Teologia degli antichi sacerdoti Catari – Parte 9

Storia NascostaI simboli della fede cristiana

“Il Credo”, simbolo per eccellenza della fede cristiana, viene proposto nel catechismo cattolico con articoli tanto evidenti da rendere superfluo ogni approfondimento.
Nel battesimo non si chiede l’adesione alle rivelazioni divine, come avveniva presso i Catari con l’imposizione del IV Vangelo, perchè a questo “documento” ha creato non pochi problemi nella Chiesa cattolica. In sostanza, il credo di Gesù è reso in termini tanto mondani da metterne in ombra la dimensione animica e divina.

Teologia degli antichi sacerdoti Catari – Parte 9

di Luigi G. Navigatore
a cura di Athos A. Altomonte

I simboli della fede cristiana

“Il Credo”, simbolo per eccellenza della fede cristiana, viene proposto nel catechismo cattolico con articoli tanto evidenti da rendere superfluo ogni approfondimento.

Nel battesimo non si chiede l’adesione alle rivelazioni divine, come avveniva presso i Catari con l’imposizione del IV Vangelo, perchè a questo “documento” ha creato non pochi problemi nella Chiesa cattolica. In sostanza, il credo di Gesù è reso in termini tanto mondani da metterne in ombra la dimensione animica e divina. Il Credo liturgico propone come verità che Gesù “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi e il terzo giorno è resuscitato per salire in cielo, dove siede alla destra del Padre”.

Il primo articolo di fede viene attestato al sacerdote Rufino di Aquileia (404), speculare a quello contenuto nella Apologia di Marcello vescovo di Ancira (Cappadocia) del 340; il testo di Rufino è considerato importantissimo perché coincidente con l’antico “Credo Romano” in lingua latina, che una tradizione voleva fosse stato scritto dai 12 apostoli. Il secondo articolo, quello della “discesa agli inferi” è attestato nella Formula di Sirmio.

Chi ha scritto i testi era ben consapevole che i sommari sono utili per coloro che già conoscono la materia, ma del tutto negativi per chi solo da essi deve apprendere la sapienza. Perché prestare fede ad un sommario quando si dispone del testo originale? Ancora oggi, dopo duemila anni, continuare a motivare dicendo che alla massa competono i sommari, più che una giustificazione costituisce una condanna per la Chiesa docente.

Se da un lato la ragione teologica che ha indotto la Chiesa a costruire formule di fede consisteva nell’impedire che la storicità di Gesù oscurasse la figura del Cristo Eucaristia; dall’altra parte sembra incredibile che uomini di fede si siano sbranati a vicenda, non già sull’esegesi dei testi sacri, ma sulle loro formulazioni di verità concepite da quei testi.

Nelle “giostre oratorie” del Mezzogiorno di Francia, i sacerdoti si scontrarono su ciò che stava dietro le formule. In pratica, lo scontro era sul come dedurre il Cristo dalla scrittura e sulla opportunità, per i sacerdoti catari, di non formulare soltanto il Credo che avrebbe ingessato il fedele ad interpretazioni che avrebbero circoscritto la fede alla sola persona storica di Gesù; che cioè egli venisse inteso solamente come fondatore di una religione (fra le tante) e come soggetto che aveva goduto (lui solo) di un regime corporale, animico e divino del tutto speciale.

Un esempio eclatante sono le parole che fanno capo alla “Resurrezione”: Egli è risorto. Questo vocabolo sottrae alla meditazione di un articolato di rivelazioni, che gli evangelisti hanno affidato a termini diversi, che intendono come significato quello di “svegliare”, e “collocarsi in alto” [egheiro e anistemi]. Così, ciò che noi intendiamo vagamente per “risorgere” non trova un vocabolo corrispondente nei vangeli originari e, di conseguenza, si invita a credere ad una dubbia parola umana, proprio mentre si invita il fedele a leggere ed approfondire la Sacra Scrittura.

Questi dibattiti, in oggetto al tempo dei catari, non rimasero sotterranei; ma per gli “abilitati” dalla Chiesa erano … perle date ai porci.

Ciò posto, anticipando in parte quanto verrà esposto in seguito, per focalizzare la teologia di quegli antichi sacerdoti catari, sarebbe utile considerare ciò che loro hanno considerato:

1)

Che oggetto della ricerca è sempre e comunque il Cristo, Via della Vita.

2)

Che la Scrittura non è esposta in una parlata materna, ma attraverso un metalinguaggio.

3)

Che per la plasticità propria del parlare ed ancor più dello specifico metalinguaggio è Polisemica.

4)

Che le narrazioni hanno valore metaforico, pur senza escludere che i fatti possano essere reali. Che hanno per tema il Cristo e non la storia dell’umanità o di una etnia.

5)

Che la Verità di fede è un mistero mai totalmente conosciuto e quindi ingabbiabile in una struttura concettuale e linguistica umana, ma è proteiforme ed a misura di colui al quale va predicata.

6)

Che ogni ricerca deve partire da quell’unico punto comune costituito dal testo sacro biblico (Antico e Nuovo Testamento) e gli Atti.

7)

Che l’uomo è anticamente un’Anima, ed il suo corpo costituisce la dimensione transitoria dell’anima. La sua storia è gestazione dell’anima.

8)

Che va predicato ciò che si crede, nell’ osservanza al sensus fidei dei Sacri Testi che predicano il Cammino di Verità mai totalmente conoscibile.

Il limite dell’approccio alla Bibbia consiste nella eccessiva storicizzazione del Libro che in pratica viene letto quasi fosse l’epopea dell’intera umanità, e poi di una singola anche se fantasmatica etnia. C’è quasi un orgoglio luciferino nel considerarla come narrazione di una serie di storie umane, nelle quali si cerca poi di ritrovare un significato di fede. Non a caso interi libri (Levitico e Numeri) sono solennemente dichiarati “Parola di Dio”, ma in pratica risultano totalmente emarginati.

Tutta la Rivelazione (Antico e Nuovo Testamento) aveva una forte caratterizzazione esoterica; gli accademici che la studiano conoscono bene questo fenomeno, ma in pratica ne prescindono, preferendo considerare il testo sacro alla stregua di un qualsiasi documento laico. Così è stato relegato nel limbo delle curiosità l’amore degli agiografi e poi dei Padri per la gematria*, la isopsefia**, la metafora, il simbolo, e si riconosce un valore quasi nullo alla meditazione del Talmud e della Kabbalah.

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* Gematria – (o gimatréyah) Sistema criptico nel quale ogni lettera dell’ alfabeto ebraico indica un numero; dunque ciascuna parola della Bibbia ha un proprio valore numerico, dato dalla somma dei valori numerici delle lettere che la compongono.

** Isopsefia – Quando due o più parole hanno identico valore numerico si dicono “isopsefiche”; l’“isopsefia” accomuna parole di significato diverso. Il termine deriva da Psefia che è un sistema abbreviativo criptico basato sui valori numerici delle lettere dell’alfabeto greco. Accanto alle abbreviazioni, comuni alle scritture delle due lingue greca e latina, la sola lingua greca adottò un altro tipo di abbreviazione, basata sulla proprietà delle lettere di quell’alfabeto di essere impiegate come numeri. Questo sistema (una specie di criptogramma che esprimeva lo stesso concetto della parola) non incontrò grande favore presso i primi cristiani per via delle oscurità cui dava luogo.

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Il sacerdote antico (ed anziano ) che conosceva bene questa struttura, sapeva di doversi sganciare dalla fattualità che connota la superficie del testo, per evidenziarne all’ascoltatore il nascosto o “misterioso” contenuto; consapevole del metodo esegetico della scuola di Alessandria, conosciuto anche dai Padri.

Per i Dotti Abilitati, frastornati dalla singolarità, per non dire stranezza, delle conclusioni dei Padri (figurarsi degli antichi sacerdoti), il loro procedere viene considerato come una germinazione mentale confinante con la fantasia. Non sembravano rendersi conto che così facendo proiettavano sul passato (e avrebbero proiettato nel futuro) la mentalità da topi di biblioteca, studiosi cioè adusi a trattare con testi ingessati e morti nella loro esposizione letteraria.

Oltretutto la conclusione secondo cui i Padri condivano i testi sacri con la fantasia, non suggerisce un modo per andare oltre la vantata storicità dei testi. Se le narrazioni bibliche sono storia (per altro carica di dubbi ed incertezze) resta il problema di come trarre da questi fatti un messaggio divino.

Gli attuali Dottori della Legge, ignorando l’articolazione del metodo esegetico, hanno allora adottato dei procedimenti letterari derivanti dalla filologia laica, e li hanno direttamente applicati al testo sacro. Queste metodiche sono allora diventate subdoli strumenti che consentono una libera interpretazione, dissimulata sotto il manto di un procedere “scientifico”. Sostanzialmente i generi letterari dipendono infatti da chi li utilizza.

Per fare un esempio: non è comprensibile perchè si debba riconoscere valore mitico alla storia di Adamo e non anche al Decalogo. Poco si riflette sul fatto che il genere letterario è una specie di cavallo di Troia, che consente al Dottore della Legge di farsi giudice del valore e del significato dei testi. In questo modo sono loro a fissare il contenuto di ciò che viene riconosciuto come Parola di Dio.

In altre parole se, per lo storico che vuol comprendere il significato di eventi passati, il presupposto ineliminabile è la determinazione del contesto storico. Per il teologo ed il sacerdote la posizione si inverte: egli deve esaminare e precisare il contesto nel quale sta predicando e attribuire un valore solo marginale a quello (sempre dubbio) nel quale si formò il Libro.

La Bibbia dovrebbe bastare a se stessa, e non va riconosciuto un peso determinante al momento della sua redazione. È inconcepibile una Rivelazione che si porti a rimorchio la Biblioteca di Alessandria.

Proviamo a spiegarci con un esempio: se per comprendere l’assassinio di Aldo Moro è imprescindibile fare chiarezza su quel periodo storico politico, è insignificante per il teorema di Pitagora conoscere ed analizzare il mondo in cui visse ed operò Pitagora.

Il teorema, come la Bibbia, predica direttamente tutto se stesso.

Nel ripercorrere le interpretazioni, con particolare riferimento al IV Vangelo, che hanno guidato gli antichi sacerdoti, è bene innanzitutto precisare due aspetti fondamentali per una corretta prosecuzione:

1)

Nel linguaggio sacro, che è metalinguaggio ieratico, la narrazione di eventi si trasforma in proiezione di un modello astratto. Proprio mentre fanno “cronaca”, gli Evangelisti costruiscono forme puramente letterarie, libere da connotazioni spazio-temporali (storicità); sagome letterarie capaci di articolare un complesso e sotterraneo discorso teologico. Ed è così che molti percorsi teologici si nascondono al di sotto della narrazione.

2)

In questa ottica, nessuna opera è stata mai tesa a dimostrare che Giuda e non Giovanni era il discepolo amato; ma la “sagoma” di Giuda dovrà pur avere una sua valenza teologica nei racconti Evangelici, per cui nessun a opera e nessun operatore avrebbe mai perso il proprio tempo a trattare di un personaggio, già abbondantemente utilizzato come bersaglio per un tiro a segno teologico ed unico abitante dell’Inferno.

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