L’uomo non è più il signore della Natura, è più simile ad un viandante che passa, osserva e cerca di assimilare ciò che vede: l’ergersi trionfale del titanico apparato tecnologico. Il viandante che ha rinunciato ad abitare nella comunità delle macchine fa professione di irriducibile nichilismo e tuttavia rivolge un’attenzione vigile all’inesorabile crescita del deserto spirituale circostante. Non crede quasi più in nulla, ma ha la capacità di gettare uno sguardo sulle cose che anima ed illumina.
Il tempo della scienza moderna è dominato da un fine, assicurare il trionfo dell’uomo sulla natura, il tempo dell’utopia dal raggiungimento della società “giusta” e ugualitaria. La scienza e l’utopia, proiettano alla fine del tempo un fine ultimo, trasformando il divenire irrazionale in storia: entrambe sono debitrici alle radici giudaico-cristiane. Ora, la tecnica rende possibile la fine della storia, non perché restaura la concezione greca del tempo circolare, ma perché mantenendo il paradigma rettilineo non pone un fine ultimo al di fuori del tempo, ma nel tempo, anzi nel tempo immediato: il potenziamento infinito del proprio apparato. L’unico fine è in realtà quello che dovrebbe essere un mezzo: il perfezionamento della tecnica come mezzo per raggiungere il benessere diventa il fine, cui il benessere sociale – trasformato in mezzo – deve tendere. Rovesciando i fini in mezzi, la tecnica trasforma la storia in un fluire insignificante del tempo, dove l’unico scopo è la crescita dell’apparato con le sue novità tecnologiche, presto dichiarate obsolete e soppiantate da altre più avveniristiche, proprio perché inutili ai fini dell’economia della vita quotidiana. La tecnica non avalla più il continuum di un’azione storica che conduce ad un fine ad essa estrinseca, con il quale giustificare la persistenza dell’azione (sia tale fine la Parusia , il trionfo della società perfetta, o il dominio sulla natura). La tecnica pone dei fini all’interno dell’immediato, mezzi trasformati in fini e posti per essere subito superati da altri, considerati migliori (le novità tecnologiche). Tutto questo in un processo infinito che infrange il sogno di una storia umana, trasformandola nell’idea di un indefinito e alienante percorso di progresso tecnologico. Nell’era del dominio tecnocentrico, l’uomo perde così la sua essenza di animal rationalis , in quanto si trova immerso in un macrocosmo di informazioni e nozioni specialistiche che nessun singolo può interamente possedere. Si rende così necessaria la divisione specialistica dei saperi che priva l’uomo dell’universalità della conoscenza e gli impedisce di poter gettare uno sguardo d’assieme sul mondo circostante. L’uomo diventa così l’abitante spaesato di un mondo tecnologico da lui interamente creato, ma che ormai gli è diventato estraneo. Egli attraversa lo spazio circostante e si trova ad affondare in un oceano mediatico, di cui non riesce interamente a comprendere il significato, ma che agisce in modo subliminale sul suo inconscio. A causa della divisione dei saperi, l’uomo contemporaneo è ritornato a guardare il proprio cosmo con lo stesso sguardo stranito con cui il suo antenato preistorico scrutava il dispiegarsi di fronte a lui di un mondo estraneo ed ostile: ha perduto il possesso della terra e lo ha ceduto alle macchine. L’uomo non è più il signore della Natura, è più simile ad un viandante che passa, osserva e cerca di assimilare ciò che vede: l’ergersi trionfale del titanico apparato tecnologico. Il viandante che ha rinunciato ad abitare nella comunità delle macchine fa professione di irriducibile nichilismo e tuttavia rivolge un’attenzione vigile all’inesorabile crescita del deserto spirituale circostante. Non crede quasi più in nulla, ma ha la capacità di gettare uno sguardo sulle cose che anima ed illumina. Nietzsche descrive bene questa condizione di solerte vigilanza, nella sua teorizzazione di un nichilismo attivo, perfetto, che assuma su di sé la consapevolezza della fine dei valori tradizionali e possa permettere all’uomo di attraversare il “deserto che cresce” del nichilismo. Il nichilismo passivo, al contrario, è la passiva accettazione della crisi spirituale dell’epoca, ed è tipico di chi si limita a subire passivamente il Nulla; senza più il coraggio – che è proprio del viandante – di osservare, passare e preparare l’alba di un nuovo inizio. Il viandante proprio perché non abita più in nessun luogo, può nel suo incessante peregrinare assimilare la frantumazione dei saperi, e riproporre l’aspirazione all’universalità della conoscenza, che oggi può realizzarsi soltanto attraverso una nuova ermeneutica che riesca a correlare il linguaggio del logos e del mythos. Oltre a Nietzsche, un’altra possibile lettura del pellegrinaggio spirituale è stata elaborata da Hermann Hesse. In Il lupo della Steppa, Hesse pensa che la panacea in grado di curare la lacerazione psichica del suo viandante – rappresentato da un intellettuale di cinquanta anni incapace di far convivere nella sua anima cultura e pulsionalità – sia di discendere dalle vette dello spirito per tuffarsi nel fluire irrazionale del divenire, abbandonandosi alla gioiosa imprevedibilità della vita. Anche in Siddharta il tema è speculare. Dopo tanto peregrinare, il protagonista arriva alla meta della ricerca, che non è altro che l’unità dell’Io e del Mondo, abbandonandosi al fiume eracliteo, alla magica sinfonia del creato. Il percorso del viandante per Hesse è sempre lo stesso, dalla cultura alla vita, ed è simbolicamente ribadito nell’abbandono di Castalia da parte dell’asceta della conoscenza, Josef Knecht, che per incontrare la vita ordinaria esce dalla propria torre di avorio e si riappropria dell’umanità perduta. Il significato simbolico della figura del viandante è racchiuso nell’idea di perdita del controllo dell’alterità, che costringe a rimettersi in giuoco e a confrontarsi con un vitalismo che ribadisce la priorità del vitalismo fenomenico, la sua irriducibilità alle categorie puramente astratte della ragione. È, in fondo, la metafora dell’estraneamento spirituale dell’uomo contemporaneo che abita il Mondo della tecnica. È l’attraversare un Mondo, improvvisamente diventato estraneo, nell’attesa di una riappropriazione, più utopica che pianificabile. Il vagabondare del viandante può rimandare anche ad un’ulteriore significazione, dove il viaggio diventa allegoria del cammino spirituale, che cerca e trova alla fine se stesso nel mondo delle cose oggettivate. Per Hegel nella Fenomenologia dello spirito, la coscienza, che ancora ignora, intraprende il suo cammino per giungere alla scienza dell’Assoluto stesso. Nel neoplatonismo il viaggio per mare simboleggia il cammino iniziatico che l’anima compie per arrivare alla conoscenza. Nell’induismo il viaggio è simboleggiato dal Samsara, l’infinita concatenazione di nascite-morti- rinascite che l’anima subisce per poter realizzare la Moksha o Mukti, la Liberazione. Anche il buddismo popolare ha prodotto innumerevoli storie di viaggi spirituali, anche ultraterreni. Leggendari sono i viaggi nel mondo sotterraneo di personaggi della mitologia buddista come Devadatta o il Bodhisattva Kuan-Yin. Nello sciamanismo, lo stregone effettua dei viaggi estatici nella terra degli spiriti, per ottenere la guarigione del malato o acquisire la protezione del villaggio. Nell’islamismo, il 27 del mese di ragab, Maometto viene rapito dall’arcangelo Gabriele e portato dalla Mecca a Gerusalemme. Durante questo viaggio notturno egli riesce miracolosamente a salire nei sette cieli dove incontra Adamo, Giovanni e Gesù, Giuseppe, Idris, Aronne, Mosè e Abramo. Prima del suo ritorno sulla terra il fondatore dell’Islam ottiene una riduzione dei doveri originariamente imposti da Allah ai fedeli. In ambito letterario, il viaggio è stato il simbolo controculturale per eccellenza. Ricordiamo la beat-generation ed i figli dei fiori che a cavallo tra gli anni sessanta e settanta sognavano la fuga verso sconfinati spazi e praterie del possibile: On the road di Kerouac è il manifesto di un’intera generazione. Nella nostra cultura, un’altra figura di viaggiatore leggendario è naturalmente Ulisse, e anche di questo mitico eroe si sono fornite interpretazioni molteplici e variegate chiavi di lettura sul significato del suo viaggio. Ci limiteremo, per ragioni di spazio, alle due più celebri e contrastanti fra loro: quella della scuola di Francoforte e quella di James Joyce. Nella Dialettica dell’illuminismo, Horkheimer e Adorno postulano nel personaggio di Odisseo il simbolo dell’infanzia dell’umanità, che nel viaggio si forma come soggetto razionale, contrapponendosi alla natura e dominandola. Odisseo compie un viaggio per mare – nella psicanalisi, simbolo dell’inconscio – combattendo e sconfiggendo mostri, ciclopi, creature fantastiche. Egli è soverchiato dalla potenza di questi terribili avversari, nondimeno riesce a vincere con la sottile arma dell’astuzia: è il trionfo del logos sulla forza del mito. L’errare di Odisseo riecheggia, quindi, la simbolica celebrazione del primo trionfo della neonata Ragione occidentale formatasi nella vittoriosa lotta contro le creature del mito. Alla fine del viaggio, la Ragione ha sconfitto la paura irrazionale della Natura, non più scrigno segreto di orrori e magie, ma terra di conquista da parte del logocentrismo occidentale. Proponendo una lettura del viaggio omerico assolutamente antitetica, James Joyce incorona – come Horkheimer e Adorno – Ulisse simbolo della modernità, ma, al contrario dei francofortesi, inscrive in lui la cifra della dissoluzione contemporanea della soggettività, rintracciando nelle peripezie dell’eroe la deflagrazione della discorsività razionale e l’apoteosi dell’inconscio. L’Ulisse diventa così il tragicomico racconto di una giornata interminabile di un ebreo irlandese Leopold Bloom a spasso per Dublino, nel cui inconscio risuonano tutti i rumori, gli strepiti, le grida, i pensieri e le percezioni della città. Joyce con l’aiuto di tecniche innovative mutuate dalla psicanalisi come lo Stream of Consciousness, riesce a descrivere la perdita dello spessore di senso e la crisi del soggetto moderno aggredito dal frastuono nichilista e dal caos di un Mondo privo di direzione. Abbiamo quindi due paradigmi antinomici del viaggio dell’eroe omerico: il primo celebra il trionfo della nascente razionalità moderna, il secondo la sua dissoluzione e decostruzione. Un altro autore la cui opera è indissolubilmente legata all’idea del viaggio, come allegoria di libertà mentale e confronto-incontro con l’Altro, è Bruce Chatwin. Nei suoi libri vi è un’originale commistione e con-fusione di resoconti di viaggio, elementi autobiografici, creazioni letterarie, racconti storici, fantasticherie. Il reale si mescola con il fantastico e l’atto dell’esplorazione fisica si confonde e si annulla con l’esperienza del vagabondaggio mentale. Chatwin è alla perenne ricerca di terre lontane e inesplorate, agli antipodi della civiltà moderna, dove incontrare l’Altro non significa ricondurlo nella cerchia rassicurante dell’identità tautologica, operare un movimento interno di rassicurante rafforzamento ed esclusione del diverso, come se il riconoscimento dell’inferiorità apparente dell’“esotico” garantisse la certezza etnocentrica dell’identità occidentale. L’Io dal confronto con l’Altro trae motivi di arricchimento della soggettività – non più arroccata in una massiccia, ma sterile difesa della logica identitaria – attraverso una dialettica infinita tesa ad assimilare ciò che nel diverso permette di potenziare l’identico, rispettandolo come tale e senza pretendere di annullarlo o di soffocarlo in un Aufhebung* hegeliano. __________ Aufhebung – termine tedesco difficilmente traducibile (in italiano si ricorre in genere a «superamento») perché ha un duplice senso: «conservare, mantenere», e insieme «metter fine, toglier via». Proprio per la compresenza di significati contrari in un’unica parola, Hegel la assume a designazione della dialettica, per indicare cioè una negazione che non sia nullificazione o abolizione. L’A. si ha allorché una determinazione concettuale venga pensata in unità con il suo opposto (scienza della logica). __________ Il viaggio diventa, quindi, con Chatwin l’allegoria dell’esplorazione spirituale e ci permette di chiudere la nostra carrellata sui cantori del vagabondaggio intellettuale con un rapido cenno alla psicologia del profondo junghiana. Jung fu un grande studioso di esoterismo, astrologia, alchimia, occultismo e mitologia. Nelle ricerche di Jung è vivido il tentativo di mediare tra il conscio e l’inconscio, l’Io e l’Es, per realizzare l’unità androgina ed archetipica. Nell’ideale alchemico della congiunzione e della trasformazione degli elementi, Jung ha riconosciuto una dinamica analoga a quella del processo d’individuazione, ovvero alla formazione e al divenire del Sé. Il tentativo di realizzare e riconoscere l’identità tra microcosmo e macrocosmo non è altro che la proiezione allegorica della ricomposizione del conflitto e della scissione tra l’Io e l’inconscio. È il principio d’individuazione che attiene al divenire del Sé: in questo senso è la riproposizione demitizzata di quel processo che la letteratura e la mitologia hanno simbolicamente indicato nel viaggio come allegoria della ricerca dell’armonia e della sintesi psichica. Il viaggio, quindi, diventa la ricerca di radici e d’identità. Ma nel viaggio, in realtà, l’Io è l’Altro. L’essenza del viaggio è trovare il Sé, ma come Altro. Questo ci ricollega con l’assunto dal quale siamo partiti, quando abbiamo indicato nella figura del viandante la metafora della crisi contemporanea. Ora se il viandante è l’emblema dell’estraneamento nichilistico, in qualche misura, egli è anche la cifra del suo tentativo di superamento. Il girovagare del viandante inscrive la traccia nel sogno umanistico di un neoecumenismo culturale, ma questa nuova sintesi non può avverarsi senza abbandonare la propria identità solipsistica e incontrare l’Altro. Solo dal confronto e incontro con il Totalmente Altro, con il Diverso, si può superare l’impasse spirituale e costruire una nuova una nuova cultura. Questo significa avvicinarsi a tutto ciò che è stato rimosso dalla cultura occidentale, aprirsi all’esplorazione di quei margini che costituiscono il Fuori dell’apparato tecnologico, cercare nuove forme e nuovi percorsi. Ma a differenza dello sterile pensiero controculturale, l’apertura deve essere realizzata senza rinunciare al tentativo di una forte teorizzazione che può trovare la giustificazione solo in un’autentica bildung*. È un andare verso l’Altro senza intenti coercitivi, ma neanche dissolvendosi nell’estraneità o liquidando l’identità nell’ibridismo multiforme delle mode, il cui livellante assecondare le capacità medie delle folle finisce per essere una nuova forma di massificazione, a discapito di ogni vera apertura sincretica. __________ Bildung – Termine tedesco che significa «cultura», «formazione», «educazione» __________ BibliografiaGalimberti, Psiche e techne, Feltrinelli. Nietzsche, Opere complete ( a cura di G. Colli e M. Montinari) Adelphi. Hesse, Il lupo della steppa, Mondadori. Hesse, Siddharta, Adelphi. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, Mondadori. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia. De Places, Platonismo e tradizione cristiana, Celuc. Filippani – Ronconi, Upanisad antiche e medie, Bollati Boringhieri. Duyvendak, A Chinese “Divina Commedia”, Leiden. Eliade, Lo sciamanismo, ed. Mediterranee. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri. Kerouac, On the road, Mondadori. Horkheimer, Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi. Joyce, Ulisse, Mondadori. Chatwin, In Patagonia, Adelphi. Jung, Opere, Boringhieri. |