Jung e l’Alchimia /1

Alchimia

Il presente elaborato è incentrato sull’interpretazione junghiana degli scritti di Zosimo di Panopoli, in particolare il Peri aretes. Ho riportato nella nota bibliografica i diversi testi di Jung dedicati all’alchimia. In particolare, Zosimo ed il Peri aretes diventano oggetto di studio specifico con Le visioni di Zosimo, contenute in Studi sull’alchimia.

Jung e l’Alchimia

Una interpretazione simbolica della vita e dell’opera di Zosimo di Panopoli

di Antonio D’Alonzo

Sommario: 1. Introduzione generale all’alchimia2. Zosimo di Panopoli e le visioni del Peri aretes3. Jung, studioso di dottrine esoteriche e della tradizione alchemica – 4. Il contenuto nascosto del sogno di Zosimo, secondo l’analisi junghiana – 5. Simboli alchemici – 6. Il vero significato della Pietra – Conclusione

Premessa

Il presente elaborato è incentrato sull’interpretazione junghiana degli scritti di Zosimo di Panopoli, in particolare il Peri aretes. Ho riportato nella nota bibliografica i diversi testi di Jung dedicati all’alchimia. In particolare, Zosimo ed il Peri aretes diventano oggetto di studio specifico con Le visioni di Zosimo, contenute in Studi sull’alchimia. Ho ritenuto utile, inoltre, approntare un’introduzione sommaria alla tradizione alchemica nei suoi diversi contesti storico-culturali, evidenziando i tratti peculiari di quella occidentale e confrontandoli, in particolare, con quella indiana e cinese. Ho poi ricostruito il contenuto del Peri aretes, basandomi sulle traduzioni e sui commenti del testo di Tonelli e su quello della Mertens. I paragrafi 3–6, al contrario, sono dedicati all’esegesi junghiana di Zosimo e alle fondamentali interazioni tra alchimia e psicologia del profondo. Alchimia e psicologia sono, infatti, connesse da interazioni ermeneutiche vicendevolmente fertili: se la seconda, infatti, è indispensabile per comprendere le reali finalità sottese all’inesausta ricerca di una tradizione millenaria, la prima, per contro, getta una luce chiarificatrice sul significato recondito di tanti archetipi inerenti la dimensione onirica individuale e collettiva.

1. Introduzione generale all’alchimia

Il difetto sostanziale della metafisica occidentale è sempre stato, per Heidegger, dal mito della caverna platonica a Nietzsche, il dualismo e la volontà di predominio sull’ente[1]. La stessa dicotomica scissione è presente in alcuni passi della Genesi, dove la natura è declassata alla stregua di un dono divino da sfruttare e manipolare. Al contrario, la tradizione alchemica – ed in generale l’esoterismo – hanno cercato di stabilire, sotto il profilo teoretico, delle differenti modalità relazionali con il mondo sensibile. Non è più l’uomo che domina una phýsis ormai desacralizzata, ma un lavoro di trasformazione della materia in grado di perfezionare la totalità del mondo naturale e dello spirito, capace di ricongiungere quest’ultimo alla matrice universale, opus di riconciliazione nell’unità dello spirito e della materia, teoretico ed al contempo sperimentale, in cui l’alchimista “mette a morte” la realtà esistente per ottenere un nuovo inizio foriero d’incorruttibilità ed immortalità, gettato nell’hic et nunc del mondo contingente e non soltanto negli orizzonti escatologici di una promessa oltremondana.

In Occidente ai tempi di Keplero, Newton e Descartes, circolavano una grande quantità di testi alchemici (lo stesso Newton attinse a piene mani da questi documenti[2]). Con la Rivoluzione Industriale si produsse tuttavia l’eclissi di queste ricerche: il modello meccanicistico soppiantò la cosmologia e la fisica degli alchimisti. L’interesse degli stessi scienziati del XVII secolo era focalizzato sulle dinamiche della trasformazione biologica da osservare in laboratorio: la mutazione del bruco in farfalla. Gli scienziati del seicento adottavano gli stessi metodi usati, a suo tempo, dagli alchimisti nei confronti della fisica aristotelica: quest’ultima, ritenuta insoddisfacente, veniva integrata con nozioni attinte dallo stoicismo e dall’ermetismo; allo stesso modo, gli scienziati accogliendo parzialmente gli assunti alchemici ne avvaloravano le dinamiche “sperimentali” attraverso l’irrobustimento teoretico fornito dalla fisica newtoniana. Ovviamente, sparivano le tracce degli elementi peculiari dell’arte, come, ad esempio, il lapis philosophorum capace di garantire – una volta trovata – la trasmutazione in oro del vile metallo. Dopo la rivoluzione industriale e lo sviluppo della chimica moderna, l’alchimia entra in crisi e sembra destinata a scomparire. I nuovi scienziati guardano ad essa con sufficienza, ne deridono l’ingenuo ed oscuro simbolismo iniziatico, compatendone l’assenza di chiarezza metodologica. Tuttavia, l’alchimia, non per questo, cessa di esistere: semplicemente se ne smarriscono le tracce nei circoli dei filosofi della natura, ma continua a tramandarsi, ripiegata su se stessa, all’interno delle società iniziatiche occidentali.

Si deve ricordare come l’arte regia si sia sviluppata in variegati contesti storici, quindi, se non è lecito pensare all’esistenza di diverse alchimie, si deve, quanto meno, tracciare un breve excursus sulle similitudini e sulle differenze inerenti la sua presenza nelle diverse tradizioni culturali e religiose. In ogni caso, possiamo sostenere come il filo rosso, in grado di ricollegare tutte le diverse scuole e correnti, debba essere evidenziato nella cerca di un oggetto – riconducibile ad una pietra, ad una tintura, a dell’acqua o ad un elixir – dotato di miracolosi poteri. Quest’oggetto, desideratum degli alchimisti di tutte le epoche, non sarebbe dovuto servire soltanto a fabbricare l’oro dal vile metallo, ma anche ad assicurare l’immortalità, o quanto meno a prolungare indefinitamente l’esistenza: motivo che richiama la saga di Gilgamesh ed anche il vello d’oro degli Argonauti.

Del resto, in tutte le tradizioni alchemiche, in particolare in quella cinese, determinate piante e frutti sono in grado di prolungare la vita, procurando all’adepto una perenne giovinezza. Un testo indiano dell’VIII secolo a.C., il Śatapatha Brāhmana,[3] proclama che «l’oro è immortalità». Nella tradizione ayurvedica il termine sanscrito che traduce la parola “alchimia”, rasāyana, designa una serie di tecniche volte al ringiovanimento del corpo[4]. Probabilmente, in India la ricerca della prolongevità è funzionale al perfezionamento della vita ascetica: enfatizzando l’uso del mercurio e delle droghe, nella realizzazione e nella trasmutazione di un corpo perfetto e immortale, l’alchimia induista può essere definita come alchimia “mercuriale” (Dhāturvāda), al contrario dell’alchimia buddhista nota come Rasāyana (letteralmente, “la via del rasa o delle essenze”)[5]. La differenza fondamentale tra l’alchimia indù e quella buddhista risiede nel maggior risalto dato da quest’ultima ai procedimenti interni yogici rispetto a quelli esterni e “chimici”[6]. Nell’alchimia buddhista, la prolongevità, assicurata dalle sostanze chimiche, è soltanto un mero mezzo per realizzare la Bodhi, lo stadio dell’Illuminazione.

La “chimica” induista e quella yogica buddhista, tuttavia, condividono molte tecniche e trovano il loro perfezionamento nei veicoli tantrici Nāth, Siddha, Sahajiyā e Vajirayāna. La ricerca cinese dell’immortalità fisica, invece, passa attraverso la formazione di un corpo incorruttibile, in grado di salvaguardare dalla migrazione ultraterrena le anime yang hun e yin p’o. Mentre in India la ricerca dell’immortalità si incentrava sulla conoscenza delle piante officinali e dell’antica erboristeria, in Cina era la fabbricazione dell’oro potabile a perpetuare il mito dell’eterna giovinezza[7]. Nell’alchimia occidentale, la ricerca della prolongevità si sviluppò soltanto dal Medioevo[8].

Il mito alchemico dell’immortalità si fondava sull’archetipo della Madre Terra dispensatrice di doni sublimi, a beneficio di chi sapeva carpirne gli arcani linguaggi: la stessa epopea di Gilgamesh, alla ricerca dell’erba moly, testimonia la possibilità che nel grembo della Natura si celi la salvezza dalla morte fisica. In questo quadro ideologico, strutturalmente dualistico, non poteva certo attecchire, prima del Medioevo, l’archetipo della Madre Terra e della Natura come riflesso speculare del mondo divino.

Il recupero dell’idea della prolongevità fu possibile, per l’Occidente, soltanto in seguito all’incontro con la cultura islamica[9], anche se la vera e propria dottrina originaria dovette essere riplasmata in funzione delle convinzioni teologiche cristiane, renitenti ad ammettere la possibilità di sfuggire alla morte e, dunque, al giudizio oltremondano. Per questo, gli alchimisti occidentali sono sempre stati maggiormente interessati alla trasmutazione dei metalli in oro.

D’altro canto, presso molte culture tradizionaliste assume una certa importanza l’idea che l’alchimia sia in qualche maniera riconducibile ad una pratica ostetrica[10].

La Madre Terra – venerata essenzialmente nelle civiltà che hanno conosciuto la coltivazione dei cereali – partorisce dal proprio grembo l’oro, qualora non la si ostacoli o disturbi: caso quest’ultimo, in cui si trova costretta ad abortire altre varietà di metalli impuri, mentre soltanto l’oro è da considerare come il figlio legittimo della Madre Terra. In questa chiave di lettura, l’alchimista deve completare l’azione interrotta della Natura.

Nell’Alchimist (1610) di Ben Jonson[11] è espressa chiaramente l’identificazione dell’alchimista con l’ostetrico. Per Simone da Colonia[12] la trasmutazione/parto della Natura deve essere aiutata da uno specifico elixir, il quale versato sui metalli imperfetti, conduce alla loro completa raffinazione e perfezione[13].

Del resto, la formazione del lapis philosophorum o elixir (il termine “elixir”deriva dall’arabo, e a sua volta trasforma un vocabolo greco: “el” corrisponde all’articolo arabo “al”, mentre “iksir” è un’arabizzazione del greco “xerion”, cioè “qualcosa di secco, polvere secca, ecc.) era tutt’altro che semplice. Thomas Norton[14], un alchimista inglese del XV secolo, nel suo Ordinall of Alchemy descrive le difficoltà – e la conseguente frustrazione intrinseca – alla ricerca. È molto probabile, naturalmente, che anche il Lapis Philosophorum non fosse altro che una trasposizione allegorica della trasformazione interiore realizzata dall’adepto; tuttavia essa era anche qualcosa di più di una metafora. Al contrario, essa costituiva l’oggetto di un’accanita ricerca sperimentale condotta all’interno dei laboratori alchemici. La sua realizzazione era assicurata dal conseguimento e dal superamento di quello stadio, indicato dagli alchimisti, come fase “rossa”, preceduto in ordine decrescente da una fase “bianca” e da una “nera”. Quest’ultima deve essere intesa come una sorta di “morte profana” o “discesa agli inferi”, o anche nel “ventre di un mostro marino”. La fase “bianca”, invece, segna il momento della rigenerazione mistica, della rinascita iniziatica. L’ultimo stadio, la fase “rossa” è destinata a pochi e indica la realizzazione dell’opus.

La trasmutazione, infatti, per gli alchimisti doveva avvenire gradualmente attraverso tre passaggi, simboleggiati dai tre colori sopra indicati. L’inizio della ricerca era contrassegnata dalla fase “nera” (nigredo), durante la quale si credeva di uccidere le sostanze deposte nei recipienti, procedimento corrispondente alla calcinazione in cui si cercava di ottenere l’ossidazione delle stesse. Il procedimento dell’ossidazione faceva assumere alle sostanze, appunto, un colorito nerastro, simbolicamente associato dagli alchimisti alla “morte”, alla “putrefazione” o alla “bara”. Successivamente, si procedeva alla purificazione della sostanza così ottenuta – mediante la distillazione, la filtrazione e la decantazione – fase denominata “bianca” (albedo). La fase “rossa” (rubedo) indicava l’ottenimento della pietra filosofale.[15]

Il numero delle operazioni necessarie al processo completo dei tre stadi era oggetto d’accese discussioni da parte degli alchimisti rinascimentali, sovente incapaci di elaborare una metodologia comune. Un alchimista come Daniel Stolcius[16] prescriveva undici operazioni chimiche; altri, dodici come George Ripley[17] o sette come Salomon Trismosin[18]. Sinteticamente, si può ritenere la calcinazione, o coagulazione come una sorta di “putrefazione” della materia, mentre il recipiente usato nell’operazione assurge al ruolo di “bara”: la dissoluzione equivale, perciò, ad una “purificazione”. La fermentazione–moltiplicazione–proiezione rende la pietra simile ad un lievito in grado di trasmutare le sostanze cosparse. Uno dei grandi problemi dell’alchimia operativa era quello di ottenere una corretta regolazione del fuoco, giacché nel XVIII secolo non esisteva ancora il termometro: secondo Norton, all’alchimista che otteneva il giusto dosaggio, spettava il titolo di “perfetto maestro”.[19] Ovviamente, la trasmissione degli insegnamenti avveniva segretamente da maestro ad allievo ed anche il contenuto dei testi era velato da una scrittura segreta e criptica. L’oscurità dei testi alchemici – un continuo intreccio di metafore e rimandi simbolici – era dovuto al palese tentativo di scongiurare le inquisizioni della Chiesa; ma anche al timore degli alchimisti di essere fatti prigionieri da parte di avventurieri e sovrani, che avrebbero potuto estorcere i segreti alchemici con la forza. Un ulteriore motivo della difficoltà dei testi alchemici è che essi rientrano in quelle tradizioni esoteriche che devono presentarsi con un linguaggio cifrato (si veda il caso della magia):gli ermeneuti del tempo, privi di sofisticati strumenti esegetici, si trovarono in,difficoltà nelle traduzioni, per cui decisero, nella maggior parte dei casi, di lasciare nella forma originaria ciò che non poteva essere reso in modo efficace.

In ogni caso, l’alchimia, come dottrina iniziatica, conserva sempre il suo carattere di segretezza, a tutte le latitudini. Una leggenda tramanda di come il più antico testo ellenistico Physikē kai mystikē (200 a.C.) fosse stato nascosto nella colonna di un tempio egizio[20]. Nella tradizione brahmanica, Śiva si rifiuta di rivelare il segreto dell’alchimia addirittura ad una dea[21]; mentre il più antico alchimista cinese Ko Hung (260–340 d.C.) ricorda come la segretezza sia essenziale per le “ricette”[22]. Nel Rosarium philosophorum si avverte il lettore che questa conoscenza deve essere trasmessa per “via mistica” come le poesie e le fiabe. Una volta bevuto l’elixir che rende immortali (hsien), l’adepto – secondo Ko Hung – deve continuare a mescolarsi con i mortali, evitando di rivelare il proprio segreto[23]. L’appello al segreto, del resto, porta con sé la necessità di richiamarsi ad un linguaggio molto allegorico; quindi, molte pratiche “operative” non sarebbero altro che metafore del cambiamento interiore e spirituale dell’alchimista: metafore proibite, attraverso le quali potenziare l’autocoscienza e la coscienza spirituale dell’iniziato.


[1] Cfr. Heidegger, Nietzsche, p. 809 –911. ^

[2] Cfr. Keynes, «Newton the man», Royal Society, Newton Tercentenary Celebrations, p. 27 –34. ^

[3] Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 25. ^

[4] Cfr. White, Alchimia indiana in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 33. ^

[5] Cfr. White, Alchimia indiana in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 33. ^

[6] Cfr. White, Alchimia indiana in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 33. ^

[7] Cfr. Pereira, Arcana Sapienza, p. 25. ^

[8] Cfr. Pereira, Arcana Sapienza, p. 25. ^

[9] Cfr. Coudert, Elisir in Enciclopedia delle religioni, vol. 2, p. 202: «…l’idea di un elisir alchemico giunse in occidente dall’Islam agli albori del Medioevo. Ma la distinzione cristiana tra materia e spirito, e l’insistenza sulla vita a venire resero più difficile per gli alchimisti occidentali la concezione di immortalità in questo mondo». ^

[10] Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 26. ^

[11] Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 26. ^

[12] Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 26. ^

[13] Cfr. Eliade, Arti del metallo e alchimia, p. 147. ^

[14] Cfr. Coudert, Alchimia rinascimentale, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 42. ^

[15] Cfr. Coudert, Alchimia rinascimentale, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 42. ^

[16] Cfr. Coudert, Alchimia rinascimentale, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 42. ^

[17] Cfr. Coudert, Alchimia rinascimentale, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 42. ^

[18] Cfr. Coudert, Alchimia rinascimentale, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 42. ^

[19] Cfr. Coudert, Alchimia rinascimentale, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 43. ^

[20] Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 25. ^

[21] Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 25. ^

[22] Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 25. ^

[23] Cfr. Eliade, Arti del metallo e alchimia, p. 100. ^


2. Zosimo di Panopoli e le visioni del Peri aretes

Il testo principale di Zosimo prende l’avvio da una breve riflessione sulle acque e sulla loro composizione[24], con cui egli descrive il processo di separazione e ricongiungimento tra spirito e corpo, tematiche peraltro ricorrenti nella tradizione alchemica ed ermetica[25]. Nel racconto, Zosimo viene colto dal sonno ed inizia a sognare. Il protagonista si trova di fronte ad un altare a forma di coppa, al quale si accede mediante una scala di quindici scalini. Sull’altare, ed ai piedi di esso, si trovano il sacrificante e la vittima designata che annuncia la discesa e la successiva risalita dei gradini di tenebra e luce: allegoria evidente del processo di progressivo perfezionamento spirituale, raggiungibile mediante la discesa in interiora terrae[26], ossiatramite l’integrazione dell’oscurità interiore nella coscienza e lo stato della “morte profana”, la nigredo alchemica. Il sacrificato svela a Zosimo la sua identità – si chiama Ione – e rivela di essere stato assalito improvvisamente, smembrato ritualmente con una spada e bruciato: è chiaro il richiamo allegorico al processo di lavorazione dei metalli.Ione si trasforma sotto lo sguardo di Zosimo in un omuncolo che divora e vomita le sue stesse carni, processo circolare che evoca il simbolo dell’ouroborus, il serpente che si mangia la coda[27]. Nel frattempo, Zosimo si sveglia e si riaddormenta di nuovo[28]. Strani personaggi compaiono nel sogno: il barbiere, la folla, l’uomo di rame, tutti intorno ad un altare, non più luogo sacro dell’iniziazione di Ione, ma ricettacolo dell’acqua divina[29]. Gli uomini-metallo s’immergono e vengono cotti senza morire, altro richiamo evidente alla trasmutazione delle sostanze. Il barbiere simboleggia la capacità di purificare e trasformare, l’uomo di rame è la rappresentazione antropomorfica del metallo più affine all’oro[30]; il barbiere svela a Zosimo che l’uomo di rame è al contempo il sacrificante ed il sacrificato, dunque l’ uomo di rame, destinato a tramutarsi in oro, è lo stesso Ione[31]. Zosimo si sveglia di nuovo, s’interroga sul sogno e comprende che la causa delle visioni è l’acqua divina. Zosimo riflette, adesso, sull’importanza dell’armonia della separazione e della congiunzione di tutte le cose che – attraverso il metodo quantitativo naturale – diventano natura. A questo punto, Zosimo si rivolge ad un interlocutore immaginario e lo esorta a ergere un tempio, formato di una sola pietra, ma, al contempo, senza inizio e senza fine[32]. L’accesso al tempio è custodito da un serpente che dovrà essere scuoiato e trasformato in uno scalino: all’interno si trova una sorgente di acqua purissima, mentre l’uomo di rame che raccoglierà un oggetto misterioso, diventerà dapprima d’argento e poi d’oro[33]. La prima parte del trattato si avvia a conclusione con una domanda sul «che cos’è della natura trionfante sulle nature», cui seguono delle riflessioni su quello che Tonelli chiama la “maschera del tutto[34].

La prima parte si chiude con una curiosa affermazione di Zosimo, sul carattere istrionico della natura, che, in quanto «imita colui che parla la lingua ebraica», fa giustizia a se stessa e diventa più leggera, mescolando le proprie membra[35]. Secondo Tonelli il passo potrebbe alludere sia al processo alchemico di assimilazione, evaporazione e dissoluzione della materia, sia all’autosacrificio della natura naturata – che attraverso un rimescolamento delle proprie membra – ritorna all’essenza originaria, al pneuma, diventando «più leggera di se stessa[36]».

La seconda parte del Peri aretes si apre con una salita, che si dipana attraverso sette gradi[37]. Zosimo incontra ancora un barbiere, vestito di un manto rosso regale[38]: in realtà, si tratta dell’uomo di rame, che nella visione precedente vigilava sulla cottura degli altri uomini-metallo. Successivamente, Zosimo incontra un vecchio vestito di una tunica bianchissima e splendente: il suo nome è Agatodèmone[39]. Secondo Tonelli, Agatodèmone incarna una funzione profetica, una guida spirituale in grado di condurre Zosimo attraverso i misteri della trasmutazione dei metalli; inoltre, è un altro evidente simbolo dell’ouroborus, perché si getta tra le fiamme, riproducendo, così, la circolarità della conoscenza alchemica[40]. Agatodèmone prima dell’autosacrificio rivela a Zosimo di essere l’uomo di piombo[41].

Nella terza parte del trattato, Zosimo – che sta di nuovo sognando – incontra un sacerdote, ancora di bianco vestito, che si proclama «sacerdote del più intimo santuario. Vuole trasformare i corpi in sangue, rendere gli occhi veggenti e resuscitare i morti»[42]. Zosimo, presumibilmente dopo essersi svegliato, si riaddormenta di nuovo e vede arrivare da Oriente una figura, con una spada in pugno. Dietro quest’ultima, compaiono altri due personaggi: l’ultimo, ancora vestito di bianco, è legato e si chiama «Culminazione del Sole»[43]. Egli sarà decapitato, squartato, e i suoi muscoli saranno separati dalle parti grasse e cotti nel fuoco[44]: Zosimo comprende che quest’ultima visione rappresenta, ancora una volta, una metafora del processo di lavorazione dei metalli. Per Tonelli, un’altra figura «ouroborica» , alla pari di Ione, dell’uomo di rame e di Agatodèmone.[45]

Il sogno si conclude con la proclamazione, da parte della figura che impugna la spada, dell’avvenuta ascesa per sette gradi[46], mentre l’altro personaggio proclama il compimento dell’arte[47]. Contemporaneamente, le fonti iniziano ad irrigare il terreno umido[48].


[24] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 58: «…la “composizione delle acque” era il nome di una tecnica ben nota agli alchimisti, che si basava sulla dissoluzione degli elementi (solve, separatio) e la loro riduzione a uno stato amorfo; qui è il nome che Zosimo attribuisce a un’esperienza di iniziazione che si attua attraverso il sacrificio di se stessi (nel seguito del testo viene disvelata a più riprese l’identità di sacrificante sacrificato) e implica una trasformazione». Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 34. ^

[25] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 53. ^

[26] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 57 e p. 95. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 35. ^

[27] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 61.«L’Omuncolo – Ouroborus è immagine icastica dell’energia – Φύσις che circola inesausta in ogni cosa e alla radice di ogni cosa, con ritmo alterno di morte e rigenerazione». ^

[28] Come ricorda Mertens, le tre “Visioni” di Zosimo, composte da cinque sogni successivi ed intervallati da brevi periodi di veglia o semiveglia, non trovano molti precedenti nella storia della letteratura, ad eccezione di Descartes, che nel novembre 1619, fece tre sogni quasi simultanei. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 212. ^

[29] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 63 e, p. 97. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 37. ^

[30] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 64. ^

[31] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 66, e p. 99. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 38. ^

[32] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 72, e p. 101. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 39. ^

[33] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 72, e p. 103. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 40. ^

[34] «diventando natura naturata, ordine composito di forme: il mondo visibile è dunque falsa sembianza di un principio nascosto e inafferrabile» Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 77 e p. 103. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 40. ^

[35] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 77, p. 103; Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 41. ^

[36] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 78. ^

[37] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 105; Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 43. ^

[38] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 105. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 43. ^

[39] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 107. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 44. ^

[40] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 84 –85 e p.107. ^

[41] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 109. ^

[42] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 109. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 46. ^

[43] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 109. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 47. ^

[44] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p.111. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 47. ^

[45] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 88. ^

[46] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 111. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 47. ^

[47] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p. 111. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 47. ^

[48] Cfr. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, p.111. Cfr. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte, p. 47. ^


3. Jung, studioso di dottrine esoteriche e della tradizione alchemica

Jung è consapevole che «la psicologia potrà pure spogliare l’alchimia dei suoi misteri, senza però riuscire a svelare il mistero dei misteri»[49]. L’alchimia è una tradizione storicamente determinata che non può essere considerata come mera produzione onirico-simbolica. Il “mistero dei misteri”, di cui scrive Jung, non concerne la concreta esistenza storica di un insieme di pratiche alchemiche perseguite nei secoli e nei diversi contesti culturali, quanto piuttosto il fondamento di questo sapere, ossia la relazione tra spirito e materia. Lo psicologo svizzero intravedeva nell’alchimia un campo del sapere arcaico, inesplorato dalla scienza sperimentale, sul quale fondare le proprie teorie attraverso lo studio dei processi psichici d’integrazione: lo stesso Jung rivela come fosse stato un sogno rivelatore ad indirizzarlo verso l’alchimia.

L’alchimia, per Jung, sarebbe una sorta di antica “tecnica dell’anima”, in grado di realizzare – mediante l’apparato simbolico – il Sé, il principium individuationis, strutturato attraverso l’esplorazione integrativa dell’Io nell’inconscio. Tramite questa chiave interpretativa acquista particolare rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso cui ottenere la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io) nell’oro (Sé). Le applicazioni alchemiche simboleggerebbero, ritualmente, il processo di perfezionamento interiore. Il lavoro dell’alchimista non sarebbe altro che un’allegoria inconscia del percorso di perfezionamento introspettivo: anche quando egli opera empiricamente, riproduce – consapevolmente o meno – la parabola del viaggio interiore del Sé. In Psicologia e Alchimia, Jung estende la sua ermeneutica simbolistica all’analisi della ricezione storica delle correnti alchemiche occidentali, allargando diacronicamente il campo di ricerca strutturale all’esegesi testuale, mentrela materia è identificata con il principio di ordine femminile che compendia sinteticamente la trinità cristiana, esprimendo così la reintegrazione dello spirito con il mondo materiale ed il negativo.

Nel Rosarium philosophorum[50], ad essere evidenziate sono soprattutto le “nozze chimiche” del re e della regina, funzionali all’analisi del fenomeno del transfert. È proprio il quarto fattore dialettico, di contro all’idealismo hegeliano, a garantire la riabilitazione della polarità femminile e del principio passivo, giacché, «il lavoro sulla materia riabilita simbolicamente la polarità femminile e oscura della realtà, quella che chiamiamo “male”, che la teologia cristiana di Agostino, dopo la sconfitta dello gnosticismo e del manicheismo, aveva privato di realtà ontologica»[51].

Jung dedica grande spazio agli scritti di Paracelso, allo “spirito Mercurio” ed al simbolismo dell’albero. Ma è soprattutto la figura di Zosimo di Panopoli (III–IV d. C.), ad essere al centro dell’interesse junghiano. Ad affascinare Jung, nei trattati di Zosimo, è stato, probabilmente, l’aspetto visionario dell’opera, sono state le proiezioni oniriche sull’oggettività della materia, percepita dagli alchimisti come sostanzialità intrinseca e non come mera risultante delle dinamiche del processo inconscio d’individuazione. Nel Mysterium Coniunctionis, l’ultima opera prima della scomparsa, Jung sembra rendersi conto che l’integrazione dialettica del quarto termine – la materia – nello schema trinitario divino, pur esprimendo simbolicamente la Totalità, non la realizza concretamente, limitandosi ad indicarne la mera possibilità. La concretizzazione del lavoro alchemico è data soltanto dall’unione effettiva, ossia spirituale, tra uomo e cosmo (Unus Mundus, secondo la terminologia dorniana[52]). Alla fine, dunque, Jung nel suo costruttivo approccio all’alchimia, rinuncia ad oltrepassare il confine dottrinale tra la rassicurante riva dell’interpretazione psicoanalitica e i turbinosi ed oscuri flussi carsici dell’operatività iniziatica. A fronte della sterminata erudizione in materia, egli rimane uno psicologo, distante anni luce dai seguaci della neognosi contemporanea[53]. Il compito di ampliare l’orizzonte epistemologico delle ricerche junghiane sull’alchimia è stato raccolto da due continuatori della sua opera, Marie Luise von Franz[54] e Robert Grinell[55]. La prima collega le elaborazioni junghiane sulla coniunctio alchemica con la teoria della sincronicità, riallacciandosi al lascito della classica dottrina esoterica del micro–macrocosmo, ossia della dimensione antropocosmica del Tutto. Grinnell, dal canto suo, preferisce concentrarsi sulla rielaborazione “alchemica” dei processi psicoidi, definiti come interazioni inscindibili di spirito e materia, escludendo del tutto la possibilità di una qualunque lettura unilaterale che prescinda dalla coniunctio dei due termini.

Possiamo dunque sostenere come la scienza alchemica, nell’opera dello psicologo svizzero, assurga a linguaggio privilegiato per esprimere una serie d’interazioni fondamentali obliterate dal paradigma del dualismo cristiano e cartesiano, dominante nella civiltà occidentale. L’alchimia, secondo Jung, compensa, integra, ricongiunge la lacerante scissione del corpo dell’uomo moderno con il Regno della Natura, riuscendo ad armonizzare nell’Uno la dicotomia del soggetto e dell’oggetto, dell’osservatore e del fenomeno. Non siamo alla presenza di un controparadigma dunque: ma, piuttosto, di un tentativo di rettificare, con l’armonia degli opposti, lo squilibrio ratiocentrico causa di tante nevrosi contemporanee.

Jung, ha confessato di essersi sentito a lungo isolato, nella sua lunga attività di ricerca. Di essere stato un solitario, perché interessato a cose «che gli altri ignorano, e di solito preferiscono ignorare»[56]. Jung fu dapprima emarginato per il suo interessamento alle teorie freudiane e a quello strano metodo – la “psicoanalisi” – che si proponeva di curare gli isterici con la terapia dell’ascolto e prescindendo da terapie coatte. Ma il pensiero di Freud era troppo focalizzato sulla libido e sulla «numinosità» del tema dell’incesto – in altre parole, ratiocentrico e illuministico – per sfiorare nel profondo gli interessi culturali e speculativi dello psicologo di Basilea, da sempre stimolato da argomenti inerenti la dimensione sovrapersonale del simbolismo religioso e mitologico. Jung arriva presto a cogliere la valenza di strutture inconscie declinate nelle modalità di a-priori collettivi, definiti “archetipi”, minimizzati da Freud. Si consuma dunque la rottura con Freud ed inizia, per Jung, un nuovo periodo di disorientamento interiore ed isolamento. Tra il 1918 ed il 1926, Jung comincia ad interessarsi alle dottrine gnostiche, giudicandole, tuttavia, culturalmente troppo distanti dalla mentalità contemporanea. L’incontro con l’alchimia fornisce il “ponte” del legame storico tra il passato stratificato nelle dottrine gnostiche e neoplatoniche ed il presente, costituito dalla moderna scienza dell’inconscio[57]. L’alchimia fornisce a Jung le basi storiche su cui strutturare le proprie ipotesi di lavoro e le prefigurazioni letterarie dell’esperienza interiore maturata durante la giovinezza e nel primo periodo freudiano. Nel 1928, Jung riceve dal grande sinologo tedesco Richard Wilhelm un testo di alchimia taoista, Il segreto del fiore d’oro[58], che dischiude a Jung nuovi orizzonti speculativi. In particolare, grazie alla lettura dei testi di alchimia, egli riesce a interpretare il significato di un sogno, in cui si trovava imprigionato nel XVII secolo. Lo psicologo svizzero sogna di trovarsi in guerra e di rientrare dalle prime linee sul carro di un contadino trainato da un cavallo. Successivamente, un castello compare all’orizzonte, il carro entra all’interno dal portone principale. All’improvviso, tutti i portoni si rinchiudono ed il contadino esclama che lui e Jung sono prigionieri del XVII secolo[59].

Jung coglie l’evento come il segno della predestinazione personale allo studio sistematico ed esaustivo della letteratura alchemica. L’alchimia diventa, per Jung, l’equivalente storico della psicologia del profondo, grazie alla quale può concepire l’inconscio alla stregua di un processo individuale e collettivo di trasformazione che interagisce e si relaziona con la sfera cosciente, dinamica che prende il nome di processo di individuazione[60]; ma l’alchimia fornisce allo psicologo svizzero le chiavi esegetiche per interpretare un universo di significati simbolici e immaginali. La figura di Paracelso, ad esempio, permette a Jung di esaminare il rapporto dell’alchimia con la cultura religiosa del tempo. In Psicologia e Alchimia, Jung compara e mette in relazione simbolica Cristo al lapis philosophorum, la leggendaria pietra che gli alchimisti cercavano di produrre nei loro laboratori. Nel frattempo diversi sogni danno a Jung la prova di essere sulla strada giusta[61]. Una notte, Jung, al risveglio, ha un’allucinazione ipnopompica e visualizza un grande crocefisso verde-oro deposto ai piedi del letto. Lo psicologo svizzero interpreta il sogno come una visione alchemica di Cristo. Nell’alchimia, l’oro verde è lo spirito dell’universo, l’Anima Mundi, l’Anthropos, il filius macrocosmi che vivifica il mondo della manifestazione. L’archetipo dell’Anthropos, secondo Jung, è presente in molte tradizioni, specialmente in quella cabbalistica dell’Adam Qadmon e in quella egizia con il mito di Horus, generato da Iside dal corpo smembrato del fratello – sposo Osiride. L’equivalente cristiano dell’Anthropos è costituito – sempre secondo Jung – da Gesù, il figlio dell’uomo e di Dio. Continuando a cercare le similitudini tra la psicoanalisi e l’alchimia, lo psicologo svizzero identifica il transfert – punto focale della dottrina freudiana – con la Coniunctio, lo stato di fusione estatica che l’alchimista sperimenta verso la natura ed il Tutto, unione tra microcosmo e macrocosmo, in termini junghiani tra inconscio personale e inconscio collettivo. Jung, infatti, influenzato sia dalla lettura di mistici cristiani come Meister Eckhart, Nicola Cusano e Jacob Boehme, sia dalla conoscenza delle filosofie e religioni dell’Oriente e dell’Estremo Oriente, ha sempre cercato di rivitalizzare una visione monistica del cosmo, in grado di superare le aporie teologiche del dualismo cristiano tra la bontà di Dio e l’esistenza del male. In questa prospettiva, la coniunctio alchemica – lo Hieros gamos – equivale alla coincidentia oppositorum cusiniana o alla moksha indù, al riconoscimento dell’unio mystica tra il Sé e l’Universo: «con un Dio che è una complexio oppositorum “tutto possibile”, nel significato più pieno dell’espressione: la verità e l’inganno, il male e il bene[62]».

Nel Segreto del Fiore d’Oro, Jung descrive il processo taoista di circolazione dell’energia vitale all’interno del corpo, ma soprattutto riesce a mettere efficacemente in relazione la ricerca dell’elixir interno cinese (nei tan) con l’istanza medievale e cristiana del corpo spirituale, giungendo ad avere l’intuizione decisiva sul segreto dell’opus come coniunctio oppositorum, trasmutazione della materia grossolana in materia spirituale: in termini psicoanalitici, interrelazione della coscienza con l’inconscio, processo volto a determinare il Sé, o principio d’individuazione.

Nel Mysterium Coniunctionis, l’ultima vera opera prima della scomparsa, Jung affronta i testi di Ripley, Dorn, Abraham Eleazar, basandosi soprattutto sull’analisi ermeneutica del simbolismo alchemico. La coniunctio junghiana della materia e dello spirito s’innesta in un “luogo intermedio” (metaxû), dove la coscienza e la materia psichica s’integrano interagendo. Negli stessi anni Henri Corbin definirà tale strato come Imaginale, dando inizio ad una serie di ricerche che delineeranno i contemporanei studi sull’immaginario collettivo, avallati dagli stessi junghiani, ma anche da studiosi di altre discipline, come, per esempio, Gilbert Durand, teorico di un’antropologia dell’Immaginario.


[49] Cfr. Jung, Mysterium coniunctionis, pp. 165 –166. ^

[50] Il Rosarium philosophorum è uno dei primi scritti sinottici sull’alchimia. Scritto intorno al 1350, da autore anonimo, sovente identificato con Pietro da Toledo. Il trattato, tuttavia – anche se contiene numerose parti attribuite a Pietro – non può essere attribuito interamente a quest’ultimo. Il Rosarium contiene molte citazioni tratte da Arnaldo da Villanova, famoso medico catalano edotto nell’alchimia, nato nel 1235. L’edizione del 1550 è composta da due trattati distinti e contiene testi di autori variegati, compreso Raimondo Lullo, il celebre inventore dell’ars combinatoria. Jung si occupa del Rosarium philosophorum in Psicologia della traslazione, studio contenuto in Jung, Pratica della psicoterapia, pp. 175-326; cfr. anche Sul “Rosarium philosophorum”, sempre in Jung, Pratica della psicoterapia pp. 335-338. ^

[51] Cfr. Pereira, Arcana Sapienza, p. 278. ^

[52] D. Gherardus, congerie Paracelisicae in Theatrum chemicum vol. I. Cfr.Jung, Studi sull’alchimia, p. 104. ^

[53] Per una panoramica sul fenomeno del neo – gnosticismo e del nuovo – gnosticismo, cfr, M. Introvigne, Il ritorno dello Gnosticismo, SugarCo. ^

[54] Cfr. Pereira, Arcana Sapienza, p. 279. Cfr. M. L. von Franz, Aurora Consurgens, La Fontaine de Pierre, Paris 1957. ^

[55] Cfr. Pereira, Arcana Sapienza,, pp. 279-281. Cfr. R. Grinnell, Alchemy in a Modern Woman, Spring, Dallas 1973, p. 128. ^

[56] Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, p. 70. ^

[57] Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, pp. 245 –246. ^

[58] Cfr. Jung, Wilhelm, Il segreto del fiore d’oro. ^

[59] Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, p. 248. ^

[60] Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, p. 255. ^

[61] A Bollingen, Jung e le figlie assistono al verificarsi di strani fenomeni che non possono essere ricondotti a concause determinate e che oggi collocheremmo sotto la sfera del paranormale. Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni. ^

[62] Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, p. 399. ^