Teologia degli antichi sacerdoti Catari – Parte 14

Storia NascostaRaffigurazioni e attributi dei “Nomi” evangelici

Esaminare nel profondo il significato dei “Nomi” riportati dai cronachisti, porta alla luce risvolti inaspettati.

Teologia degli antichi sacerdoti Catari – Parte 14

di Luigi G. Navigatore
a cura di Athos A. Altomonte

Raffigurazioni e attributi dei “Nomi” evangelici

Esaminare nel profondo il significato dei “Nomi” riportati dai cronachisti, porta alla luce risvolti inaspettati.

Giuda Iscariota

I oudas, I Ou das

«Iouda – Ioudas», già presente nel Vecchio Testamento, nel NT indica diversi personaggi:

– il figlio di Giacobbe che dà nome alla tribù ed alla terra che circonda Gerusalemme;

– due altri apostoli e cioè Giuda di Giacomo (Lc.6,16) e Giuda “non l’iscariota” di Atti 1,13 e Giovanni 14,22;

– il fratello di Gesù (Mt. 13,55 e Mc. 6,3)

– Giuda Iscariota [citato in Matteo: Iouda iskariotes; in Marco: Iouda o Ioudas iskariot; in Luca: Iouda (declinabile) Iskariot o iskariotes; in Giovanni Iskariotes. In alcuni codici e sempre in Giovanni, viene riportato (6,71) “Iouda apo Karuotou”]

– Iouda (in Giovanni Ioudas), può scomporsi in “Iou” “da”: l’Uno, l’Unico (popolo) o un umore velenoso ; e terra – uomo terrestre.

– I ou diventa : “Egli è sua terra” – “Egli è suo uomo”

– I ou udas: “Quello del suo Canto” (scrittura)

Al nome Giuda viene quasi sempre aggiunto l’espressione, tradotta con Iscariote o Iscariota, a cui non è mai stata data una spiegazione specifica, se si esclude quella forzata di sikariot, usata per definire sicari gli zeloti, che in greco suona Iskariot oppure o’ iskariotes.

O Is kar i O-t : Egli omega e messo a morte

La lettera O, omega Ω, significa perfezione mentre la T (th di teta) è thanatos morte o annullamento, è usata per indicare i condannati a morte.

Ois kar io t : O agnello che stai a capo guarisci i moribondi. A cui può seguire O Is kar io t; Is kario t es; Ois ka r’ iota es. La frase «apo karuotou» sillabata «apo ka rua otou» significa “sulle alture come figlio delle folle” mentre «karua otou» “i semi del debole di mente”.

Diabolos

Qualificato con espressioni negative a secondo dei ruoli ricoperti nei racconti, da Giovanni (6,70) Giuda è chiamato diabolos, o satan. Ma il fonema, che viene comunemente collegato all’idea di diabolico, compitato in diversi modi assume diversi significati:

Di abolos, doppiamente infantile, designa la dimensione mascolina-femminina dell’uomo. In senso negativo, è l’uomo che rifiuta di crescere e di conseguenza, incapace di raggiungere il livello dell’anima. In senso positivo, invece, la doppia dimensione indica il raggiungimento del massimo sviluppo materiale, ed essere pronti a ricevere i benefici dell’anima.

Dia abolos è colui incapace di considerare le cose divine.

Dia bolos, significa gettare la rete per catturare cose divine e chi imprigiona le aeriformi cose divine. In negativo l’espressione allude all’esclusivismo del popolo giudeo. In positivo segna la predicazione delle verità divine che, volando fra cielo e terra, vengono fermate e raccolte dal mistico uccellatore, così che possano essere annunciate al mondo.

Satanas

Luca (22,3) riferendosi a Giuda parla di Satanas, e come accade col Diabolos di Giovanni la tendenza comune è di accostare il termine al concetto di demonio.

Compitando il fonema Sat anas e considerando che “anas” equivale ad “anacs” si arriva a leggere il Signore vaglia. Il senso dell’espressione va dedotto dal libro di Giobbe, dove viene descritta la figura del “Satan”, che tratta la vicenda dell’Eletto. Qui il Satana è un arcangelo partecipe della corte di Dio, che a lui si relaziona e che da Dio riceve il comando di tentare Giobbe. Satan, dunque, non è stato da tutti identificato con il “demonio”, ma con la tentazione che assale chi non sa darsi completamente a Dio. Nel qual caso, “Satan” simboleggia il tormento di un uomo incapace di dare prevalenza all’anima, soffrendo a quelle inquietudini occorse anche a s. Agostino. È questo il senso del giudizio di Gesù quando definì “Satana” Simone-Pietro. Non perchè “diabolico”, ma perchè ragionava nei ristretti limiti della propria corporeità.

Satan, allora, è la raffigurazione del sacerdote diviso fra la totale adesione a Dio, che ha assimilato nel “boccone” del cenacolo, e la dipendenza dalla “dura cervice” che vuole affermarsi nella dimensione dell’esistenza fisica. Satan è la tentazione alla quale fuggivano i monaci medievali (rendendosi “autonomi”) ed i sacerdoti catari (rendendosi “indipendenti”), evitando di incontrare i vescovi che volevano strapparli dal romitorio, ordinandoli preti secolari così da renderli loro sottoposti.

Uno dei Dodici

“Eis «ek» ton dodeka” nei racconti evangelici connota specificamente Giuda dandogli una forte valenza teologica. Ordinariamente si legge l’eis per tis e si intende uno qualsiasi; esso indica invece l’individualità, la specialità, l’isolamento, perciò, deve considerarsi un vero e proprio sostantivo. Se poi l’espressione viene compitata come “eis ekton do deka”, rivela che Giuda è “l’unico che appartiene alle dieci chiese/case/famiglie”. È il singolo (eis) sacerdote eucaristico fra “i Dieci” cioè in mezzo alle Genti raccolte in assemblee. Se “kton” si intende come participio sostantivato di “ktao” (possessore, sposo) si può leggere l’unico sposo delle dieci famiglie.

Per intendere meglio questo titolo conviene fare un discorso più articolato sui “Dodici”, tenendo conto che i vangeli parlano anche dei “dieci” e degli “undici”, numeri che sembrano indicare la perdita di uno o due membri del collegio, ma che invece hanno un loro autonomo significato teologico.

Anche se la chiamata dei Dodici avviene progressivamente, alla fine sembra che si formi un unico e nuovo soggetto, cioè, che il collegio dei dodici subirebbe la perdita di qualche membro. Ma, a ben riflettere questo gruppo non è composto di soggetti omogenei, in quanto comprende due personaggi qualificati che sono Pietro il Pastore Universale e “l’isolato fra i dodici” cioè Giuda l’eletto. Ne consegue che se il collegio perde uno dei due, non conserva più quella struttura che lo caratterizza, e si muta in qualcosa di diverso. Proviamo allora ad operare delle distinzioni affidandoci al termine che mostra di poter essere variamente inteso.

Se “dodeka” viene considerato nella sua unità, come insieme di soggetti disomogenei, esso indica ciò che oggi chiamiamo “clero”, cioè l’insieme dei ministri (e servi) della Chiesa.

Quando però lo si compita come “Do deka” (“Do” sta per case, famiglie, templi) si può individuare un’altra figura, quella dei “Dieci per le famiglie-templi” che evidenzia all’interno del “clero” i “dieci servi” di unità, presenti nelle chiese particolari e cioè quelli che oggi sono i Vescovi residenziali.

A questi “dieci” si possono aggiungere i titolari delle due mansioni speciali, e cioè Pietro pastore e Giuda sacerdote; ed allora si invera quanto profetizzato dalle dodici tribù che, dopo Salomone, si divisero tra loro. Di esse, “dieci” formarono il regno di Samaria, considerato “gentile”, e “due” (Simone e Giuda) il Regno di Giuda che si proclamava unico titolare della funzione sacerdotale (Sacerdoti dell’origine). Quest’insieme di ministri diversi (Dodici indica totalità) possiamo chiamarlo “clero”.

Quando ai “dieci” (vescovi) si aggiunge Pietro Pastore Universale, si ha una nuova figura, quella degli “Undici” che non esprime la quantità ridotta dei membri del collegio, ma l’ordine episcopale unito a Pietro. Per intenderci, quel Concilio Ecumenico al quale non partecipano i sacerdoti eucaristici.

Colui che consegna

Usato in tutti i testi evangelici viene il termine “o paradidous” (dal verbo paradidomi) significa colui che consegna, che nel linguaggio dell’epoca indicava trasmettere, tramandare, accordare, permettere, concedere. S olo in un contesto legale dare in potere, e consegnare ad una autorità.

Se si compita opa ra didous” si può leggere la Porta che dona (Gesù è la porta). Comunemente, a questo verbo viene aggiunto il pronome “auton” tradotto con “Lui” (riferito a Gesù), ma è possibile considerare questa parola anche come aggettivo del verbo “auo” ardere. Si può intendere, allora, che si sta consegnando l’ardente e cioè lo spirito, considerando le parole di Giovanni alla morte di Gesù: che rese il suo spirito.

La scelta fra le due accezioni del verbo dipende dal lettore. Se ritiene di trovarsi in un contesto giudiziario, opta per il significato di consegnare al giudice; presupponendo così il tragico epilogo: “Consegnò perché fosse crocefisso”. Mentre, nel contesto teologico della crocifissione e della Cena, vedrà in Giuda la figura che presenta a Dio l’Agnello pasquale (Gesù crocifisso) e che distribuisce quel pane che Gesù aveva posto nella sua bocca di mistico pellicano.

Di fatto, però, l’accezione negativa “tradire” è prevalsa su quella più precisa di “consegnare”. E il consegnare al giudizio, atto di per sé neutro, viene inteso come consegnare alla morte. Ed è proprio sulla scelta dell’accezione negatività del termine che si regge la condanna irreversibile di Giuda.

Il tesoriere infedele

In Giovanni 12,6 Giuda viene segnato con il marchio infamante di cassiere ladro.

Per indicare “borsa del danaro”, pur disponendo di vocaboli come ballantion”, e “faskolion” (Gv.12,6) il cronachista sceglie un termine che ha assonanze con l’eucarestia, perchè glossokomon” può significare anche sarcofago, ma contiene il fonema glossa che indica la parola. E se si considera “komos” un deverbale da “k omeo”, allora la borsa diventa nutrimento della Parola e il suo contenuto si tramuta da vile moneta, in divine rivelazioni. Ne scaturisce una icona rispetto alla quale il termine ladro configura una indebita appropriazione delle Verità della fede, equivalente a quella gelosia della Parola, tratto caratteristico di certo clero.

In questa ottica, si può leggere diversamente l’intero passo, e dedurne una profezia sul sacerdozio poco misericordiosa: (Giuda) disse questo non perché gli interessassero i poveri (gentili), ma perché era uno che si appropriava delle cose degli altri, perciò, disponendo dell’accessibile Arca della Parola (Rivelazione), ne traeva solo gli scarti. Egli faceva colare solo gocce” (… ta ballomena eba stazen ).

Viene così equiparato ai Dottori della Legge, che offrivano ai poveri una rivelazione spicciola, goccia a goccia, oppure, riprendendo l’espressione di Giovanni, i suoi aspetti più miserevoli: “quelli che si potevano anche gettar via come scarti (ballomena)”.

Inteso in tal senso, il testo Giovanneo delinea un profilo negativo dell’Eletto (Giuda) che la Chiesa non poteva eliminare, in quanto profezia sul futuro sacerdozio eucaristico. Tuttavia, nell’acquisirlo, non ce se ne può servire per condannare senza appello Giuda, perché ci si deve ricordare che anche Simone-Pietro, pur qualificato “uomo di poca fede”, godette della fiducia di Gesù.

I versetti infamanti

Disseminati nel testo evangelico, seppure diretti ad un personaggio innominato, vengono riferiti a Giuda i trancianti e definitivi giudizi riportati da Luca (22,22), Marco (14,21), Matteo (26,24) e Giovanni 17,12. Espressioni come “Guai a lui…meglio se non fosse mai nato” e “Figlio della perdizione” sembrano marchiarlo in modo definitivo e senza via di uscita.

Chi recepiva questi come irretrattabili giudizi di condanna a Giuda, non riusciva a cogliere le tante contraddizioni presenti nell’immagine convenzionale del “traditore”, né poteva aprirsi ad una lettura positiva del “personaggio”.

Ne da testimonianza s. Girolamo, che pur avendo a disposizione molti vocaboli per inchiodare Giuda al suo tradimento, nella sua Vulgata non calca la mano, e col suo “tradere”, verosimilmente comprende, come il Giuda letterario profetizzava un sacerdote che soffre un’intima contraddizione, che viene tuttavia incaricato di consegnare Gesù al mondo, quale Ministro della Parola e della Cena.

Che i versetti infamanti meritino un approfondimento lo suggerisce il comportamento dei commensali della “Cena”, che sembrano non dare troppo peso a quel “Guai…” detto da Gesù, interrogandosi su chi avrebbe dovuto consegnarlo. Essi possono essere intesi in maniera diversa.

13,2: “E mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, di Simone, di consegnarlo…”; può essere intesa in modo diverso se solo quel “Diabolos” lo si traduce come “doppiamente bambino”, riferendolo alla persona di Gesù. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, gli si accredita quella infanzia che permette di entrare nel Regno di Dio; e se si dà peso al termine cuore si svela come Gesù avesse chiamato il suo discepolo: per via di amore.

13,18: “Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho eletto; ma deve adempiersi la Scrittura: uno che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno…” esprime qualcosa di ben diverso se ep eme” viene tradotto “per me” e non “contro di me”. Avverte infatti che il sacerdote si sta mettendo in moto per consegnare al mondo la divinità di Gesù.

13,27: “E dopo quel boccone entrò in lui Satana. Gesù allora gli dice: quello che devi fare, fallo presto…”; ricava la sua negatività dalla negatività del termine “Satan” anche se la parola ha un valore neutro. Si intende, allora, che proprio la missione affidata mise in crisi Giuda, e che Gesù lo confortò dicendo: “Non titubare, agisci di slancio” perché, come aveva insegnato, il Regno di Dio va conquistato con le azioni e l’audacia.

Nei testi citati c’è un passaggio che generalmente non viene sottolineato in quanto il topos diabolico è in pratica diventato per molti teologi una specie di frullato, una tenebra in cui tutte le vacche sono nere con riferimento al fatto che a suggerire a Giuda l’idea di “consegnare” Gesù è il “diabolos”, mentre chi lo fa entrare in azione è il “Satan”.

Questo variare di nomi diabolici è segno di un dinamismo teologico, di un procedere (in senso buono o cattivo) della sagoma ambivalente di Giuda-sacerdote. Tralasciamo allora l’idea secondo cui il fonema “Diabolos” vada riferito proprio a Gesù che elegge, e riferiamolo invece a Giuda. Il testo annuncerebbe allora che il desiderio di consegnare non nasce da un io superiore, cioè quello animico, ma da quello corporeo che è doppiamente infantile (di-abolos).

L’uomo Giuda considera il ministero che gli viene offerto solo nella dimensione umana del potere personale e della supremazia sociale. E per questo la sua adesione a Gesù (come quella di Simone), è puramente esistenziale, il suo stesso ministero diventa tentazione (Satan).

Giuda entra in crisi quando (a somiglianza di Giobbe) si rende conto di perdere tutto se stesso, e di non dover seguire quella falsa strada di vita (mondana) profetizzata nel racconto di Adamo. Per intenderci, Adamo preferì una eventuale e limitata immortalità biologica alla eternità animica promessagli da Dio; e per attuare il suo piano generò un figlio della carne, attraverso il quale si illudeva di aver conseguito l’immortalità, perché anch’egli avrebbe generato un altro figlio. Ma naturalmente fallì, e la morte regnò nel mondo.

Giobbe, che credeva di essere buono e gradito a Dio perché colmo di ricchezze, perdette beni e famiglia ed entrò in una crisi profonda. Solo quando comprese, ritornò a quel Dio che mai lo aveva abbandonato. Però, quando si slancia nella morte (appeso al legno), recupera la fiducia dalla quale nasce chiarezza e pentimento. Matteo chiaramente attesta che Giuda si pentì.

I Sacerdoti dell’origine

Gli archiereis” indicano gli eletti, che ereditano da Abramo la promessa di essere sacerdoti e che vantano di rimanere tali anche nella Chiesa di Gesù.

Intendendo il fonema archè” non nel significato di superiorità (sommo), ma di una antecedenza (primo), si intendono gli archiereis” come “i sacerdoti di prima o dell’origine”. Il tratto che li distingue e cioè il potere e la supremazia, configura il motivo per cui si oppongono a Gesù che ha impostato il suo sacerdozio sul principio di “servire”.

Simone

Dall’Antico Testamento i cronachisti recuperarono l’endiadi Simone-Giuda “compagni di cattiverie” (come dice Zenobio) quando vendicano atrocemente il rapimento della sorella Dina (Gen 34). Questo richiamo serve a precisare che entrambe le figure, nate per camminare insieme, simboleggiano qualcosa di negativo che viene attuato a danno dei “gentili”. E qui va ricordata la polemica di Paolo che contesta a Pietro il suo giudaismo.

Dall’Antico Testamento si evince che Simone e Giuda portano i nomi delle due tribù che costituiscono il Regno di Giuda e ne diventano eponimi, sicché, quando sono citati insieme, simboleggiano “gli Eletti”, giudei che si consideravano Unico Popolo di Dio, ma che al loro interno si contrapponevano in termini di forza. Questo equilibrio di forze servirà a riempire di simbolismo l’elezione di Simone al rango di “Pietro”. Ed infatti nella Chiesa, nuovo popolo eletto, il rapporto si rovescerà e sarà il debole ed innominato Simone ad essere Pietro, segno visibile e storico dell’unità. Ma, in senso ancor più generale, per questa sua antica posizione di subalternità nella Verità (la tribù di Giuda se ne credeva unica titolare), Simone è il simbolo di coloro che da deboli sono diventati forti, e cioè proprio i Gentili. Non a caso egli è presentato come un Galileo e un pescatore, cioè un gentile ed uno che recupera e raccoglie dal mare quei “pesci” che simboleggiano i gentili. La figura letteraria di Pietro sarà dunque bifronte: per un verso indicherà la Chiesa Gentile a fronte del gruppo degli eletti (Giuda), per l’altro ne mostrerà l’unità ricavata dal Cristo.

Quanto a Giuda il discorso si fa più complesso. Il profilo di Giuda, oltre ai tratti dominanti della tribù omonima, eredita dall’Antico Testamento un forte spessore. La tribù era detentrice del Tempio, raccoglieva i Dottori della Legge, gli Scribi ed i molti gruppi religiosi. Possedeva l’Arca dell’Alleanza, cioè la ricchezza di Dio, e offriva nel Tempio i sacrifici a Lui graditi.

Osservati con attenzione, tutti questi elementi possono riferirsi a Giuda figura sacerdotale. Ed infatti all’interno dei “Dodici” Giuda è colui che gestisce la ricchezza del Maestro (borsa); di essa (la sua parola) si impossessa (era ladro), per usarla come crede; gestisce il suo corpo (il tempio) che consegna ai sommi sacerdoti. Infine, proprio consegnando Gesù, che a lui esplicitamente si affida sotto le spoglie del “discepolo amato”, attua concretamente il sacrificio pasquale del vero Agnello di Dio.

torna su