremodo vasta e perigliosa. È la stessa risposta che tende a svelare, al di là della tecnica e della matematica, le dinamiche della creatività artistica. Per tal motivo è proprio la creatività, che si esprime in ognuno di noi, ma in maniera differente, che diviene il soggetto pensante nel quale si riflettono incommensurabilmente sia il dato di fatto che l’espressione della creatività stessa. Nella prassi ogni ricerca che vuole attribuirsi il crisma della scientificità, è obbligata al superamento di prove e tentativi, inizialmente, imprevedibili. Di fatto è ciò che ribadisce l’eminente semiologo Umberto Eco [3]: “La scienza moderna […] si fonda sul principio del fallibilismo (già enunciato da Peirce, ripreso da Popper e da tanti altri teorici, e messo in pratica dai pratici) per cui la scienza procede correggendo continuamente se stessa, falsificando le sue ipotesi, per “trial and error” (tentativi ed errori), ammettendo i propri sbagli e considerando che un esperimento andato a male non sia un fallimento, ma valga tanto quanto un esperimento andato bene, perchè prova che una certa via che si stava battendo era sbagliata e bisogna o correggere o ricominciare da capo” [4]. È indubbio quindi che la ricerca segua una via che, sotto il profilo matematico può essere definita come giroscopica od auto-regolatrice attraverso quel metaforico “asse di simmetria” [5] che potremmo identificare nello pseudonimo della verità scientifica. Ed ancora indubbio è che, all’interno dell’itinerazione o dello svolgimento di ogni ricerca che segue un obbiettivo tematico, sia necessaria pure una certa dose di Fortuna. Una Fortuna od un caso fortunato che, per “induzione”, sono in grado di superare la perigliosità o l’asprezza del cammino della ricerca stessa. Una Fortuna, o meglio una Buona Fortuna, che si presenta quindi, in sé e per sé, come l’attore inconscio che si muove dietro le quinte di ogni palcoscenico esistenziale. Nei fatti, uno degli obiettivi di questa ricerca, si spinge nel tentativo di fornire una definizione conscia o razionale del reale oggettivo specifico nel quale si rispecchino le dinamiche trascendenti della ricerca stessa. Una trascendenza legata chiaramente a quel risalire graduale dell’intuizione inconscia o istintuale verso la coscienza ed il reale. Una meta questa, nella quale il fenomeno si presenta infine in tutta la sua chiarezza.
Quindi il tentativo teso a raggiungere questa meta, o sintesi insita nel confronto interdisciplinare, si protenderà verso il fine di operare l’analisi del fattore inconscio ed imprevedibile della Fortuna. Un fattore, che si presenta come un vero e proprio “pregiudizio metafisico” [6], che ha come sua base la nostra entità psicofisica o biosociale, secondo la delineazione teoretica einsteiniana. Un istinto, quello dell’elaborazione del “pregiudizio metafisico”, che si pone come base epistemologica per ogni filosofia naturale, di cui proprio Albert Einstein è senza dubbio la figura più rappresentativa ed eminente del XX sec. Le sue riflessioni epistemologiche, in quanto filosofo della natura e filosofo della scienza, sono descritte ed enucleate nei contenuti del testo della conferenza “Herbert Spencer Lecture” da lui tenuta ad Oxford il 10 giugno del 1933. I principi in essa contenuti descrivono il cammino seguito al fine del raggiungimento di un obiettivo fin qui, anche da noi, dispiegato.
Questa conferenza costituisce indubbiamente, secondo il fisico Philipp Frank, la più elegante esposizione dei suoi punti di vista circa la natura di una teoria fisica. L’insieme concatenato di concetti, principi e leggi esposti in tale contesto da Albert Einstein, è così tradotto e compendiato dall’eminente fisico Pietro Greco: “Sono convinto, sostiene il fisico tedesco a mo’ di premessa nella sua Herbert Spencer Lecture, che una realtà fisica oggettiva esista. Sono pienamente convinto, inoltre, che esista anche una via corretta per giungere a conoscere la realtà fisica oggettiva e, soprattutto, sono convinto che «noi siamo in grado di trovarla», quella via corretta. Siamo in grado cioè di elaborare teorie che descrivano compiutamente la realtà oggettiva. Nulla, in linea di principio, impedisce dunque all’uomo di conoscere le leggi generali della natura e di conoscere, in ogni suo aspetto, la realtà naturale oggettiva. La teoria scientifica non è altro che lo strumento con cui lo scienziato tenta di afferrare la realtà oggettiva. Va da se che l’impresa non è affatto semplice. Perché non è possibile trovare quella strada (cioè elaborare una teoria fisica) per induzione, attraverso l’analisi dei fatti noti. Questi fatti sono così numerosi e, spesso, così confusi, che c’è il bisogno di filtri indipendenti e potenti per selezionarli e, correttamente, interpretarli. Questi filtri, indipendenti e potenti, sono le teorie fisiche. Le teorie fisiche non sono scoperte di una verità nascosta, ma libere creazioni della mente dell’uomo. Intuizioni. Cosicché, il filtro indipendente e potente che ci consente di interpretare i fatti per intuizione e, comunque, seguendo una logica mai induttiva ma sempre ipotetico-deduttiva (deduzione), altro non è che una visione del mondo. Un pregiudizio metafisico. Noi intuiamo ed elaboriamo teorie fisiche, dunque, sulla base di pregiudizi metafisici. Naturalmente nulla ci garantisce che la teoria elaborata attraverso l’intuizione, ovvero la libera creatività della mente, sia giusta oppure sia la corretta via. Tuttavia abbiamo un modo efficiente per collaudare, a posteriori, la correttezza della via imboccata: la teoria deve aderire ai fatti noti e prevederne di nuovi da raccogliere. La teoria non può entrare in contrasto coi fatti, pena il suo immediato decadimento. Tuttavia anche le teorie che interpretano pienamente e, talvolta , mirabilmente i fatti possono essere false, o almeno non corrette. È questo il caso della meccanica newtoniana che interpreta bene, anzi in modo mirabile, gran parte dei fatti sperimentali, sebbene non colga la natura intima delle materia. La meccanica newtoniana si è trovata in alternativa alla relatività generale per un certo tempo, continua Einstein, prima che emergessero fatti decisivi a favore della mia teoria. In altri termini, noi non sappiamo se la teoria fisica attuale con cui interpretiamo un certo numero di fatti noti, o magari tutti i fatti noti, è una teoria corretta. Potremmo sempre trovarci di fronte a una teoria efficiente, ancorché scorretta o incompleta. A questo punto diventa lecito porsi la domanda se potremmo mai sperare di trovarla, la via corretta. Anzi, è giusto chiedersi o, comunque, non considerare banale chiedersi, se esista davvero una via corretta, oltre le nostre illusioni. Io, sostiene ancora Einstein, credo che la via corretta esista: al di là delle nostre illusioni. E che sia anche possibile trovarla. Certo, non esiste un metodo standard per scovarla, quell’unica via corretta. Ovvero, non esiste un metodo standard per elaborare teorie fisiche. Tuttavia esistono dei principi che possono indirizzarci verso la giusta strada. Si tratta di principi non codificati. Non dimostrati, ne dimostrabili. Si tratta appunto, di pre-giudizi, il cui carattere è puramente metafisico.” [7]
Di conseguenza i principi non codificati, non dimostrati, né dimostrabili, sono i fattori costituenti che tenteremo di far emergere durante il cammino e la teorizzazione degli obiettivi della ricerca postanalitica. Una ricerca all’interno della quale viene costantemente operato, come in un’autoanalisi, il tentativo di una focalizzazione di un evento imprescindibile, come il “pregiudizio metafisico”, ossia quello imperscrutabile della Buona Fortuna.
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1. Direttore del Master in Comunicazione della Scienza presso la scuola Internazione Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste-(Italia). (torna al testo)
2. P. Greco, Einstein e il ciabattino, Editori Riuniti, Roma, 2002, Voce: teoria, pp. 525, 526. (torna al testo)
3. Presidente della scuola Superiore di Studi Umanistici, Ordinario di Semiotica, Università di Bologna. (torna al testo)
4. U. Eco, Provare e riprovare, in La bustina di Minerva, “l’Espresso”, 29 luglio 2004. (torna al testo)
5. La nuova Enciclopedia Garzanti delle Scienze, Garzanti, Milano, 1996, Voce: Giroscopio, p. 704. (torna al testo)
6. A. Einstein, Herbert Spencer Lecture, Oxford, 10 giugno 1933. (torna al testo)
7. P. Greco, Einstein e il ciabattino, Editori Riuniti, Roma2002, Voce: teoria, pp. 526. (torna al testo)
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2. Breve introduzione al metodo postanalitico
Gli scritti e la tecnica d’indagine postanalitica hanno avuto numerose recensioni. Fra le tante citeremo quella del prof. Gianni Ribaldi [8], già ordinario presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova, nelle discipline di: Teorie della personalità, Psicologia della personalità e delle differenze individuali, Psicologia generale e della personalità, Psicologia applicata.
Scrive l’illustre psicoclinico a proposito dell’attività di Mario Bulletti: “Possiede una coerente epistemologia, una severità etica, una sensibilità clinica; ha scoperto una originale ed emotiva strada per svelare «l’origine psicoanalitica» ed è come una fonte inesauribile la cui capacità potenziale può superare i limiti di alcuni teoremi freudiani, per andare verso nuovi e affascinanti orizzonti. La postanalisi di fatto è un messaggio ed un modello per dare un senso sistemico in questa prospettiva. La postanalisi collega elementi antropologici, simbolici, filosofici, psicosociali, psicodinamici, storici, poetici, politologici, ed infine clinici in un sistema coerente in cui scopre una nuova interpretazione nei misteri della mente; apre una strada creativa della cura, la sola motivazione e traguardo di ogni vero analista”.
Nei fatti la metodologia dell’indagine postanalitica, oltre che a seguire i collegamenti enumerati dall’illustre psicoclinico, prof. Gianni Tibaldi, segue a grandi linee i canoni della psicologia dinamica freudiana. Si differenzia fondamentalmente da quest’ultima individuando il nucleo delle nevrosi nel complesso di Cibele e non in quello del pre-Edipo [9], come nell’ultima revisione operata dal padre della psicoanalisi. Ad ulteriore distinzione, in postanalisi, la genesi di tutte le fissazioni psicopatologiche funzionali, quali le psicosi e quelle della endiadi nevrosi-perversione, è da far risalire al complesso di Cibele che ne diviene, nella nuova realtà oggettiva, il vero nucleo.
La tecnica postanalitica, del soggetto disteso sul lettino al buio, segue il metodo dell’originale procedimento majeutico. Nei fatti, inerenti a tale metodica, fu proprio il filosofo greco Socrate ad utilizzare per primo la tecnica del divano utilizzata in psicoanalisi e poi anche dalla postanalisi; infatti, anche secondo l’illustre storico della psicologia, Peter R. Hofstätter: “Il procedimento psicoanalitico si rivela ancora sorprendentemente simile ad un metodo curativo in uso nel mondo dell’antica Grecia, tramandatoci da una caricatura che Aristofane ne fa nella commedia «Le nuvole» (intorno al 425 a.C.), dove attribuisce tale pratica a Socrate” [10]. La postanalisi non si fa quindi il vanto dell’originalità in questo specifico e fondamentale procedimento tecnico dell’analisi eseguita al buio con il soggetto disteso sul divano. Tale procedimento, come nell’esemplificazione comica della parodia di Aristofane, vedeva Socrate, già ventitre secoli prima di Sigmund Freud, applicare paradossalmente sul soggetto strepsiade, la tecnica poi ripresa da Sigmund Freud. Per tal motivo si può affermare che nessuno può vantare od attribuire a se ciò che veniva già praticato come tecnica di analisi della mente già ventiquattro secoli fa in Grecia. Inoltre, nel metodo utilizzato nell’indagine postanalitica, lo psicoterapeuta agisce come un vero e proprio specchio psicologico nei confronti del soggetto in analisi. Si tratta di una dinamica analoga a quella dello specchio fisico, durante la quale ogni persona può osservare quelle parti del proprio corpo non visualizzabili se non con uno specchio. In coerente analogia lo specchio psicologico dello psicoterapeuta evidenzia, per il soggetto in analisi, quei particolari di se che il soggetto stesso non riesce a visualizzare. Utilizzando la dialettica della psicologia comportamentale, potremmo affermare che tale impostazione, rende attivo l’insieme dell’apparato dei “neuroni specchio”. Ciò a cui ci riferiamo è stato rilevato dal prof. Giacomo Rizzolatti, dell’Università di Parma, che: “ha scoperto speciali neuroni della corteccia premotoria che si attivano quando una scimmia esegue un preciso compito con la mano, per esempio portarsi alla bocca un’arachide. La cosa straordinaria è che gli stessi neuroni si attivano quando l’animale osserva un simile (o addirittura una persona) compiere la stessa azione. Rizzolatti ha chiamato queste cellule “neuroni specchio”, suggerendo che essi ci offrono un spiegazione per l’imitazione, l’identificazione, l’empatia e la possibilità di imitare la vocalizzazione, tutti processi mentali inconsci propri delle interazioni tra le persone” [11]. In postanalisi l’empatia evocata attraverso i “neuroni specchio” viene utilizzata per accelerare la focalizzazione dei “processi mentali inconsci”, accentuando, di conseguenza, il processo di razionalizzazione degli stessi. Viene utilizzata inoltre, di concerto, una tecnica specifica quale quella collaudata da: “W. Stekel e dalla scuola di F. Alexander a Chicago (“terapia attiva”): il terapeuta interviene nel processo avanzando le interpretazioni che il paziente non sia ancora riuscito a trovare” [12].
Inoltre a partire dall’ottobre del 1983 ad oggi, ogni seduta viene registrata su magnetofono. Il soggetto in analisi, diviene, subito dopo la registrazione, possessore dell’audio cassetta. Si impegna a riascoltarla e a studiarla, seguendo anche i precisi dettami suggeriti dal postanalista.
Di fatto, il medesimo, dopo aver eseguito il suo lavoro di trascrizione di appunti, osservazione, correzione di eventuali imprecisioni ed elaborazioni sulla seduta medesima, produrrà le risultanti dell’insieme della propria autoanalisi nella seduta successiva.
In tal modo si aumenta la possibilità di verifica, controllo e revisione sullo svolgimento di ogni seduta, attivando un sillogismo, il cui fine è quello di aumentare metodicamente efficienza ed efficacia del trattamento terapeutico. Un incremento avente come risultante la diminuzione del numero di sedute necessarie per il raggiungimento del buon fine della psicoterapia stessa. Il soggetto in analisi potrà in tal modo giungere in tempi più brevi all’autonomia. Un’autonomia resa possibile dal graduale costante processo di apprendimento dell’autoanalisi indotto durante il trattamento postanalitico. Di pari passo il metodo di indagine postanalitico si precisa concentrandosi nel processo didattico che diviene il punto di forza del procedimento postanalitico. Queste strategie applicate “in continuo” permettono alla dialettica postanalitica un’iterazione terapeutica affidabile, anche se più breve, aumentandone i margini di sicurezza.
La strategia del processo didattico di apprendimento dell’autoanalisi si presenta sotto il profilo metodologico come un’evoluzione tecnica in linea con l’impostazione tracciata da Edgard Morin nella sua indagine sociologica a Plozevet: “le principe de la mèthode que j’ai utilisè e à Plodè met est de favoriser l’èmergence des donnè es concrètes, de saisir les rèalitè s humaines sous de diverses dimensions, de chercher […]” [13] (Il principio metodologico che ho utilizzato a Plodè met è di favorire l’emergenza di dati concreti, di comprendere la realtà umana sotto le sue dimensioni differenti, attraverso i dati raccolti). Ci precisa ancora al proposito: [14] (il corpo delle“Le corps des hypothèses ne peut être è tabli une fois pour toutes au terme d’une prèenquête […]” ipotesi non può essere fissato definitivamente dopo aver compiuto la ricerca iniziale). Pertanto l’apertura di Edgard Morin alla costituzione di ipotesi sempre nuove, visualizzate postanaliticamente, mediante l’applicazione di un metodo d’indagine costante focalizzato su ogni processo di apprendimento, si risolve nella verifica delle istanze emerse nella prèenquête ovvero in ogni prima seduta, a cui succederà sempre una seconda seduta di verifica perennemente attive nel loro succedersi. In sostanza, nelle sedute postanalitiche, la concatenazione logica dei vissuti e dei concetti viene continuamente verificata e dialetticamente rimessa in discussione attraverso una propositiva “attenzione selettiva” rivelandosi in tal modo estremamente performante. Nei fatti già da lungo tempo: “Francis Crick e Christof Koch, neuroscienziati del California Institute of Technology, hanno sostenuto, in modo persuasivo che l’attenzione selettiva non è solo un’importante area di indagine, ma anche un elemento fondamentale della coscienza” [15]. Quindi attraverso “l’attenzione selettiva” si passa dallo stadio inconscio a quello della coscienza, salendo il primo gradino di quella scala che conduce verso la prima meta di una nuova stabilità. Una stabilità che supera la conoscenza. Una conoscenza che il filosofo presocratico Eraclito da Efeso (ca. 550 – ca. 480 a.C.) definì come sapienza: “è necessario che gli uomini amanti della sapienza siano esperti / di moltissime cose (Fr. 35)” [16]. Una sapienza od una conoscenza che si rivelano inutili se non può essere raggiunta la meta della saggezza: “La saggezza è la virtù più grande, e la sapienza consiste nel / Dire cose vere e nell’agire avendo compreso la natura delle cose (Fr. 112)”. Nei fatti la sapienza eraclitea è da intendersi soprattutto come insieme di nozioni. Un insieme di nozioni che consiste nel conoscere lo statuto psicofisico dell’ordine naturale. La saggezza, perciò, è intesa invece come una significazione alla quale si accosta maggiormente il significato odierno attribuito alla sapienza.
Quindi nell’insieme tecnico postanalitico, si ha una percorrenza su tre livelli: nel primo, che potremmo definire metaforicamente come quello di un apprendistato, il soggetto in analisi ascolta il proprio inconscio. Nel secondo stadio, dopo aver sgrossato, attraverso una prima conoscenza o sapienza eraclitea, la propria coscienza, il soggetto si accinge a salire i gradini che lo condurranno alla svolta decisiva del terzo stadio. Infine nel terzo stadio si giungerà al cambiamento fondamentale consistente nell’operare con saggezza. Una saggezza che diverrà il significante emblematico di una nuova e dinamica armonia psicofisica. Un’armonia che, sebbene instabile, ognuno di noi deve continuamente finalizzare con maestranza. Quindi, riassumendo, si avrà un processo di apprendimento iniziale di percezione e poi di riconoscimento di un fenomeno. Un fenomeno che non potrà essere riconosciuto se prima non sarà stato percepito. Avremo quindi di seguito che dal processo di conoscenza si passerà gradualmente a quello della presa di coscienza ed infine alla costituzione di una “realtà oggettiva” saggiamente verificata. Questa breve introduzione all’insieme metodologico della psicoterapia postanalitica, utilizzato fin dall’ottobre del 1983 a tutt’oggi, ha dimostrato ampiamente la sua efficace efficienza sul 90% dei casi in analisi. Il bacino di utenza, all’87,5% privato, con soggetto pagante, è costituito a tutt’oggi da circa 3000 casi analizzati di cui il 55% di sesso femminile ed il restante 45% di sesso maschile, per un totale di circa 24000 ore di psicoterapia. La verifica delle tesi postanalitiche è stata eseguita in tre continenti nello svolgimento dell’attività praticata in Europa e più precisamente a Louvain-La-Neuve (Belgio), Ginevra (Svizzera), Perugia (Italia); in Africa: Casablanca (Marocco), Dakar (Senegal); ed in Nord America; Los Angeles (California), Miami (Florida). Durante tale verifica è stata sempre riscontrata la presenza del complesso di Cibele, visualizzabile in varie forme dinamiche addirittura antitetiche ma combacianti anche agli antipodi più estremi. Una presenza però globale di cui la nuova psicologia del prossimo futuro, sia dinamica che comportamentale, non potrà ignorare la realtà.
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8. Rappresentante in Italia della “UNDL Foundation”, “Universal Networking Digital Language” (ONU), Palais des Nations, di Genève; Presidente di “Glocalimage”; Membro del Consiglio Direttivo della “Union des Associations Internationals”, Bruxelles. (torna al testo)
9. S. Freud, in Opere, Boringhieri,Torino, 1979, Sessualità femminile (1931), vol. XI, p. 64. “Con ciò la fase preedipica della donna acquista un significato che finora non le avevamo attribuito. Poiché in tale fase vi è spazio per tutte le fissazioni e rimozioni alle quali siamo soliti ricondurre il sorgere delle nevrosi, pare necessario ritrattare la validità generale della tesi che il complesso edipico sia il nucleo della nevrosi.” (torna al testo)
10. P. R. Hofstätter, Psicologia, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 268. (torna al testo)
11. E. R. Kandel, La nuova scienza della mente, in MENTE & CERVELLO, n. 23, settembre/ottobre 2006, gruppo editoriale L’Espresso, Roma, p. 71. (torna al testo)
12. P. R. Hofstätter, Psicologia, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 269. (torna al testo)
13. E. Morin, La Métamorphose de Plozevet Commune en France, Fayard, 1967, p.394. (torna al testo)
14. E. Morin, La Métamorphose de Plozevet Commune en France, Fayard, 1967, p.394. (torna al testo)
15. E. R. Kandel, La nuova scienza della mente, in MENTE & CERVELLO, n. 23, settembre/ottobre 2006, gruppo editoriale L’Espresso, Roma, p. 70. (torna al testo)
16. Eeraclito, I Frammenti, a cura di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano, 1989. (torna al testo)
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3. Gli antefatti
Nell’ottobre dell’anno 1983, terminati gli studi in scienze familiari e sessuologiche presso la facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Lovanio (Belgio) iniziai il mio lavoro di psicoterapeuta nello studio di Perugia situato al numero 68 di via Gallenga. Tra gli utensili utilizzati per l’indagine psicologica, vi era quello del complesso di Edipo notoriamente evidenziato nella teorizzazione psicoanalitica freudiana. Proprio in questo periodo si presentò nel mio studio una coppia di maturi coniugi perugini che avevano un grave problema di relazione con la figlia. Era soprattutto la madre che chiedeva un aiuto allo psicologo al fine di convincere la figlia ad abbandonare la sua relazione sentimentale con il proprio fidanzato. Interdetto da tale richiesta convocai la ragazza in questione. Si trattava di una giovane donna dell’età di trentadue anni che mi raccontò di aver avuto diversi fidanzati con i quali aveva sempre dovuto rompere la sua relazione, in conseguenza della reiterata disapprovazione della madre. Una disapprovazione che giungeva fino alla violenza fisica, fatta agire dalla madre stessa attraverso il braccio del padre. La ragazza, dal canto suo, sembrava decisa, sul momento, ad opporsi ai voleri della madre. La figura del padre, all’interno del quadro familiare, si mostrava estremamente remissiva, interpretando lo stesso un ruolo secondario di sottomissione, avendo come unica funzione quella di fornire un sottomesso supporto alle decisioni della coniuge. Riconvocata la coppia parentale, la madre affermò con decisione che la scelta affettiva della figlia era sbagliata, senza alcuna possibilità di appello. Il padre, da parte sua, nell’esprimere il proprio parere in merito alla questione, mostrò solo qualche lievissima perplessità nei confronti della linea seguita dalla moglie. Argomentò, con un bisbiglio sommesso: “Questa povera figlia, così come stanno le cose, non potrà mai farsi una famiglia…”. Questa sua perplessità fu però immediatamente e brutalmente censurata dalla coniuge che lo mise all’istante, con un secco diniego verbale, fuori causa.
Tutte le argomentazioni dell’uomo che si presentarono in seguito, furono rigettate con veemenza. La donna concluse platealmente affermando che era stata lei e solo lei, inconfutabilmente, a portare il peso della figlia per nove mesi e a partorirla con grande sofferenza. In tale affermazione di possesso nei confronti della figlia e, contemporaneamente, di “reiezione” [17] nei confronti del padre, la madre “precludeva” [18] il ruolo paterno del marito che veniva in tal modo completamente “estraniato” [19]. Così facendo la donna affermava il suo potere sovrano ed inconfutabile sul destino della figlia. Diveniva così palesemente l’unico ente generante, proclamando in tal modo la sua partenogenesi. Una partenogenesi legata anticamente al concetto della divinità materna.
Una posizione cultuale che fu in anteprima matriarcale. Una posizione che si ripropose, millenni dopo, in analogo ed in reduplicato, nella società patriarcale attraverso il culto divinizzante del genio dell’imperatore. [20]
Cercai a tal punto di ricondurre positivamente alla ragione quella donna così fortemente volitiva, compiendo però in tal modo un errore dovuto all’inesperienza. Il tentativo da me condotto ebbe inizio utilizzando una strategia non direttiva. Una metodica tesa a far emergere le dinamiche attive, traslate in negativo [21] nella circostanza. Il risultato fallimentare non si fece attendere. Infatti la donna, come intuì che poteva attivarsi una benché minima censura, anche indiretta, che potesse mettere in questione la sua dialettica pulsionale così nefanda [22], di cui era perfettamente cosciente, interruppe immediatamente il suo rapporto con lo psicologo. Dalla figlia, rimasta in contatto con me, seppi in un secondo tempo, che la madre si recò, accompagnata dal padre, nella casa del fidanzato con cui la stessa conviveva. In tale occasione il padre, reso “furente di rabbia” [23] (cifr. G.V. Catullus) dalla moglie, malmenò pesantemente la figlia che poi costrinse a salire, sempre con violenza, nell’auto dove l’aspettava la madre. La madre, a sua volta, aggrediva e neutralizzava verbalmente con pesanti insulti il fidanzato che, uscito dalla sua abitazione, voleva prestare quello che sarà un inutile soccorso alla ragazza. La storia si concluse in un definitivo accasamento forzato della figlia che rimase sottomessa, come direbbe Catullo, “per tutta la vita” ai voleri della madre. Riportata in tal modo la figlia a casa, la stessa si piegò ancora una volta alla volontà della madre divenendo in modo definitivo colei che potremmo descrivere letteralmente o poeticamente come “ancella della dea” [24] madre. Una madre che potremmo descrivere, ora, senza alcuna ombra di dubbio, come una madre cibelica.
Attualmente, eseguendo una verifica di accertamento, sono stato aggiornato dalla non più giovane figlia, oramai cinquantaseienne, che la stessa vive ancora con la vecchissima madre rimasta vedova pochi anni dopo l’evento da me narrato. La matriarca, come mi riferisce la figlia, sentenziava e sentenzia ancora attualmente: “fino a che vivo starai con me, dopo la mia morte farai quello che vuoi”. Possiamo dire che questo enunciato sancisce l’epitaffio conclusivo e definitivo dell’evirazione operata sulla figlia. A tutt’oggi quella madre, al dire della figlia stessa, non ha perso ne lucidità mentale né veemenza.
Questo caso emblematico, proprio grazie all’insuccesso terapeutico, diventerà per me soggetto fondamentale di studio. Venne da me registrato come caso A e divenne il motore di quello studio pluridisciplinare che mi porterà a formulare la teorizzazione del complesso di Cibele.
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17. Laplanche-Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, PUF, Paris, 1990, FORCLUSION, p. 163.
Forclusion: “D.: Verwerfung. – En .: repudation o foreclosure. – Es .: repudio. – I .: reiezione. – P .: rejeção o repùdio.
Terme introduit par Jaques Lacan: mécanisme spécifique qui serait à l’origine du fait psychotique.” (torna al testo)
18. Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1984, PRECLUSIONE, p. 393.
Preclusione: “D.: Verwerf ung. – En .: repudation o foreclosure. – Es .: repudio. – I .: reiezione. – P .: rejeção o repùdio.”
“Termine introdotto da Jaques Lacan: meccanismo specifico che sarebbe all’origine del fatto psicotico”. (torna al testo)
19. R. Tannahill, Storia dei costumi sessuali, Rizzoli, Milano, 1985, p. 34. ”una donna di una tribù aborigena australiana, dopo che le era stato spiegato come vanno le cose secondo gli occidentali, si rifiutò nettamente di credere a ciò che le veniva detto: ‘lui non c’entra niente!’ disse sprezzante”. (torna al testo)
20. I. Mariotti, Storia e testi della letteratura latina, Da Tiberio a Traiano, Zanichelli, Bologna, 1983, p. 5. “Da Augusto Caligola riprese l’idea di un culto imperiale, ma l’attuò con giovanile eccesso e con l’inserzione di elementi orientali. Impose dichiaratamente alle comunità dell’impero, sia in Oriente che in Occidente e senza compromessi, il culto suo e dei suoi congiunti, collegandolo a quello solare: in ogni tempio di qualsiasi religione doveva essere collocata la sua effigie fra quella degli altri dei”. (torna al testo)
21. Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 610.
Transfert (o traslazione): “questo transfert di apprendimento è talora chiamato positivo, in opposizione a un transfert detto negativo che designa l’interferenza negativa di un primo apprendimento con un secondo (α)”. (torna al testo)
22. Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1984, Pulsioni di morte, pp. 464, 465.
Pulsioni di morte: “Nel quadro dell’ultima teoria freudiana delle pulsioni, designano una categoria fondamentale delle pulsioni che si oppongono alle pulsioni di vita e tendono alla riduzione completa delle tensioni, cioè a ricondurre l’essere vivente allo stato inorganico. Rivolte dapprima verso l’interno e tendenti all’autodistruzione, le pulsioni di morte verrebbero successivamente dirette verso l’esterno, manifestandosi allora sotto forma di pulsione di aggressione e di distruzione”. (torna al testo)
23. G. Valeri Catulli, Carmina, LXIII, Super alta vectus Attis celeri rate maria, traduzione a cura di G. Chiarini, Frassinelli, Milano, 1996. Vedi testo in appendice. (torna al testo)
24. G. Valeri Catulli, Carmina, LXIII, Super alta vectus Attis celeri rate maria, traduzione a cura di G. Chiarini, Frassinelli, Milano, 1996. (torna al testo)
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4. Analogie fra il caso A con quello dei vissuti freudiani
Il caso A fu per me un rivoluzionario soggetto di riflessione, che potrebbe essere definito come quello della tipica “fortuna del principiante”. Entrambi gli attori maschili, padre e fidanzato, si erano mostrati incapaci di opporsi alla ferrea volontà della donna: una madre che si mostrava reiteratamente dominante sulla vita affettiva della figlia. Entrambi gli uomini, marito e genero in erba, apparivano platealmente preclusi o reietti dalla potente volontà di quella donna. Una donna che esprimeva, in sé e per sé e pienamente, la figura di una madre così dominante da mostrarsi come un vero e proprio centro [25] ginocratico della vita familiare.
Scoprirò in seguito che anche la suocera di Sigmund Freud separerà, in conseguenza di un “raffinato capriccio”, “per lunghi anni”, le due figlie, Martha e Minna Bernays, dai rispettivi fidanzati. Infatti, scrivendo alla cognata Minna, il padre della psicoanalisi affermerà riguardo alla futura suocera: “Come madre, dovrebbe essere felice di sapere felici per quanto è possibile i suoi tre figli, e sacrificare i suoi desideri ai loro bisogni. Non lo fa, si lamenta di essere superflua, di essere trascurata, cosa di cui noi, per la verità, non le diamo alcun motivo, vuole trasferirsi ad Amburgo per una specie di raffinato capriccio, senza tener conto che, così facendo, separa te e Schönberg, e me e Martha per lunghi anni” [26]. Nell’evidenza dei fatti, la suocera di Sigmund Freud avrà lo stesso comportamento di separazione, sebbene meno cruento, agito dalla madre del caso A . Infatti mentre la madre del caso A attivava una palese forzatura fisica, la suocera di Sigmund Freud rendeva attiva una palese forzatura psicologica attraverso il suo “raffinato capriccio”. Quindi la forzatura si evidenziava come strategia privilegiata tesa a dividere ed allontanare le figlie dai rispettivi fidanzati. Una forzatura evidente nel primo caso, quello del caso A, mimetica nel secondo caso, quello freudiano, ma pur sempre espressione della volontà ginocratica di ogni madre cibelica. Con il lamentarsi di essere superflua e trascurata, attivava una tecnica molto più raffinata, quella sadico-passiva dell’algolagnia. [27]
Ignaz Schönberg, fidanzato della cognata Minna, si ribellerà alla suocera dicendole, come ci ha testimoniato proprio Sigmund Freud, che: “[…] è egoista, e che non ha trovato in lei la madre che cercava” [28]. Il risultato di tale ribellione vedrà, anni dopo, la separazione definitiva dei due fidanzati Ignaz Schönberg e Minna Bernays ed infine la convivenza della nubile cognata Minna in casa Freud [29]. Del ribelle Ignaz Schönberg, contrario ai voleri della suocera e vittima del conflitto con la stessa, non rimarrà più traccia. Il genero non gradito, o meglio forcluso dalla suocera, seguirà, anche se in modo più diplomatico, lo stesso destino di reiezione del fidanzato della figlia cibelizzata del caso A: sarà scancellato dalla vita della propria fidanzata.
Ritornando proprio al caso A, dopo l’evento del ratto della figlia, cominciai, giustamente, a nutrire dei dubbi sulle dinamiche edipiche. In questo caso non c’era una figlia innamorata del padre o un figlio innamorato della madre ma, in tutta evidenza, una madre ferocemente innamorata della figlia. Iniziai quindi a supporre che sia la fase preedipica che quella edipica fossero dirette e pilotate da questo complesso patologico evirante agito e diretto dalla madre. Un complesso che sarà finalmente messo in luce nel campo di indagine della postanalisi, con la nomenclatura di “complesso di Cibele”. Mi resi conto anche che il nucleo della nevrosi non era da ascrivere ne alla fase preedipica, come teorizzato dal padre della psicoanalisi solo nel 1931 [30], ne a quella edipica, ma all’interno del complesso di Cibele. Esso era il vero motore pulsionale nel quale, parafrasando proprio Sigmund Freud, potevano essere definite “la genesi di tutte le fissazioni e rimozioni alle quali siamo soliti ricondurre il sorgere delle nevrosi” [31]. A ciò noi potremmo aggiungere senza tema di smentita, ogni forma di psicopatologia, essendo incontestabilmente ogni madre il centro psico-fisico e spazio/temporale del concepimento di ogni essere umano.
La scoperta del complesso di Cibele ci ha permesso di coniare il termine “postanalisi” poiché, il campo di indagine della stessa, si pone in diretta successione concettuale al campo dell’indagine psicoanalitica freudiana.
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25. S. Freud, Epistolari, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, lettera del 21 febbraio 1883, pp. 31,32.
“Vi sono questioni serie che meritano di essere trattate diversamente. Probabilmente sai di che si tratta. La mamma ha deciso di andare ad Amburgo con te, prima di tutto per fare laggiù una ricognizione, poi per mettervi le tende. Schönberg le ha detto che è egoista, e che non ha trovato in lei la madre che cercava. Furono rotti i rapporti e ci fu grande ostilità. Voglio dirti subito che ho preso posizione, ma ti pregherei molto, se mi concedi una certa influenza in proposito, di non prenderne partito, nelle tue lettere, per la mamma, o di credere a tutte le sue lamentele che adesso senti su di noi. Ora non credere che io le sia ostile o abbia rinnegato l’alta opinione che ho di lei, oppure che i miei rapporti con lei siano meno affettuosi. Non credo di farle un torto; la vedo tra noi con una grande energia, spirituale e morale, capace di grandi cose, senza una traccia delle ridicole debolezze delle donne anziane, ma non si può fare a meno di riconoscere che essa prende posizione, contro noi tutti, come un uomo anziano. Per il fatto che la sua energia e il suo fascino hanno resistito così a lungo, esige ancora una piena partecipazione alla vita, e non da persona anziana, bensì vuole essere il centro , la dominatrice, il fine di tutto. Ogni uomo, giunto all’anzianità con tutti gli onori, vuole la stessa cosa, ma nella donna ciò è insolito. Come madre, dovrebbe essere felice di sapere felici per quanto è possibile i suoi tre figli, e sacrificare i suoi desideri ai loro bisogni. Non lo fa, si lamenta di essere superflua, di essere trascurata, cosa di cui noi, per la verità, non le diamo alcun motivo, vuole trasferirsi ad Amburgo per una specie di raffinato capriccio, senza tener conto che, così facendo, separa te e Schönberg, e me e Martha per lunghi anni.” (torna al testo)
26. S. Freud, Epistolari, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, lettera a Minna Bernays, del 21 febbraio 1883, p. 32. (torna al testo)
27. L.E. Hinsie – R. J. Campbell, Dizionario di Psichiatria, Astrolabio, 1979, p. 24.
“Piacere del dolore. Termine introdotto da Schrenck-Notzing per comprendere sia il sadismo che il masochismo. Il sadismo viene chiamato algolagnia attiva, mentre il masochismo algolagnia passiva.” (torna al testo)
28. S. Freud, Epistolari, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, lettera a Minna Bernays, del 21 febbraio 1883, p. 31. (torna al testo)
29. D. Berthelsen, Vita quotidiana in casa Freud, Garzanti, 1990, p. 25.
“[Paula, la collaboratrice domestica di casa Freud] Contrariamente alla moglie di Freud, la zia le appare ‘molto possessiva’. Paula si limita a prendere atto che la camera da letto di Minna è attigua a quella dei Freud e accessibile solo attraverso questa: evidentemente nelle case dei signori tutto è un po’ strano”. (torna al testo)
30. S. Freud, in Opere, Sessualità femminile (1931), vol. XI, p. 64.
“Con ciò la fase preedipica della donna acquista un significato che finora non le avevamo attribuito. Poiché in tale fase vi è spazio per tutte le fissazioni e rimozioni alle quali siamo soliti ricondurre il sorgere delle nevrosi, pare necessario ritrattare la validità generale della tesi che il complesso edipico sia il nucleo della nevrosi.” (torna al testo)
31. S. Freud, in Opere, Sessualità femminile (1931), vol. XI, p. 64. (torna al testo)
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5. L’esiodea Gaia e la frigia Cibele: due espressioni ambivalenti del mito della Grande Madre
La forza evirante della madre cibelica di quel mio primo caso, mi spinse a ricercare la figura mitologica più rappresentativa della madre evirante. Con mia grande meraviglia scoprii le icone di due dee che interagivano in parallelo fra di loro, esattamente come interagirono fra di loro la civiltà greca con quella romana. Queste divinità erano: l’esiodea Gaia o Gea: “… dall’ampio petto, sede sicura per sempre di tutti / gli immortali che tengono la vetta nevosa dell’Olimpo” [32] e l’anatolica “Mater deum” [33] Cibele. Seguendo il metodo dell’indagine postanalitica [34], le analogie all’interno del quadrinomio delle due dee si presentarono ben presto nella loro evidenza. In primo erano entrambe dee incestuose: di fatto nel narrato mitologico entrambe amavano i propri figli; figli amanti predestinati all’evirazione. Nella fattispecie avremo Urano [35] con la madre Gaia [36], ed Attis [37] con la madre Cibele [38]. Queste due divinità erano le matriarche indiscusse del Pantheon patriarcale pagano occidentale. Gaia rappresentata come metafora del “monte Olimpo” [39] e Cibele rappresentata come metonimia dei monti Kybela. A tutti gli effetti, il nome di Cibele derivava proprio da quello dei monti Kybela [40], situati in Anatolia. Nel Pantheon greco la matriarca era esplicitamente Gaia e, per ciò che riguarda il Pantheon romano, lo era la “Mater deum” Cibele. Gaia, in quanto Gea, rappresentava la terra intera. Cibele, a sua volta, in quanto anche Magna mater o Grande Madre dei romani, rappresentava anch’essa la terra intera. La Grande Madre greca e la Mater deum romana possedevano in loro una proprietà, quella definibile come la più pregnante per ogni donna, quella legata all’essenza della fecondità, ossia la capacità di concepire la vita. Erano tutte e due madri di ogni creato, comprendendo dei e uomini, animali e cose, ed anche madri di tutto il percepito, e persino del non percepibile. Quello della fecondità era un attributo, una proprietà talmente consustanziale, da presentarsi come il loro sinonimo più pregnante. Un sinonimo che però conteneva al proprio interno una duplice caratteristica legata alla funzione stessa. Nei fatti tale funzione poteva definirsi, nel suo essere ambivalente ed ambigua, come felicemente gaia od infelice, rivelandosi quindi in tutta la sua dualità nevrotica. Seguendo lo schema tipico della nevrosi, che “…è per così dire la negativa della perversione” [41], potremo senza dubbio affermare che la risultante della funzione della fecondità, ossia il concepito procreato, veniva predestinato ad essere sadicamente evirato, come reso evidente dalla narrazione mitologica. Il concepimento di Attis è in sé e per sé, espressione palese di un evento fortemente psicopatologico: “… la madre di Attis concepì suo figlio ponendosi in seno una melagrana proveniente dagli organi genitali tagliati ad un mostro chiamato Agdestis, una specie di doppione di Attis.” [42]
Quindi nella funzione del creare si esprimeva chiaramente l’endiadi vita-morte. Per giustificare tale funzione si aveva nel culto di Cibele, una liturgia, per così dire, riparatoria che diveniva remunerativa nel momento stesso in cui, tre giorni dopo la morte, si attualizzava la resurrezione del figlio Attis. Ciò avveniva al fine di permettere alla madre, in aeternum ad ogni equinozio di primavera, la reduplicazione all’infinito dell’evirazione mortifera associata poi alla resurrezione del figlio. In questo specifico rituale, ripetuto all’infinito, si definiva in concreto la serie delle endiadi nevrotico-perversa, sulla quale si fondava il sintomo più tangibile della psicosi. Un sintomo che metteva in luce il rimosso etiologico più nascosto, quello della psicogenesi psicotica.
Una funzione il cui risultato sta proprio nell’effetto della psicosi, vera e propria morte dell’anima, che diviene antitesi della funzione stessa. Un’antitesi che si rende evidente in quel “defunto”, derivato dal rovesciamento negativo di funto, participio passato del verbo fungere. Quindi la psicogenesi psicotica, rappresentata nel mito di Cibele ed agita nel complesso che da esso deriva, è la messa in scena dell’assassinio dell’anima compiuto da ogni madre cibelica sulla psiche dei figli di ambedue i sessi. In tal modo, per queste due matriarche terribili e terrificanti, Gea e Cibele, di cui la terra è etimologicamente metafora, è possibile definire una fenomenologia che vede entrambe riflettersi nello specchio nevrotico perverso, illuminato dalla fredda luce psicotica. Infatti, per rimemorare, anche Gaia indurrà e condurrà l’atto dell’evirazione del figlio Urano. Una evirazione che, come appena chiarificato, simbolicamente equivale alla morte. Una morte che si trasformerà in vita con il nascere della dea Afrodite: “[…] una figlia/nacque [nel mare, dalla spuma dell’immortale membro] , e dapprima a Citera divina/giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti” [43]. A tal punto ci sembra importante evidenziare l’analisi riguardante il campo perverso. Un campo che ci obbliga a considerare la dinamica del feticismo o del “fetichismo” [44]. Una dinamica che interessa, secondo e Elisabeth Roudinesco e Michel Plon, la parte del corpo o la “parte del cuerpo” con il corpo intero o “como sustitutos de una persona”.
In sostanza dovremo considerare il rapporto esistente nel calembour della “pars pro toto”. Il nome di Gea rappresenta, infatti, la totalità del corpo terreno, ossia della terra. e perciò il toto all’interno del quale sono contenute tutte le parti. Quindi la persona Gea, nel momento in cui permette la definizione del corpo intero della terra, come avviene in geografia, diviene metafora proprio perché permette lo “scambio della persona con la cosa” [45], come sancito da Roman Jakobson. Il nome di Cibele, invece, derivato da quello di una catena montuosa, rappresenta una parte del corpo della terra, ossia una “pars pro toto”. Di conseguenza, il nome Cibele si presenta come una metonimia, in quanto, sempre come sancito da Roman Jakobson, è: “scambio della cosa con la persona”. Avremo quindi un’insieme costituito dalle equazioni: Cibele sta a Gaia esattamente come la pars sta al toto o come la metonimia sta alla metafora. Inoltre, sotto il profilo dinamico, Gea potrà essere divisa o frazionata in parti, mentre Cibele, per sommazione di parti, potrà costituire il corpo intero della Grande Madre ossia di se stessa: la Terra. Perciò potremo aggiungere un’altra equazione, Gaia sta a Cibele esattamente come la proprietà del dividersi sta a quella del sommarsi. Quanto appena esemplificato fornisce, in breve, una messa in luce della dialettica feticistica, o più estesamente perversa, che lega dialetticamente fra di loro le due matriarche del Pantheon greco e romano. Una dialettica che però, nel momento stesso in cui è psicologicamente evirante, mostra, in tutta la sua evidenza, anche la sua controparte costituita da un insieme che affonda le sue radici nella psicopatologia più profonda.
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32. Esiodo, Teogonia, 117-118. (torna al testo)
33. T. Livii, Ab urbe condita, XXIX, 11. (torna al testo)
34. M. Bulletti, La genesi della Violenza in Occidente, Volumnia, Perugia, 2004. (torna al testo)
35. Esiodo, Teogonia, 126-128.
“ Gaia per primo generò, simile a sé, / Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno, / che fosse ai beati sede sicura per sempre.” (torna al testo)
36. Esiodo, Teogonia, 161-166
“Presto, creata la specie del livido adamante, / fabbricò una gran falce e si rivolse ai suoi figli / e disse, a loro – aggiungendo coraggio, afflitta nel cuore:
«Figli miei e d’un padre scellerato, se voi volete / obbedirmi potremo vendicare il malvagio oltraggio del padre / vostro, ché per primo concepì opere infami».”
Esiodo, Teogonia, 178-182
“ma dall’agguato il figlio [Crono] si sporse con la mano / sinistra e con la destra prese la falce terribile, / grande, dai denti aguzzi, e i genitali del padre / con forza tagliò, e poi via li gettò, / dietro;” (torna al testo)
37. A. Cattabiani, Calendario, Rusconi, Milano, 1989, p. 162.
“Egli [Attis, figlio di Cibele] torna alla madre primordiale, ridiventa androgino in lei, si separa dalla propria virilità per risorgere nell’Uno. Il rito che rammentava il mito e lo attualizzava per i partecipanti, si svolgeva nella seconda quindicina di marzo, intorno all’equinozio di primavera: cominciava il 15, che nel calendario lunare antico era il giorno della luna piena, e culminava nei giorni che segnavano il passaggio del sole dallo zodiaco meridionale a quello settentrionale. Questo legame con la luna piena e il sole trionfante, su cui è superfluo spendere commenti, è testimoniata da una statua ai Musei Vaticani dove Attis appare con il berretto frigio ornato da una falce lunare e i raggi solari.” (torna al testo)
38. J. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Milano, 1973, XXXIV. Il mito e il rituale di Attis, vol. I, p. 546.
“Si davano [i novizi] in preda alla più sfrenata eccitazione e lanciavano i pezzi tagliati del loro corpo verso la statua della crudele dea. Questi mutili strumenti di fertilità venivano poi impacchettati e sepolti rispettosamente in terra o in camere sotterranee sacre a Cibele, dove, come per il sacrificio del sangue, venivano forse considerati capaci di richiamare Attis in vita ed affrettare la risurrezione generale della natura, che allora faceva germogliare le foglie e sbocciare i fiori sotto il sole primaverile”. (torna al testo)
39. Enciclopedia della geografia, edizione De Agostini, Novara, 1993.
“Olimpo (Grecia), il più alto (2917) massiccio montuoso della Grecia centro-orientale, tra Tessaglia e Macedonia. Nell’antichità, sulla sua vetta, spesso nascosta dalle nubi, si riteneva avessero la loro dimora gli dei.” (torna al testo)
40. F. Cassola, Inni Omerici, Mondadori, Milano,1991, p. 327.
“Alcuni studiosi moderni chiamano la madre degli dei «Cibele» (Κυβέλη), e quest’uso, che ha il vantaggio della semplicità, non può dirsi scorretto; ma non va dimenticato che il nome Cibele, come Idea, Dindimene, ecc., deriva da un toponimo (i monti Kybela)…” (torna al testo)
41. S. Freud, in Opere, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), Primo saggio. Le aberrazioni sessuali, 4. Pulsione sessuale dei nevrotici, vol. IV, p. 477.
“I sintomi dunque si formano in parte a spese della sessualità anormale; la nevrosi è per così dire la negativa della perversione.
La pulsione sessuale degli psiconevrotici permette di scorgere tutte le aberrazioni che abbiamo studiato come variazioni della vita sessuale normale e come manifestazioni di quella morbosa.
In tutti i nevrotici (senza eccezione) si trovano nella vita psichica inconscia moti di inversione, ossia fissazione della libido su persone dello stesso sesso.” (torna al testo)
42. J. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Milano, 1973, XXXIV. Il mito e il rituale di Attis, vol. I, p. 546. (torna al testo)
43. Esiodo, Teogonia, 191-193. (torna al testo)
44. E. Roudinesco e M. Plon, Diccionario de psicoanàlisis, Paidòs, Buenos Aires, 2005, voce: fetichismo, p. 322. (torna al testo)
45. A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Mondadori, Milano, 1989, voce: metafora, p. 185; voce: metonimia, p. 190. (torna al testo)
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